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venerdì 6 febbraio 2015

Nazarena - Nel 25° anniversario della sua salita al Cielo

Il giaciglio sul quale dormiva suor Nazarena
Il 7 febbraio 2015, nella gioiosa memoria liturgica di san Romualdo, ricorre il 25° anniversario della morte - o per meglio dire, della salita al Cielo, come la speranza cristiana c'induce a ritenere con fiduciosa certezza - della monaca reclusa di origini statunitensi suor Maria Nazarena O.S.B. Cam. (Julia Crotta, 1907-1990), avvenuta per l'appunto il 7 febbraio 1990 nel monastero camaldolese Sant'Antonio Abate di Roma, sull'Aventino, dove ella visse la sua esistenza nella reclusione, dal 1945 fino alla morte.
Già in passato abbiamo detto del senso di vertigine umana e spirituale con il quale ci si accosta alla storia di questa "Madre del deserto" del secolo XX. A maggior ragione desideriamo farlo nuovamente in questo 25° anniversario, con l'augurio che si diffonda sempre più la conoscenza e l'amicizia spirituale con questa straordinaria figura di santità, della quale invochiamo l'intercessione.
Lo facciamo riproducendo un brano del suo racconto autobiografico - scritto nel 1989, all'età di 82 anni (riprodotto nel prezioso volume a cura di Emanuela Ghini, Oltre ogni limite. Nazarena monaca reclusa. 1945-1990, Edizioni OCD, Roma 2007, p. 25) -, nel quale suor Nazarena ricorda l'evento che segnerà per sempre la sua vita, quando all'età di 27 anni si sentì chiamata da Gesù al deserto, e ricevette la grazia di corrispondere a una vocazione di assoluta radicalità evangelica.
Altresì, con un po' di pudore desideriamo oggi condividere un inedito portfolio fotografico, che documenta gli spazi, gli arredi e gli indumenti - segni materiali, ma indubbiamente anche di una precisa geografia spirituale - entro e con i quali Nazarena visse la sua reclusione monastica e terminò i suoi giorni sulla terra, fino a consegnarsi per sempre alle braccia dello Sposo, il Signore Gesù.

Era il 1934, durante le vacanze pasquali. Una notte, che fu per me una nox beatissima, Dio mi accordò una grazia immensa, che trasformò all'istante tutta la mia vita. Per alcuni giorni fui come rapita, fuori di me. Mi sentivo in un universo nuovo. Avrei voluto fuggire lontano da questo mondo e da tutto il suo vuoto per seppellirmi per sempre nel deserto, sola con Dio solo. Da quella notte il deserto è rimasto per me una realtà misteriosa che m'incanta e mi attrae con straordinaria potenza.

La cella di Nazarena. Sul fondo, oltre la porta, il vestibolo presso il quale sostava il confessore
o la Madre, e dove veniva depositato il cibo (regime alimentare a digiuno perpetuo)

Gli occhiali di suor Nazarena e una Bibbia commentata da lei usata

Le calzature indossate da suor Nazarena

L'abito della reclusa, di tela grezza

La cella vista dal vestibolo. Sullo sfondo, la porta dalla quale suor Nazarena accedeva allo stanzino per assistere alla Messa



Esempi del lavoro manuale con le palme che suor Nazarena ha svolto durante i 45 anni di reclusione monastica

Lo stanzino dal quale suor Nazarena assisteva alla Messa

Il mobiletto dei libri e la cassapanca per i materiali di lavoro di suor Nazarena

La visuale dalla cella di suor Nazarena, sull'Aventino. Sullo sfondo, il Circo Massimo




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domenica 14 aprile 2013

Nazarena - In Paradisum

La monaca reclusa Maria Nazarena (Julia Crotta, 1907-1990)
il 24 giugno 1938, giorno della sua vestizione
nel monastero benedettino camaldolese
Il 10 febbraio, per la solennità di Santa Scolastica, sorella di San Benedetto, è consuetudine delle monache camaldolesi invitare i monaci di San Gregorio al Celio al Vespro ed a cena. Nel 1990 la data cadde di sabato e, per motivi liturgici, si decise di anticipare l'incontro fraterno tra i due monasteri. Così, mercoledì 7 febbraio, nella memoria della sepoltura di San Romualdo […] le monache, sapendo che la reclusa non avrebbe visto un altro giorno, vennero tutte alla sua cella. La trovarono sveglia: Nazarena le guardava con occhi vivi e luminosi. Volevano restare con Nazarena sino all'ultimo respiro, e intanto cantavano i Salmi. Passarono due ore. Le monache intonarono un inno […]:

Canta la sposa i doni dell'Amato,
     corre nel campo, a cercare Lui.
     Danza di gioia, nell'udire il nome.
Vede l'Assente nel giardino nuovo,
     gode all'annunzio della sua missione:
     Cristo risorto porterà ai fratelli.
Uomini stanchi, timorosi e vinti
     corrono in fretta al sepolcro vuoto,
     vedono, e crede chi l'aveva amato.
Eccolo, viene a salti per i monti,
     eccolo, viene a balzi per i colli.
     Esci, sorella, corri ad incontrarlo!
"Vedi, l'inferno è divenuto vuoto,
     alzati, amica, mia bella, vieni,
     corrimi dietro nel ritorno al Padre".
Godi al banchetto della nuova Pasqua,
     entra con Cristo nelle nozze eterne,
     vivi l'amore che ti dona il Padre!

Conclusa la dossologia con "Amen, Alleluia", Suor Nazarena emise un lieve sospiro ed in silenzio si consegnò fra le braccia dello sposo. Vide Gesù per la seconda volta, e per sempre.

[Thomas Matus, Nazarena. Una monaca reclusa nella comunità camaldolese, trad. it., Edizioni Camaldoli - Pier Giorgio Pazzini Editore, Camaldoli (Arezzo) 1998, pp. 118-120]

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martedì 19 giugno 2012

San Romualdo

O Dio che hai scelto San Romualdo per rinnovare nella tua Chiesa la vita eremitica,
donaci la forza di rinnegare noi stessi per seguire Cristo sulla via della croce
e salire con lui nella gloria del tuo regno.

 
La statua di San Romualdo abate, posta all'ingresso dell'Eremo di Minucciano

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lunedì 6 febbraio 2012

Die 7 februarii - S. Romualdi Abbatis

Intercessio nos, quæsumus, Domine, beati Romualdi Abbatis commendet: ut, quod nostris meritis non valemus, eius patrocinio assequamur. Per Dominum nostrum Iesum Christum, Filium tuum, qui tecum vivit et regnat, in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia sæcula sæculorum. Amen.

Quando Romualdo si recò nell’eremo

Mentre nel suo animo l’amore della perfezione cresceva sempre di più di giorno in giorno senza che il suo animo trovasse pace, udì che nella regione di Venezia vi era un uomo spirituale, di nome Marino, che conduceva vita eremitica. E così, con il consenso – ottenuto facilissimamente – dell’abate e dei fratelli, mediante un’imbarcazione giunse presso tale uomo venerabile e con umilissimo fervore dell’animo decise di vivere sotto la sua guida. Marino, fra le altre virtù, era un uomo di animo semplice e della più autentica purezza; egli non era stato assolutamente ammaestrato alla vita eremitica da nessun genere di insegnamento, ma era stato spinto a essa solo dall’impulso della sua buona volontà. Inoltre, egli aveva questa forma di vita: durante tutto l’anno tre giorni alla settimana mangiava la metà di un piccolo pane e un pugnello di fave, e tre giorni invece, con una sobrietà piena di discrezione, prendeva del vino e una pietanza. Ogni giorno cantava l’intero salterio, ma, siccome era inesperto e non era stato per nulla ammaestrato nello stile della vita eremitica – come in seguito lo stesso Romualdo riferirà sorridendone – la maggior parte delle volte, uscendo dalla cella insieme con il discepolo, se ne andava qua e là, salmodiando, per tutta l’estensione dell’eremo, cantando ora sotto un albero, venti salmi, ora sotto un altro trenta o quaranta.
Romualdo, poi, che aveva lasciato il mondo essendo senza istruzione, quando apriva il Salterio a stento riusciva a pronunciare, sillabando, il canto dei versetti che toccavano a lui; e questa umiliazione provocava in lui il malessere insopportabile dell’accidia. Marino, allora, tenendo una verga nella destra, colpiva spessissimo Romualdo, che gli sedeva di fronte, sulla parte sinistra del capo. Dopo molto tempo Romualdo, costretto da una necessità molto forte, disse umilmente: “Maestro, se ciò ti è gradito, d’ora in poi colpiscimi sull’orecchio destro, perché dall’orecchio sinistro sto già perdendo completamente l’udito”. Quegli allora, ammirato della sua così grande pazienza, temperò la severità – priva di discrezione – di quella disciplina.

[San Pier Damiani (1007-1072), Vita beati Romualdi, trad. it. in I Padri camaldolesi, Privilegio d'amore. Fonti camaldolesi. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie, Edizioni Qiqajon, Magnano (Biella) 2007, pp. 65-155 (pp. 73-74)]


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mercoledì 22 giugno 2011

Aspetti della spiritualità romualdina

Intendo illustrare tre aspetti che appaiono evidenti leggendo e meditando i documenti originali della spiritualità romualdina.
1. Il primo aspetto è la solitudine. Per S. Romualdo la solitudine interna ed esterna è condizione necessaria per vivere una vera vita contemplativa e “cercare Dio” e si concretizza nell’Eremo. S. Pier Damiani biografo di S. Romualdo scrive così di lui: “Ovunque in mezzo ai boschi avesse scorto qualche luogo ameno, sentiva accendersi nell’animo il desiderio della solitudine”.
S. Pier Damiani scrive “Alla vita solitaria sono particolarmente necessarie tre cose che debbono essere praticate con cura speciale e cioè: il ritiro in cella, il silenzio, il digiuno”.
S. Bruno Bonifacio, discepolo amatissimo di S. Romualdo, gli mette in bocca queste parole: «Stattene in cella come in paradiso! Gettati dietro le spalle il ricordo del mondo e sii attento ai pensieri come un buon pescatore ai pesci».
Il B. Paolo Giustiniani emulo di S. Romualdo e di S. Pier Damiani e riorganizzatore della vita eremitica camaldolese scrive pagine bellissime, quasi un inno alla solitudine e ne delinea l’assoluta necessità per i pellegrini dell’assoluto che sono i monaci.
2. Un secondo aspetto della spiritualità romualdina è questo: S. Romualdo tendeva a creare amicizie spirituali con i suoi discepoli. Il padre degli eremiti d’occidente, da vero figlio di S. Benedetto, si era formato sulle collazioni dei Padri del deserto, come consiglia il capitolo 73° della Regola, e, uomo di tradizione, mosso dallo Spirito del Signore, fra i suoi eremiti attuò la consuetudine antica che l’eremita anziano accogliesse nella sua cella il discepolo giovane. La vita esemplare dell’anziano era la prima e più importante lezione formativa per il giovane novizio. Accanto a ciò, S.Romualdo coltivava il colloquio spirituale tra padre e figlio oppure tra amici carissimi.
Questo aspetto della spiritualità romualdina, definito da uno storico laico “privilegium amoris” non è che l’attuazione perfetta del comando di Gesù: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”.
3. Un ultimo aspetto che emerge dalla figura di S. Romualdo è l’unione profonda e mistica con Dio, cercata e attuata con tenacia tra le bellezze silvestri dei monti, delle grotte e delle valli solitarie.
S. Romualdo e S. Pier Damiani con l’esasperata sete di penitenza, di solitudine, con il colloquio di anime con eccezionale potenza d’amore ed una inestinguibile sete di pianto giustificano la vita eremitica come vetta della perfezione monastica. Rimangono i figli legittimi di S. Benedetto.
Nelle esperienze vissute nel primo ambiente romualdino si vede con chiarezza che la contemplazione non è soltanto ispirazione intellettualistica e visione, ma carità ardente e commozione affettiva.
Concludendo, il fulcro della spiritualità romualdina è il primato dell’amore, questa è la meta dell’ascesi eremitica, questo ne è il frutto maturo. Il discepolo di S. Romualdo si apparta dal mondo per amore di Dio, stringe amicizie spirituali profonde per ricevere e comunicare l’amore di Dio, piange i suoi peccati e quelli dell’umanità per amore di Dio e ne è ricolmo di gioia.

[Estratto dall'articolo di Fra Mario Rusconi, fratello anziano della Comunità degli Eremiti della Beata Vergine del Soccorso, Aspetti della Spiritualità Romualdina, in L'Eco dell'Eremo, trimestrale curato dall'Eremo di Minucciano per la formazione degli Oblati, n. 9, settembre 1999, pp. 13-17]

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lunedì 7 febbraio 2011

Die 7 februarii - S. Romualdi Abbatis

Intercessio nos, quæsumus, Domine, beati Romualdi Abbatis commendet: ut, quod nostris meritis non valemus, eius patrocinio assequamur. Per Dominum nostrum Iesum Christum, Filium tuum, qui tecum vivit et regnat, in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia sæcula sæculorum. Amen.

Romualdo, poi, abitando per tre anni entro il territorio della città di Parenzo, nel primo anno costruì il monastero e negli altri due vi rimase recluso. Lì la compassione divina lo spinse al culmine di una grande perfezione al punto che, ispirato dallo Spirito santo, poteva sia prevedere alcune cose future, sia penetrare con i raggi della propria intelligenza molte cose nascoste dell’Antico e del Nuovo Testamento. […] Spesso, infatti, lo rapiva una tale contemplazione della divinità che, come sciogliendosi interamente in lacrime, bruciando dell’ardore di un inenarrabile amore divino gridava: «Gesù amato, o amato, mio dolce miele, desiderio ineffabile, dolcezza dei santi, soavità degli angeli», e altre espressioni simili. E noi, con la nostra capacità umana, non siamo in grado di esprimere le parole che, dettategli dallo Spirito santo, egli pronunciava nel giubilo. […] E allora Romualdo non voleva mai celebrare la Messa davanti a più persone, poiché non poteva trattenersi dall’essere inondato da lacrime. […] E, dovunque il santo decidesse di abitare, dentro la sua cella costruiva anzitutto un oratorio con un altare, poi vi si rinchiudeva e ne serrava l’accesso. […]
E così, dopo aver abitato in tutti quei luoghi, vedendo ormai imminente la propria fine, ritornò, da ultimo, al monastero che aveva costruito in Val di Castro e lì, attendendo senza alcun dubbio la morte che si avvicinava, comandò che gli venisse edificata una cella con un oratorio nella quale potesse rinchiudersi e custodire il silenzio fino alla morte. […] E così, edificato il reclusorio, mentre nel suo animo già pensava che vi si sarebbe rinchiuso presto, il suo corpo cominciò a essere sempre più appesantito da vari fastidi e a declinare verso il peggio, e ciò non tanto per malattia quanto per la longevità di una vecchiaia assai avanzata. […] Un giorno, dunque, cominciò poco a poco a essere abbandonato dalle forze fisiche e a essere pesantemente fiaccato da un fastidio che lo assalì. E così, mentre ormai il sole volgeva al tramonto, comandò a due fratelli che erano presenti di uscire, di chiudere dietro di sé la porta della cella e di ritornare da lui all’alba per celebrare con lui gli inni mattutini. Essi, turbati per la sua fine, uscirono controvoglia, ma non si recarono subito a riposare, bensì, in ansia temendo che il maestro morisse, nascondendosi vicino alla cella custodivano il talento di un tesoro così prezioso. Dopo un po’ di tempo che rimanevano lì, siccome ascoltando ben attentamente con orecchi aperti non sentivano nessun movimento del corpo né alcun suono di voce, immaginando ormai senza ingannarsi ciò che era accaduto, spingendo la porta si precipitarono velocemente a entrare, accesero la lampada e trovarono il santo cadavere che giaceva supino, mentre la beata anima era stata rapita in cielo. Giaceva, così, come gemma abbandonata, da riporsi con onore nel tesoro del sommo Re. Colui, infatti, che se n’era andato come aveva predetto, migrò là dove aveva sperato.
Quest’uomo beatissimo visse centoventi anni, di cui ne trascorse venti nel mondo, tre li visse in monastero e novantasette li passò nella forma di vita eremitica. Ora, perciò, brilla di luce ineffabile tra le pietre vive della Gerusalemme celeste, esulta con le schiere infuocate degli spiriti beati, è rivestito della candidissima veste dell’immortalità ed è incoronato dallo stesso Re dei re con un diadema che brilla in eterno.

[San Pier Damiani (1007-1072), Vita beati Romualdi, trad. it. in I Padri camaldolesi, Privilegio d'amore. Fonti camaldolesi. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie, Edizioni Qiqajon, Magnano (Biella) 2007, pp. 65-155 (pp. 111-112 e pp. 151-153)]

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venerdì 21 gennaio 2011

I monaci eremiti di Minucciano





[Ci siamo già occupati in passato della Comunità degli Eremiti della Beata Vergine del Soccorso di Minucciano (Lucca), che dal 1982 conduce in Garfagnana un’esperienza monastica d’impronta benedettina vissuta nello spirito degli Eremiti Camaldolesi di Monte Corona. In questa occasione offriamo una trascrizione dell’auto-presentazione che i monaci hanno dato di sé, tratta da un pieghevole disponibile tramite il sito dell’arcidiocesi di Lucca. Le fotografie sono di fr. Francesco di Paola, oblato di questa comunità monastica]

La Comunità degli Eremiti della Beata Vergine del Soccorso, vive nell’Eremo Santuario mariano, da cui prende il nome, dal 1982, inserendosi in una secolare tradizione eremitica che ebbe origine in Garfagnana verso la fine del XVI secolo e il maggior incremento nei secoli XVIII e XIX.
L’attuale fratello anziano (così si chiama il superiore) della Comunità, fece ancora in tempo a conoscere l’ultimo l’eremita solitario, fra Marco, morto il lunedì Santo del 1982, per raccogliere il suo mantello e mantenere viva la tradizione.
Unico dei 16 eremi sorti nei secoli in terra di Garfagnana a rimanere ancora custodito, oggi è abitato da 3 fratelli di cui uno è sacerdote.
La piccola Comunità osserva la Regola di San Benedetto, vissuta nello Spirito degli Eremiti Camaldolesi di Monte Corona (riforma dell’antico Ordine Camaldolese, sorto a seguito della figura di quell’eremita-profeta che fu Romualdo di Ravenna, promossa nel 1500 dal nobile veneziano Paolo Giustiniani), e ha ottenuto il riconoscimento canonico, dall’Arcivescovo Bruno Tommasi, l’11 novembre 1994, come associazione pubblica maschile non clericale. Contemporaneamente venivano approvati anche lo Statuto e le Costituzioni proprie.
Il 10 ottobre 1997 la Congregazione degli Eremiti Camaldolesi di Monte Corona ha riconosciuto un rapporto di filiazione spirituale alla nostra Comunità, fatto che ci ha permesso di inserirci nell’alveo di quel grande fiume di spiritualità cristiana che ha le sue sorgenti in S. Benedetto e S. Romualdo.
Il monaco è così chiamato perché notte e giorno conversa con Dio e contempla solamente le cose sue, non possedendo niente sulla terra; non ha nessuna preoccupazione che quella di attendere la venuta di Cristo, la venuta dello Sposo che viene all’improvviso «come un ladro di notte» (1 Ts 5,2) e che per questo invita a vegliare nella preghiera (cfr. Mt 25,13 - 26,41).
Il monaco ricorda tutto questo ai fratelli che facilmente si fanno prendere dal sonno dell’oblio e della negligenza, dispersi e agitati in molte cose.
Questa missione viene realizzata non attraverso prediche e attività pastorali, ma con la vita stessa: «Vieni e vedi» (cfr. Gv 1,39); situandosi nel cuore stesso della Chiesa e rimanendovi immobile e tranquillo come se fosse già nell’eternità.
Il monaco giunge così anche ad indicare quello che è il fine di ogni fratello: «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino» (Mc 1,15); là dove si sarà tutti come angeli nel cielo immersi nell’eterna beatitudine.
Questo compito, risposta alla chiamata di Dio, e quindi con l’aiuto indispensabile della sua grazia, l’eremita della Beata Vergine del Soccorso si sforza di realizzarlo attraverso cinque elementi: la preghiera, la solitudine e il silenzio, la carità fraterna e la vita comunitaria, il lavoro intellettuale e manuale, l’austerità (Costituzioni degli Eremiti della Beata Vergine del Soccorso, n. 3).

La preghiera

Occupa un’ampia parte della notte e del giorno. Inizia alle 3,45 con l’Ufficio delle Letture e si dispiega per circa 7/8 ore alternando momenti di preghiera comune (Ufficio divino, S. Messa) ad altri di preghiera solitaria (lectio divina, orazione mentale, Rosario).
La Comunità celebra la liturgia delle Ore monastica, recitando tutto il salterio ogni settimana. Centro della preghiera è la celebrazione eucaristica quotidiana.

La solitudine e il silenzio

Elementi indispensabili per creare il clima della preghiera e della vita monastica. L’Eremo è abbastanza isolato (il paese è distante 2 km) ed è circondato da boschi di castagno. Per accentuare questa dimensione la cena è, ordinariamente, sempre solitaria e, nelle quaresime, anche il pranzo per quattro giorni la settimana.

La carità fraterna e la vita comunitaria

È forse il segno dell’autenticità della nostra vita, la testimonianza che più commuove i nostri ospiti. Quante volte abbiamo sentito ripetere quella frase: Come si vede che vi volete bene!

Il lavoro intellettuale e manuale

Come insegna la S. Regola: l’oziosità è nemica dell’anima. Per questo i fratelli devono essere occupati, in tempi determinati, nel lavoro manuale e in altre ore alla lettura divina (RB 48,1). Il lavoro manuale varia a seconda delle stagioni: in primavera-estate il lavoro nei campi per le coltivazioni delle verdure, in autunno-inverno il taglio della legna e la pulizia dei boschi.

L’austerità

Nell’Eremo abbiamo tre quaresime durante le quali ci asteniamo dalle uova, dal latte e dal formaggio.
L’astinenza dalla carne è di tutto l’anno. Le tre quaresime sono: dal 12 novembre al Natale; dal mercoledì delle Ceneri alla S. Pasqua e dal 20 agosto ai primi Vespri di S. Michele Arcangelo il 29 settembre. La veglia mattutina alle 3,45.
L’esclusione dall’Eremo dei mezzi di comunicazione sociale: televisione, radio, giornali. Tutto questo vissuto in un clima di semplicità e di serenità.
Nell’Eremo pratichiamo anche una discreta ospitalità, accogliendo non più di due o tre ospiti per volta, per persone che desiderano condividere con noi, seppur per pochi giorni, il santo viaggio alla ricerca del volto del Signore.
Per concludere dobbiamo aggiungere la presenza, dal 1998, di oblati e oblate. Amici e amiche, laici, sacerdoti, diaconi permanenti che abbiamo aggregato alla nostra famiglia costituendo con loro un vero e proprio legame spirituale. L’oblato è colui che desidera condividere la nostra spiritualità all’interno della sua condizione esistenziale perché trova in essa un aiuto per vivere meglio la sua consacrazione battesimale in un impegno più forte di vita cristiana.

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giovedì 16 settembre 2010

Due passi nell'eternità

[Grazie alla cortese autorizzazione dell'Autore - di cui abbiamo già pubblicato una recensione al libro di Dom Cassingena-Trévedy, La bellezza della liturgia - trascriviamo una suggestiva cronaca sulla Comunità degli Eremiti della Beata Vergine del Soccorso di Minucciano (Lucca), che dal 1982 conduce in Garfagnana un'esperienza monastica d'impronta benedettina vissuta nello spirito degli Eremiti Camaldolesi di Monte Corona (riforma del secolo XVI della famiglia che ha le sue origini in san Romualdo)]


“Nel tetro e soffocante edificio del mondo, il chiostro è lo spazio aperto al sole e all’aria”
(Nicolás Gómez Dávila)


La Garfagnana è uno dei luoghi più simili alla tolkieniana Terra di Mezzo: una sequenza di verde e tronchi, tronchi e verde, solo saltuariamente interrotta da chiese romaniche e da piccoli borghi di case in pietra, senza tempo, in cui non ti stupiresti di trovare l’Osteria del Drago Verde o la Locanda del Puledro Impennato. Man mano che ci avviciniamo il bosco si infittisce, i rami degli alberi invadono la strada e sembra quasi di intravedervi il volto di Barbalbero, come se anch’essi avessero assunto la fisionomia dei tre “Gandalf” che abitano in cima a questa lunga teoria di salite e curve, curve e salite sempre più strette. Finalmente arriviamo in cima e parcheggiamo vicino alla casetta adibita a foresteria. Le auto già presenti ci ricordano che nei giorni di festa la solitudine degli eremiti è “violata” da numerose persone che vanno a cercare Dio fin lassù, dove si sentono solo i cinguettii degli uccelli e gli inni sacri dei monaci, che si fondono per unirsi al canto degli angeli.
Entriamo nella chiesetta che - nonostante manchi più di un’ora alla messa - è già piena per i secondi vespri dell’Ascensione. L’altare è quello antico, rivolto ad Deum. Al centro c’è il trono del Re, il tabernacolo, cuore pulsante dell’edificio e della vita dei tre barbuti monaci che siedono ai lati con il breviario tra le mani, avvolti nel loro saio: da un lato fra’ Mario, il superiore, e dall’altro gli altri due, fra’ Claudio (il creativo del gruppo) e padre Lorenzo – quest’ultimo è l’unico sacerdote dei tre, per assicurare i sacramenti ai fratelli. La loro Madre e Regina, la Vergine del Soccorso, è raffigurata sulla pala d’altare nell’atto di percuotere il demonio e così pure nella statua che per il mese mariano ha abbandonato la sua nicchia per mettersi in bella vista ed essere ricoperta di preghiere e omaggi floreali in prossimità del presbiterio - alla nostra sinistra, ma alla destra del Re come la regina del Salmo 44: astitit regina a destris tui, in vestitu deaurato, circumdata varietate. Padre Lorenzo va al centro del presbiterio: nelle sue mani il turibolo oscilla continuamente a destra e a sinistra, in un singolare contrasto con la ieratica immobilità del monaco che sembra appena uscito da un’icona bizantina. A forza di contemplare le realtà celesti sembra fatto d’incenso anche lui. È una scena letteralmente dell’altro mondo, che nessuno potrebbe contemplare restando indifferente; è di una bellezza che non si spiega senza Dio.
Tra il canto di salmi e inni si distingue la voce più “musicale” di tutte, quella di fra’ Claudio: in effetti parliamo di un professionista, visto che - ironia della sorte -, prima di farsi eremita cantava nel gruppo rock-folk “Biglietto per l’inferno” – ma Dio fa nuove tutte le cose (Ap 21,5)...
Terminati i vespri, c’è la piccola cerimonia dell’imposizione dello scapolare del Carmelo ad alcuni fedeli. Fra’ Mario dice che è un giorno propizio per coloro che lo ricevono, poiché oltre alla solennità dell’Ascensione è anche la memoria di san Simone Stock, generale dei Carmelitani che in una situazione angosciante per il suo ordine chiedeva un segno alla sua celeste patrona. La Vergine gli apparve nel 1251 consegnandogli lo scapolare (attualmente due quadrati di stoffa uniti da due lacci), segno e pegno della Sua materna protezione. Quindi don Giovanni, che ha facoltà di imporlo, procede al breve rito e poi va a chiudersi nel confessionale durante la recita del santo rosario.
Una volta la settimana (il giovedi mattina) la messa è celebrata secondo la "forma straordinaria", in rito antico, ma qui è straordinaria anche la messa "ordinaria". Anche oggi la messa è in italiano, la stessa che troviamo in tutte le parrocchie, eppure sembra di trovarsi in un altro mondo. Nell’una o nell’altra forma del rito, nella vita e nella preghiera, nell’ora et labora, a Minucciano viene concretamente applicata quella “ermeneutica della riforma nella continuità” raccomandata da Papa Benedetto XVI.
Padre Lorenzo si reca all’altare rivestito dei paramenti sacerdotali, accompagnato da due oblati – cioè laici che vivono nel mondo la spiritualità degli eremiti – che servono la messa. Incensa ripetutamente e abbondantemente l’altare, un rito nel rito, uno spreco secondo qualche prete che predica e razzola “a cielo chiuso”– può darsi, ma è uno spreco sublime che solo la follia o l’amore possono spiegare. Uno spreco però gradito a Dio, come l’unguento sparso dalla donna ai piedi di Gesù, che solo un cuore chiuso come quello di Giuda poteva criticare… L’eremita invece sparge il sacro fumo senza misura, così come senza misura ha offerto la sua vita a Dio. Del resto, dopo la gioia del tempo pasquale – dice nell’omelia, con il consueto tono di voce in grado di placare qualsiasi tempesta dell’anima – oggi dobbiamo addirittura esultare perché la risurrezione di Cristo culmina nella Sua – e nella nostra! - ascesa alla destra del Padre. Bisogna credergli, anche perché descrive quel Cristo tanto concretamente – “luminoso”, lo definisce – come se parlasse di qualcuno che conosce da tempo. E, in effetti, è così...
Durante la prima metà del Canone, fino alla consacrazione, si interrompe continuamente: un silenzio ogni tre-quattro parole… Non sapremo mai se si stia commuovendo, se si sia fermato a meditare oppure se – perché no? – abbia visto “qualcosa”.
Sappiamo però che questi tre monaci, amici della terra come gli Hobbit e amici del cielo stellato come gli Elfi, vivono il mistero dell’Ascensione nella loro stessa vita. Ancora qui tra le fatiche del mondo e contemporaneamente già proiettati nelle Terre immortali, alla destra del Padre insieme alla celeste Regina, agli angeli e ai santi. Solo così si spiega la perenne giovinezza dei loro occhi - puri e acuti come quelli dei bambini – che dopo un po’ diventano ben più visibili delle lunghe e folte barbe. Quanti anni avranno? Da quanto tempo sono qui? Quanto sarà durata la liturgia? Né troppo tempo, né poco, anzi non è affatto durata: perché a Minucciano abbiamo fatto due passi nell’eternità...
Stefano Chiappalone

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sabato 6 febbraio 2010

Piccola regola di Romualdo

De S. Romualdo Abb. (O.N.) hoc anno nihil fit.


"Siedi nella tua cella come in paradiso; scaccia dalla memoria il mondo intero e gettalo dietro le spalle, vigila sui tuoi pensieri come il buon pescatore vigila sui pesci. Unica via, il salterio: non distaccartene mai. Se non puoi giungere a tutto, dato che sei venuto qui pieno di fervore novizio, cerca di cantare nello spirito e di comprendere nell'intelligenza ora un punto ora un altro; e quando leggendo comincerai a distrarti, non smettere, ma correggiti subito cercando di comprendere. Poniti innanzitutto alla presenza di Dio in timore e tremore, come chi sta al cospetto dell'imperatore; annullati totalmente e siedi come un bambino contento solo della grazia di Dio e incapace, se non è la madre stessa a donargli il nutrimento, di sentire il sapore del cibo e anche di procurarsene".


[San Bruno di Querfurt (974 ca.-1009), Vita dei cinque fratelli (n. 32), in Monumenta Poloniae historica, n.s. IV,3, Warszawa 1973, pp. 27-84, trad. it. in I Padri camaldolesi, Privilegio d'amore. Fonti camaldolesi. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie, Edizioni Qiqajon, Magnano (Biella) 2007, pp. 161-234 (p. 233)]


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