L’ufficio divino
Quel che amiamo in san Benedetto è che la ricerca di Dio è concomitante con la sua scoperta. Anticipando Pascal di una buona decina di secoli, il nostro grande Patriarca ci assicura che Dio è il primo all’incontro: «Prima ancora che mi invochiate vi dirò: “Ecco sono qui!”» (RB, prologo). Ed è in quest’atmosfera di gioioso ottimismo che siamo invitati a cantare il Dio tre volte santo, sempre misteriosamente presente, assente e desiderato, esigente e tenero, tuttavia mai lontano.
Con realismo, san Benedetto ci avverte che il tributo di lode e di adorazione che egli chiama l’Ufficio divino costituisce un incarico reale, al modo del legionario sotto le armi, l’adempimento del dovere, pensum servitutis (RB 50,4). Ma l’Opus Dei è ben altra cosa che un ufficio esigente una certa dose d’energia umana. Il nome stesso che gli è dato è carico di un significato più misterioso di quanto appaia. A prima vista si sarebbe tentati di non cogliervi che un genitivo obiettivo: «l’Ufficio divino» sarebbe il lavoro intrapreso per Dio, in onore di Colui al quale si indirizza, ciò che è lungi dall’essere falso. Ma non vi dobbiamo scorgere ugualmente un genitivo soggettivo, significando l’Opus Dei l’opera che proviene da Dio, in cui lo stesso Signore è il soggetto dell’azione? Egli ne ha ispirato tutte le parti, ne è l’autore e l’ordinatore nel momento stesso in cui esso si realizza.
Forse è là che si nasconde il segreto della nostra vocazione di cantori della lode divina: prestiamo il nostro cuore e le nostre voci all’espressione di una liturgia già celeste che ci oltrepassa infinitamente, che viene da Dio e a lui risale, al punto che, nella salmodia corale, è Dio che canta Dio attraverso l’uomo. Questo è il pensiero dei grandi fondatori monastici. Ecco cosa diceva Dom Romain Banquet: «La generazione del Verbo è il cantico per eccellenza dell’Ufficio divino. L’Opus Dei è Dio che celebra egli stesso la sua lode mediante il ministero del suo Verbo incarnato e della Chiesa, sua sposa. Il testo sacro dei salmi è un dettato di Dio». La grande stima con la quale gli antichi consideravano l’Ufficio divino fu la fonte della loro spiritualità.
Poiché la liturgia non viene dall’uomo, in quanto essa oltrepassa infinitamente le nostre capacità, solo essa disseterà le anime che si abbeverano alla sua fonte fino alla fine dei tempi. Come dice san Giovanni Crisostomo nel commento al Salmo 41: «Nulla eleva l’anima, nulla le dona delle ali, nulla la strappa alla terra, nulla la eleva dai sensi e dalle passioni, nulla le fa gustare le caste delizie della sapienza, come il canto degli uffici divini». Quel che i figli di san Benedetto devono al loro Padre è di averli lanciati nell’ammirazione di Dio, liberandoli anzitutto da ogni tentativo di ritorno su di sé, all’opposto di quella brama di autoanalisi cui gli spirituali saranno affezionati a partire dal Rinascimento. Questo implica una certa verginità dell’anima, suggerita nella conclusione del capitolo XIX della Regola (De disciplina psallendi). Vi si legge questa breve ingiunzione, diventata una massima: «Sic stemus ad psallendum ut mens nostra concordet voci nostrae», «partecipiamo alla salmodia in modo tale che l’intima disposizione dell’animo si armonizzi con la nostra voce». Tutto è detto in queste ultime parole: non che la nostra voce si armonizzi con i sentimenti dell’anima, il che sarebbe il progetto di una sincerità individualista, come se si dovesse dare tutta l’importanza ai nostri propri sentimenti, bensì «che l’intima disposizione dell’animo si armonizzi con la nostra voce». Poiché ciò che conta è la Vox Sponsae, è la voce della Sposa di Cristo, e sta a noi adattarci, sta a noi innalzarci sino a essa.
Quel che dobbiamo a san Benedetto è di averci permesso di realizzare la stupefacente supplica del Salmo 105: «Salvos nos fac, Domine, Deus noster, et congrega nos de nationibus, ut confiteamur nomini sancto tuo, et gloriemur in laude tua». Traduciamo onde meglio comprendere: «Salvaci, Signore Dio nostro, e radunaci dalle nazioni, affinché possiamo esaltare il tuo nome santo e troviamo la nostra gloria nell’espressione di questa lode». In breve, e contro l’opinione dei moderni che sbagliano fine, la liturgia non ha per fine la riunione dei popoli. Al contrario, è l’assemblea dei fedeli che ha per fine la lode divina. Ed è in questa lode che si trova la fonte della propria gloria. «Ut gloriemur in laude tua». Chiamiamolo teocentrismo: per averlo dimenticato, stiamo morendo.
[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Ce que nous devons à saint Benoît, in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome II, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2010, pp. 527-541 (qui pp. 530-533), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 2 - continua]
Quel che amiamo in san Benedetto è che la ricerca di Dio è concomitante con la sua scoperta. Anticipando Pascal di una buona decina di secoli, il nostro grande Patriarca ci assicura che Dio è il primo all’incontro: «Prima ancora che mi invochiate vi dirò: “Ecco sono qui!”» (RB, prologo). Ed è in quest’atmosfera di gioioso ottimismo che siamo invitati a cantare il Dio tre volte santo, sempre misteriosamente presente, assente e desiderato, esigente e tenero, tuttavia mai lontano.
Con realismo, san Benedetto ci avverte che il tributo di lode e di adorazione che egli chiama l’Ufficio divino costituisce un incarico reale, al modo del legionario sotto le armi, l’adempimento del dovere, pensum servitutis (RB 50,4). Ma l’Opus Dei è ben altra cosa che un ufficio esigente una certa dose d’energia umana. Il nome stesso che gli è dato è carico di un significato più misterioso di quanto appaia. A prima vista si sarebbe tentati di non cogliervi che un genitivo obiettivo: «l’Ufficio divino» sarebbe il lavoro intrapreso per Dio, in onore di Colui al quale si indirizza, ciò che è lungi dall’essere falso. Ma non vi dobbiamo scorgere ugualmente un genitivo soggettivo, significando l’Opus Dei l’opera che proviene da Dio, in cui lo stesso Signore è il soggetto dell’azione? Egli ne ha ispirato tutte le parti, ne è l’autore e l’ordinatore nel momento stesso in cui esso si realizza.
Forse è là che si nasconde il segreto della nostra vocazione di cantori della lode divina: prestiamo il nostro cuore e le nostre voci all’espressione di una liturgia già celeste che ci oltrepassa infinitamente, che viene da Dio e a lui risale, al punto che, nella salmodia corale, è Dio che canta Dio attraverso l’uomo. Questo è il pensiero dei grandi fondatori monastici. Ecco cosa diceva Dom Romain Banquet: «La generazione del Verbo è il cantico per eccellenza dell’Ufficio divino. L’Opus Dei è Dio che celebra egli stesso la sua lode mediante il ministero del suo Verbo incarnato e della Chiesa, sua sposa. Il testo sacro dei salmi è un dettato di Dio». La grande stima con la quale gli antichi consideravano l’Ufficio divino fu la fonte della loro spiritualità.
Poiché la liturgia non viene dall’uomo, in quanto essa oltrepassa infinitamente le nostre capacità, solo essa disseterà le anime che si abbeverano alla sua fonte fino alla fine dei tempi. Come dice san Giovanni Crisostomo nel commento al Salmo 41: «Nulla eleva l’anima, nulla le dona delle ali, nulla la strappa alla terra, nulla la eleva dai sensi e dalle passioni, nulla le fa gustare le caste delizie della sapienza, come il canto degli uffici divini». Quel che i figli di san Benedetto devono al loro Padre è di averli lanciati nell’ammirazione di Dio, liberandoli anzitutto da ogni tentativo di ritorno su di sé, all’opposto di quella brama di autoanalisi cui gli spirituali saranno affezionati a partire dal Rinascimento. Questo implica una certa verginità dell’anima, suggerita nella conclusione del capitolo XIX della Regola (De disciplina psallendi). Vi si legge questa breve ingiunzione, diventata una massima: «Sic stemus ad psallendum ut mens nostra concordet voci nostrae», «partecipiamo alla salmodia in modo tale che l’intima disposizione dell’animo si armonizzi con la nostra voce». Tutto è detto in queste ultime parole: non che la nostra voce si armonizzi con i sentimenti dell’anima, il che sarebbe il progetto di una sincerità individualista, come se si dovesse dare tutta l’importanza ai nostri propri sentimenti, bensì «che l’intima disposizione dell’animo si armonizzi con la nostra voce». Poiché ciò che conta è la Vox Sponsae, è la voce della Sposa di Cristo, e sta a noi adattarci, sta a noi innalzarci sino a essa.
Quel che dobbiamo a san Benedetto è di averci permesso di realizzare la stupefacente supplica del Salmo 105: «Salvos nos fac, Domine, Deus noster, et congrega nos de nationibus, ut confiteamur nomini sancto tuo, et gloriemur in laude tua». Traduciamo onde meglio comprendere: «Salvaci, Signore Dio nostro, e radunaci dalle nazioni, affinché possiamo esaltare il tuo nome santo e troviamo la nostra gloria nell’espressione di questa lode». In breve, e contro l’opinione dei moderni che sbagliano fine, la liturgia non ha per fine la riunione dei popoli. Al contrario, è l’assemblea dei fedeli che ha per fine la lode divina. Ed è in questa lode che si trova la fonte della propria gloria. «Ut gloriemur in laude tua». Chiamiamolo teocentrismo: per averlo dimenticato, stiamo morendo.
[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Ce que nous devons à saint Benoît, in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome II, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2010, pp. 527-541 (qui pp. 530-533), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 2 - continua]