Giacché il discorso è caduto sui monaci, e so come ascolti volentieri i discorsi edificanti, prestami attenzione per un momento.
In Egitto ci sono tre categorie di monaci: i cenobiti, che nella parlata locale sono detti sauhes, che potremmo definire: «coloro che vivono in comunità»; gli anacoreti, che abitano soli nel deserto, denominati così perché vivono segregati dal resto dell’umanità; la terza categoria è costituita dai cosiddetti remnuoth: pessima sorta di monaci da tutti disprezzata, la sola, o almeno la più numerosa nella mia provincia.
Essi abitano a gruppi di due o tre, o poco più; e ciascuno si regola di sua testa, senza dipendere da nessuno; in comune mettono soltanto quella quota di denaro, guadagnato col lavoro, che è indispensabile per provvedere alla mensa comune. La maggior parte del tempo abitano in città, o in qualche borgata; e i loro prodotti li vendono maggiorati, come se la santità si trovasse nell’opera manuale e non nella vita. Fra loro sono frequenti i litigi: vivendo ognuno del proprio guadagno, non si ammette di stare soggetti ad altri. Fanno persino la gara a chi digiuna di più; si vantano d’aver vinto in una pratica che dovrebbe restare segreta.
In essi tutto è artificioso: maniche ampie, scarpe a soffietto, tuniche rozze; ad ogni istante emettono un sospiro, fanno visite alle vergini, denigrano i chierici, e nelle feste più solenni si rimpinzano fino alla gola.
Messi fuori combattimento questi tipi pestiferi, passiamo a trattare di quelli che fanno vita di comunità, e che si chiamano, come accennai, cenobiti.
La prima legge per essi è obbedire agli anziani, e fare quello che viene loro comandato. Sono divisi in decurie e centurie, in modo che ad ogni gruppo di nove uomini presiede un decurione, e ad ogni gruppo di dieci decurie un centurione. Vivono in celle separate, ma contigue. Fino all’ora nona la vita comune è come sospesa: nessuno va a trovare i compagni; solo i decumviri hanno libera circolazione, onde poter confortare con i loro incoraggiamenti i fratelli dubbiosi e tentennanti.
Dopo nona si raccolgono insieme; cantano Salmi e leggono, secondo la tradizione, la S. Scrittura. Terminate le preghiere comuni, tutti si mettono a sedere, e uno di loro, che chiamano Padre, inizia una conversazione. Mentre egli parla, tutti l’ascoltano con religioso silenzio: nessuno osa voltarsi verso un compagno, nessuno s'azzarda a tossire.
Unico elogio a chi ha parlato è il pianto degli uditori; le lacrime scorrono silenziose sui volti: il dolore non scoppia mai in singhiozzi.
Quando poi il Padre passa a trattare del regno di Cristo, della futura beatitudine, della gloria celeste, li vedi tutti trattenere il respiro e, gli occhi rivolti al ciclo, ripetere fra sé: «Chi mi darà ali come di colomba, affinché possa volare e aver riposo?».
Dopo di che, l'adunanza si scioglie; ogni decuria col suo capo si dirige al refettorio, dove a turno servono a tavola, una settimana ciascuno.
Nessuno strepito durante il pranzo; mentre si mangia non si parla. I loro cibi sono: pane, legumi, erbaggi conditi con olio e sale. Solo i vecchi bevono vino. A costoro, come pure ai più giovani, si serve spesso una colazione supplementare, perché gli uni possano sostenere la loro età cadente, e gli altri non soccombano nella loro tenera età.
Poi si alzano tutti insieme, e dopo aver cantato un inno, si ritirano nelle loro celle. Là ciascuno s’intrattiene con i compagni fino a sera, facendo discorsi di questo genere: «Avete visto il tale o il tal altro? Quanta affabilità negli atti! Come osserva il silenzio! Quanta grazia e modestia nell’incedere!». Se vedono che uno è sofferente, lo consolano; se lo vedono fervente nell’amore di Dio, l’incoraggiano a un impegno maggiore.
Poiché di notte, eccettuato il tempo delle preghiere in comune, ciascuno veglia nella sua cameretta, fanno il giro di tutte le celle, e ponendo l’orecchio alla porta, si rendono conto esattamente di quello che ognuno sta facendo. Se ne scoprono qualcuno un po’ più fiacco, non lo rimproverano, ma fingendo di non saper nulla, lo visitano frequentemente, cominciano essi per primi a pregare, onde stimolare l’altro più che costringerlo.
Ogni giorno viene assegnato un lavoro determinato, e come lo si è finito, lo si presenta al decurione, il quale lo porta all’economo; questi a sua volta, mese per mese, con un profondo senso di timore riverenziale, dà il resoconto al Padre generale.
È pure a lui che si fanno assaggiare le vivande appena pronte; e siccome a nessuno è permesso di dire: «Non ho la tunica, non ho il saio, non ho la stuoia», egli regola tutto quanto in modo che nessuno debba chiedere, e nessuno resti privo del necessario.
Se uno s’ammala è trasportato in una stanza più grande, e lì gli anziani l’assistono con premura così amorosa, che non gli si fa desiderare affatto le comodità della città o l’affetto della mamma.
La domenica la dedicano tutta quanta alla preghiera e alla lettura - ciò che fanno, d’altronde, in tutto il tempo libero, appena terminato il lavoro.
Ogni giorno s’impara qualche brano della Scrittura.
Il digiuno è uguale per tutto l’anno, eccetto la Quaresima, in cui è permessa un’astinenza più rigorosa.
Nel tempo di Pentecoste il pranzo si anticipa alla colazione, sia per uniformarsi alla tradizione ecclesiastica, sia per non aggravare lo stomaco con due pasti.
In modo analogo vivevano gli Esseni, come narrano Filone, imitatore dello stile platonico, e Giuseppe Flavio, il Tito Livio dei Greci, nel secondo libro della Guerra giudaica.
[...] Passo quindi a parlare della terza categoria, coloro che son chiamati anacoreti: essi abbandonano i cenobi, e vanno nel deserto portando con sé unicamente pane e sale.
Il fondatore di questo genere di vita è Paolo, ma chi lo rese celebre è Antonio, e se vogliamo risalire alle origini, il primo esempio è stato Giovanni Battista.
Un uomo di tal fatta l’ha descritto anche il profeta Geremia quando scrisse: «È bene per l’uomo che porti il giogo fin dalla sua giovinezza. Se ne starà solitario e in silenzio, perché ha posto il giogo sul suo collo, offrirà la guancia a chi lo percuote, si sazierà d’oltraggi; così il Signore non lo rigetterà in eterno».
[San Girolamo (Sofronio Eusebio Girolamo, 347-419/420), Lettera XXII. A Eustochio, 34-36]