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martedì 18 luglio 2023

Z come zelo - San Benedetto per tutti / 18 [fine]

Siamo zelanti nella nostra vita spirituale, cioè, in breve, nella nostra vita di carità? Questa domanda è essenziale poiché, secondo sant’Agostino, “un’anima senza zelo è un’anima senza amore”. È bene ripetere a noi stessi di tanto in tanto che la nostra carità vale concretamente quanto vale il nostro zelo nel praticarla. Questa convinzione non è meno viva per san Benedetto, che nel capitolo 72 – gioiello della Regola – esorta giustamente i suoi monaci alla pratica di questo zelo.
Per lui, essere zelante nell’amore del prossimo significa, molto concretamente: onorarlo, sopportarlo con molta pazienza in tutte le sue infermità fisiche o morali, servirlo, cercare il suo vantaggio piuttosto che il nostro, amarlo per sé stesso e non per quello che potrebbe darci in cambio. E quando questo prossimo ha su di noi un rapporto di autorità, amarlo ancora con una carità sincera e umile.
Essere zelanti nel nostro amore per Dio significa avere per Lui “un timore ispirato dall’amore”. Conoscere questo timore filiale che consiste nel non temere nulla tanto da rattristare, anche leggermente, un Dio-Padre infinitamente buono.
San Benedetto nota come ultimo segno del buon zelo: “Non antepongano assolutamente nulla a Cristo” (RB LXXII,11). Qui, mi sembra, abbiamo sia la chiave di volta sia il fondamento dello zelo a cui ci invita. Perché per san Benedetto andiamo a Dio attraverso Cristo che è la Via. Esortandoci a fare di Nostro Signore il nostro tesoro più grande, egli vuole avvicinarci allo zelo per eccellenza, affinché il suo zelo passi in noi. Lui il cui zelo per il Padre (“Lo zelo per la tua casa mi divorerà”, Gv 2,17) e per il prossimo (“avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine”, Gv 13,1) è rimasto fino alla morte. Non illudiamoci: lo zelo a cui ci invita san Benedetto non può che essere quello di Gesù in noi. In altre parole, tale zelo si impara ai piedi del tabernacolo. E sappiamo, ci assicura san Benedetto, che ci condurrà, seguendo Cristo, “alla vita eterna” (RB LXXII,12)!
Cari amici, abbiamo appena terminato una lettura della Regola. Essendo la Regola inesauribile, potremmo benissimo iniziarne una seconda. Essendo questa lettera per voi, vi poniamo semplicemente la domanda: vorreste o meno che prosegua questa rubrica San Benedetto per tutti? Attendiamo il vostro parere alla mail: contact@la-garde.org.
Grazie a tutti.
Fr. Ambroise

[Fr. Ambroise O.S.B., “Saint-Benoît pour tous...”, La lettre aux amis, dell’Abbazia Sainte-Marie de la Garde, n. 44, 16 luglio 2023, p. 4, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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mercoledì 7 dicembre 2022

L come lavoro - San Benedetto per tutti / 17

Ora et labora
... Per lavoro qui s’intende tutta quella parte della vita monastica diversa dalla preghiera (liturgica o privata) e dalla lectio divina. La visione benedettina del lavoro permette al monaco di viverlo nella gioia, una gioia anzitutto soprannaturale, beninteso. Vediamone le ragioni: conoscerle meglio potrà aiutarvi a impregnarne il vostro lavoro.
Gioia di fare la volontà di Dio e così contribuire alla sua gloria. Il lavoro è infatti parte integrante del piano di Dio per luomo, sia prima che dopo il peccato originale. Il monaco sa dunque che lavorando compie così la volontà di Dio, tanto più che non sceglie il proprio lavoro, ma lo riceve umilmente dall’abate, rappresentante di Cristo.
Gioia di un lavoro ben fatto. Perché non si può degnamente pretendere di lavorare per la gloria di Dio senza che la qualità del lavoro ne risenta. Gioia di rendere fecondi i talenti che Dio ci ha donato, di metterli al servizio degli altri e contribuire così al bene comune della comunità. Gioia di poter fare l’elemosina grazie al frutto del nostro lavoro.
Gioia di fare umilmente lavori spesso nascosti, senza prendersi sul serio, secondo questa raccomandazione dello stesso Nostro Signore: “Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: ‘Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare’” (Lc 17,10).
Gioia di unire a volte il nostro dolore a quello di Cristo. Quando il nostro lavoro assume un aspetto doloroso, ricordiamoci che Nostro Signore era un falegname e non una persona che viveva di rendite! Gioia, infine, di sapere che un lavoro così compiuto ci unisce veramente a Dio, poiché è già di per sé una vera preghiera.
Buon lavoro a tutti in una rinnovata gioia!
La prossima volta, Z come zelo.

[Fr. Ambroise O.S.B., “Saint-Benoît pour tous...”, La lettre aux amis, dell’Abbazia Sainte-Marie de la Garde, n. 42, 6 dicembre 2022, p. 4, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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lunedì 18 luglio 2022

S come sonno - San Benedetto per tutti / 16

In tempi in cui la nostra società, e specialmente i nostri giovani, non brillano né per equilibrio né per buon senso, la sapienza pratica della Regola ci offre preziosi richiami anche su un punto così basilare come quello del sonno. Diverse evidenze guidano il realismo di san Benedetto in quest’ambito.
Anzitutto, la quantità di sonno è una questione direttamente correlata alla virtù della prudenza (RB VIII), aspetto che è bene ripetere in un momento in cui l’esaurimento è una realtà tristemente di moda. Inoltre, a san Benedetto non piacciono i monaci “sonnolenti” (RB IV). Egli inizia dando ai suoi monaci un tempo di sonno sufficiente. Sano realismo! Non si può vivere bene ciò che si deve vivere se si è continuamente stanchi e, con rare eccezioni, la mancanza abituale di sonno non ha mai portato al fervore, ma allo squilibrio o addirittura al collasso.
Poi, San Benedetto stabilisce un principio semplice e non negoziabile: c’è un’ora per andare a letto e un’ora per alzarsi! La questione del tempo di sonno è quindi in parte una questione di disciplina personale, e non principalmente inerente allo stato di vita.  Il monaco ha, siatene certi, come tutti voi, la tentazione di fare mille cose più o meno interessanti o urgenti nel momento in cui sarebbe ragionevole andare a letto!  Si noti anche che, in san Benedetto, la sveglia è energica. Rimanere a letto? Non se ne parla! Se il monaco riposa, è per essere pronto al suo dovere di stato non appena si sveglia.
Infine, c’è un tempo in cui una certa penitenza nel sonno può essere del tutto propizia, ed è quello della Quaresima (RB XLIX). Il tempo così risparmiato sarà messo a beneficio, non di Internet, ma della vita di unione con Dio: lettura spirituale, preghiera...
Concludendo, siamo quasi imbarazzati di avere ricordato queste evidenze. Ma rimane una domanda: a casa, cari amici, come vengono vissute queste prove?
La prossima volta, L come lavoro.

[Fr. Ambroise O.S.B., “Saint-Benoît pour tous...”, La lettre aux amis, dellAbbazia Sainte-Marie de la Garde, n. 41, 6 luglio 2022, p. 4, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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lunedì 7 dicembre 2020

S come silenzio - San Benedetto per tutti / 15

Elemento essenziale di ogni vita spirituale, il silenzio è una realtà dalle varie sfaccettature. Ecco tre delle sue modalità che san Benedetto ci invita a praticare ogni giorno.

1. Anzitutto, il silenzio della lingua. Per avvertirci della sua importanza, san Benedetto cita questa frase della Sacra Scrittura: “Nel molto parlare non manca la colpa” (Pr 10,19). Consentitemi di rendere questa sentenza ancora più esplicita: “Peccheresti così di meno tacendo un po’ di più!”. Pensiamo in particolare a tutte quelle parole che, nella quotidianità, possono scalfire o addirittura intaccare la carità. Il rimedio? Cominciare subito nel mettere un freno alla nostra lingua e praticare pazientemente l’arte del trattenersi nelle parole.

2. In seguito, il silenzio degli occhi e degli orecchi. Questo silenzio consiste in una certa cesura con il baccano del mondo. Ai giorni nostri, esso implica in particolare di fare un passo indietro rispetto alla permanente sovrinformazione e alle connessioni di tutti i tipi, che hanno per effetto principale di disperdersi, di faticare e così di nuocere all’essenziale. Fatevi questa domanda: una pratica di un tale genere non favorirebbe maggiormente la vostra vita familiare, di coppia, di preghiera?

3. Infine, il silenzio del cuore. La vita cristiana consiste prima di tutto in una relazione intima con Nostro Signore. Per essere coltivata, una tale relazione chiede da parte nostra una reale capacità di raccoglimento e di ascolto interiore, che non sono possibili senza silenzio. Dio non è a suo agio nel rumore, la dispersione e la precipitazione. Se vivremo in essi senza sosta, passeremo allora a fianco di quella intimità che ci propone.

Siamo convinti che la qualità della nostra vita in generale e della nostra vita spirituale in particolare, dipenderanno in parte dai mezzi che sapremo assumere per coltivare efficacemente questo spirito di silenzio.

La prossima volta, S come sonno e siesta.

[Fr. Ambroise O.S.B., “Saint-Benoît pour tous...”, La lettre aux amis, del Monastero Sainte-Marie de la Garde, n. 36, 29 novembre 2020, p. 4, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]


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mercoledì 29 luglio 2020

P come pazienza - San Benedetto per tutti / 14

Sarebbe stato sorprendente che san Benedetto, il quale sa perfettamente cos’è una vita di famiglia, non avesse un insegnamento da proporci a proposito di questa bella virtù! Notiamo anzitutto una differenza di punto di vista fra san Benedetto e noi. Per noi, l’orizzonte della virtù di pazienza si limita essenzialmente, se non esclusivamente, a ciò che dobbiamo sopportare del nostro prossimo. Quanto a san Benedetto, quando evoca per la prima volta la pazienza nel Prologo della Regola, citando san Paolo, egli inizia per parlarci della “pazienza [di] Dio” nei nostri confronti. Che lezione! In effetti, è bene ricordare che il primo a praticare la pazienza è proprio Dio, e siamo certi che non avremo mai così tanto da sopportare nel prossimo, rispetto a quanto diamo da sopportare a Dio. A partire da ciò, san Benedetto vuole farci fare un autentico percorso spirituale, grazie alla pazienza.
Nel capitolo 72, egli ci ricorda che la pazienza è una delle grandi note della carità. Per vivere di carità nel quotidiano, non cerchiamo quindi delle cose straordinarie, ma pratichiamo questa ingiunzione della Regola: “Sopportino con grandissima pazienza le rispettive miserie fisiche e morali” (RB LXII,5). Vi è qui già materia per una carità autentica, che potrà addirittura reclamare in noi, in certe circostanze, fino all’eroismo.
Infine, per san Benedetto la pratica della pazienza deve configurarci a Nostro Signore. Quando ci dice di “non fare torti a nessuno, ma sopportare pazientemente quelli che vengono fatti a noi” (RB IV,30), non c’invita a entrare nella medesima attitudine di Cristo?
Uniamo dunque i nostri piccoli atti di pazienza alla grande pazienza di Gesù. Non inganniamoci, vi è in questo un modo assai efficace onde “partecipiamo per mezzo della pazienza ai patimenti di Cristo per meritare di essere associati al suo regno” (RB Prologo,50).
La prossima volta, S come silenzio.

[Fr. Ambroise O.S.B., “Saint-Benoît pour tous...”, La lettre aux amis, del Monastero Sainte-Marie de la Garde, n. 35, 11 luglio 2020, p. 4, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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sabato 28 marzo 2020

Il significato della Quaresima

Secondo un’antica tradizione monastica, il Mercoledì delle Ceneri, dopo l’ufficio di Nona, i monaci si recano nella sala capitolare per ascoltare ancora una volta il capitolo 49 della Regola di san Benedetto, intitolato “La Quaresima dei monaci”. Tale capitolo inizia in maniera alquanto sorprendente: “Anche se è vero che la vita del monaco deve avere sempre un carattere quaresimale, visto che questa virtù è soltanto di pochi, insistiamo particolarmente perché almeno durante la Quaresima ognuno vigili con gran fervore sulla purezza della propria vita, profittando di quei santi giorni per cancellare tutte le negligenze degli altri periodi dell’anno”.
Mentre per la grande maggioranza dei cristiani la Quaresima è sinonimo di penitenza, per san Benedetto è un tempo da vivere in piena purezza, conformemente alla vocazione di ciascuno. È dunque un periodo durante il quale ci sforziamo di vivere quali degni figli e figlie di Dio, e che ci conduce, in occasione della veglia pasquale, a rinnovare le nostre promesse battesimali.
La breve esortazione del Nostro Santo Padre Benedetto descrive la Quaresima come un allenamento alla santità, non come una parentesi nella nostra vita abituale. Perché la santa Quaresima rimane un tempo di conversione in profondità, un tempo per cambiare i nostri cuori, per perdere le cattive abitudini e acquisirne delle buone. È una battaglia della virtù, qualità dell’anima acquisita mediante atti concreti e volontari. Nelle sue Confessioni, sant’Agostino confessa che la sua battaglia più rude, nella scelta decisiva di Dio, fu quella relativa alle cattive abitudini. In effetti, una catena, una corda, un luogo fosse pure il più debole, lo tratteneva nelle braccia paludose delle cose terrestri. Ma la grazia era là, e al momento opportuno egli fece la scelta che decise della sua eternità nonché, in una certa misura, dell’avvenire della cristianità. Non lo rimpianse mai.
Nel suo libro Désir et unité – un’opera che vi raccomando vivamente – il Padre Abate di Lagrasse cita sant’Agostino:
“Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea, né una grazia temporale: non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d’ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure, amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento, dov'è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio”.
Non abbiamo nulla di enorme da perdere convertendoci a Dio; al contrario, in Lui riceviamo tutto al centuplo. La Quaresima è veramente un tempo di grazia, un tempo da vivere quali figli e figlie di Dio, un cammino di luce che ci dirige verso la gioia senza fine.
La Quaresima, dice san Benedetto, è anche un tempo di riparazione delle negligenze. Egli pensa anzitutto alle nostre negligenze personali, alle nostre colpe, che dobbiamo espiare e riparare in ragione della maestà di Dio. Ma in san Benedetto la vita cristiana è maggiormente una partecipazione alle sofferenze di Cristo, del Cristo che ha sofferto e che è morto a causa dei nostri peccati. Nostro Signore è l’autentico Agnello di Dio, che toglie i peccati e che continua a espiare per le sue membra, che noi siamo. E Dio sa che il peccato abbonda! “Penitenza!”, ha detto la Vergine Maria a Lourdes e a Fatima. “Penitenza!”, ripete san Benedetto. Perché Dio è gravemente offeso.

[Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux, editoriale di Les amis du monastère, n. 173, 19 marzo 2020, pp. 1-2, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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mercoledì 11 marzo 2020

P come perdono - San Benedetto per tutti / 13

Ecco una scena alla quale si può assistere di tanto in tanto nella penombra di un corridoio del monastero: nel più grande silenzio, due monaci s’inginocchiano l’uno di fronte all’altro sulla soglia dell’ingresso di una cella, si scambiano un caloroso abbraccio fraterno, poi ripartono ciascuno dalla propria parte, con il sorriso sulle labbra e il cuore leggero. Cosa significa questa scena insolita?
Molto semplicemente, i due fratelli hanno messo in pratica questa massima della Regola: “nell’eventualità di un contrasto con un fratello, stabilire la pace prima del tramonto del sole (RB IV,73). San Benedetto è lucido: ogni vita di famiglia comporta il suo carico di tensioni, di dispute o di discordie. È inevitabile. Ma, in fondo, non è veramente questo il punto. Tutto il problema è di sapere cosa ne facciamo di tali accadimenti. Siamo capaci di scorgervi altrettante occasioni di perdono da chiedere o da offrire? In caso affermativo, allora la carità è salva e può addirittura uscirne fortificata. Immaginate quale clima regnerebbe nella vostra coppia, nella vostra famiglia, se decideste tutti di praticare questa massima della Regola!
Tuttavia, come pervenirvi? Per san Benedetto, il mezzo è evidente: la recita in comune e in verità della preghiera del Padre Nostro. Perché così, “per le offese alla carità fraterna che avvengono di solito nella vita comune, i presenti possano purificarsi da queste colpe, grazie all’impegno preso con la stessa preghiera nella quale dicono: ‘Rimetti a noi, come anche noi rimettiamo’” (RB XIII,12-13). Immaginate una famiglia nella quale ogni sera si reciti un Padre Nostro, al termine del quale ciascuno si perdoni gli eventuali litigi della giornata! “Un sogno”, dite? Ebbene, mi sembra che la Quaresima sia il momento idoneo per trasformare questo sogno in realtà! Siatene certi, come per molte circostanze, sono solo i primi passi che costano, e vi assicuro che troverete così più gioia e pace che in ogni altra penitenza!
La prossima volta, P come pazienza.

[Fr. Ambroise O.S.B., “Saint-Benoît pour tous...”, La lettre aux amis, del Monastero Sainte-Marie de la Garde, n. 34, 9 marzo 2020, p. 4, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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venerdì 28 febbraio 2020

Dodicesimo anniversario della morte di Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008)

[Oggi, 28 febbraio 2020, ricorre il dodicesimo anniversario della morte di Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux. Lo ricordiamo nelle preghiere e lo raccomandiamo a quelle dei lettori. In sua memoria, offriamo di seguito la trascrizione della voce del “Dizionario del pensiero forte” a firma di Daniela Bovolenta, originariamente comparsa nel sito di Alleanza Cattolica.]

1. La vita

Gérard Calvet nasce il 18 novembre 1927 a Bordeaux, in Francia, in una famiglia di agiati vignaioli. La sua giovinezza è segnata dalla frequentazione dell’École des Roches, a Maslacq, dove entra nel 1940 e rimane per sette anni. La scuola è diretta da André Charlier (1895-1971), fratello del pittore Henri Charlier (1881-1975), e tra gli insegnanti c’è anche il giovane Jean Arfel (1920-2013), che diverrà noto come scrittore cattolico con lo pseudonimo di Jean Madiran. L’istituto è fondato su princìpi pedagogici innovativi, in parte mutuati dal sistema scolastico inglese, in parte dallo scoutismo, e vi sono proposti e coltivati ideali di eccellenza e un forte patriottismo. Le lettere indirizzate da André Charlier ai prefetti della scuola mostrano chiaramente gl’ideali elevati di spiritualità, bellezza e servizio, che egli vuole trasmettere ai suoi allievi e che saranno ricordati da dom Gérard nel corso di tutta la sua vita.  Proprio durante questo periodo il giovane Gérard si reca in visita per la prima volta con alcuni compagni all’abbazia benedettina di Madiran, dove inizia a concepire la propria vocazione monastica.
Nel 1949 Gérard presta servizio militare come spahis — le truppe coloniali di cavalleria dell’esercito francese — in Marocco e l’anno successivo prende l’abito presso l’abbazia di Madiran, che solo una ventina d’anni prima era stata riportata in vita da uno stato di abbandono dai monaci dell’abbazia Saint-Benoît d’En-Calcat e poi nuovamente abbandonata in parte per mancanza di spazio, in parte per la vetustà della casa e la mancanza di acqua: nel 1952 i monaci si trasferiscono dunque nel nuovo monastero, Notre-Dame di Tournay. Nel 1954 dom Gérard pronuncia i voti solenni presso l’abbazia di Tournay e due anni più tardi è ordinato sacerdote.
Nel 1963 è inviato in una fondazione di Tournay sorta in Brasile un paio d’anni prima, dalla quale tornerà in Francia nel 1968: siamo nell’immediato post-Concilio e dom Gérard non si adatta ai cambiamenti intervenuti nel monastero durante la sua assenza. In una lettera scrive: «In pochi anni il progressismo ha distrutto la vita contemplativa con le sue forme sicure: una certa lentezza, il senso del sacro, la cortesia, la reverenza che esclude la disinvoltura e la volgarità. Ma anche le virtù fondamentali: l’umiltà, l’obbedienza, il rispetto degli anziani, mentre sono rifiutati perentoriamente il patrimonio liturgico, il latino ammirevole, così adatto a fissare il pensiero, il rito immemorabile della Messa; assistiamo insomma a un indebolimento considerevole di quella vita interiore che fu il messaggio essenziale dei nostri fondatori». Dom Gérard chiede ai superiori il permesso di passare un periodo di riflessione in solitudine: trascorrerà sei mesi presso l’abbazia benedettina di Fontgombault e tre alla certosa di Montrieux. Nel 1969 vivrà per alcuni mesi in eremitaggio a Montmorin, con dom Emmanuel de Floris O.S.B. (1909-1992), monaco di En-Calcat.
L’anno seguente dom Gérard, convinto di rimanere da solo o di essere raggiunto al massimo da qualche anziano monaco che fatica ad adattarsi agli aggiornamenti in corso, si installa nel priorato di Bédoin, la cui cappella romanica dedicata a santa Maddalena è forse la più antica della Provenza. Lo raggiungeranno invece dei giovani desiderosi di fare l’esperienza della tradizione. Bédoin non è propriamente una fondazione di Tournay, ma dom Gérard vi si è installato con il permesso del suo abate, il quale riceve i voti dei primi novizi di Bédoin. Nel 1974 l’arcivescovo francese Marcel Lefebvre (1905-1991) conferisce gli ordini minori ad alcuni monaci di Bédoin e l’abate di Tournay, messo di fronte al fatto compiuto, abbandona la comunità a sé stessa. L’anno successivo Bédoin è esclusa dalla Congregazione Sublacense.
I monaci tuttavia continuano ad arrivare, il piccolo priorato non li può più contenere, dom Gérard decide allora di costruire un monastero più capiente per la propria comunità in continua crescita. Nel 1980 viene posta la prima pietra del monastero di Sainte-Madeleine a Le Barroux e il Natale dell’anno seguente tutta la comunità vi si trasferisce.
Vi è anche una comunità femminile nata nel 1979 a Montfavet, a quaranta chilometri da Bédoin, sotto la guida di madre Élisabeth de La Londe O.S.B. (1922-2015), poi trasferitasi a Uzés e, nel 1987, finalmente stanziatasi a Le Barroux, a un paio di chilometri dal monastero maschile, dove sorgerà il monastero femminile di Notre-Dame de l’Annonciation. La divisa della comunità maschile è Pax in lumine, quella della comunità femminile Lux in Domino. Nel 1986 un gruppo di monaci è inoltre inviato in Brasile per realizzare una fondazione.
In questo periodo le ordinazioni sacerdotali della comunità vengono conferite da mons. Lefebvre e i rapporti con Roma sono sempre più tesi. Nel novembre 1987, nel corso di un’ispezione di case religiose tradizionaliste legate a mons. Lefebvre, il cardinale Edouard Gagnon P.S.S. (1918-2007) compie una visita apostolica al monastero.
Il 21 e 22 giugno 1988 si reca al monastero il cardinale Paul Augustin Mayer O.S.B. (1911-2010), latore di proposte concrete di accordo con Roma.  Il 30 giugno 1988, con le consacrazioni episcopali illecite effettuate da mons. Lefebvre a Écone, in Svizzera, la situazione precipita. Dom Gérard è personalmente presente alla cerimonia, ma pochi giorni dopo, l’8 luglio, scrive una lettera all’allora pontefice, san Giovanni Paolo II (1978-2005), chiedendo di tornare in comunione con Roma e sancendo la rottura di fatto con la Fraternità Sacerdotale San Pio X. Il 25 luglio arriva la risposta che accorda lo statuto canonico al monastero, firmata dai cardinali Mayer e Joseph Ratzinger, futuro Papa Benedetto XVI (2005-2013).
Il decreto di erezione in abbazia del monastero di Sainte-Madeleine è datato 2 giugno 1989, solennità del Sacro Cuore, e il 18 giugno verrà promulgato al monastero il decreto di erezione e di nomina del primo abate: dom Gérard assume la carica, con il motto Per te Virgo. La benedizione abbaziale gli è conferita il 2 luglio dal cardinale Mayer. Il 2 ottobre ha luogo la dedicazione della chiesa abbaziale, da parte del cardinale Gagnon.
Il 28 settembre 1990, dom Gérard è ricevuto in udienza privata a Roma da Giovanni Paolo II, che gli raccomanda: “Io affido alla vostra preghiera la grande intenzione della riconciliazione di tutti i figli e le figlie della Chiesa nella stessa comunione”. In seguito, nel 1995, il cardinale Ratzinger — all’epoca prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede — si reca in visita ai due monasteri, quello maschile e quello femminile, e celebra la Messa domenicale all’abbazia Sainte-Madeleine.
Nel 2002 la comunità in continua crescita inizia la fondazione di Sainte-Marie de la Garde a Saint-Pierre-de-Clairac, nella diocesi di Agen. L’anno seguente dom Gérard, ormai anziano e malato, si dimette dalla carica di abate e la comunità procede all’elezione del suo primo successore, dom Louis-Marie de Geyer d’Orth O.S.B., nato nel 1967.
Durante la quaresima del 2008, il 28 febbraio, dom Gérard muore in seguito a un ictus. Attualmente è sepolto nella chiesa abbaziale del monastero che ha fondato, dietro l’altare maggiore. Nello stesso anno l’abbazia di Sainte-Madeleine, che dipende direttamente dalla Pontificia commissione Ecclesia Dei, è ammessa nella Confederazione dell’Ordine di san Benedetto.

2. I tre pilastri (più uno) dell’opera di dom Gérard

Dom Gérard era innamorato delle anime; secondo molti testimoni avvicinava tutti con una benevolenza e una gioia soprannaturali: in lui rigore dottrinale e misericordia spirituale convivevano. Nella sua vita fu amico — fra i molti — dello scrittore Jean Madiran, del “filosofo contadino” Gustave Thibon (1903-2001), del pittore Albert Gérard (1920-2011). Intrattenne buoni rapporti con reparti dell’esercito francese impegnati nella guerra d’Algeria e in quella del Libano, lottò per la conservazione della liturgia tradizionale e contro l’aborto, accoglieva nel suo monastero umili e potenti, famiglie e giovani. Fu tra i promotori e grande sostenitore del noto pellegrinaggio di Pentecoste da Parigi a Chartres, sulle orme di Charles Péguy (1873-1914), un’iniziativa sorta nel 1983 e tuttora attiva e frequentata da decine di istituti religiosi e migliaia di fedeli — particolarmente giovani — legati alla liturgia tradizionale. Soprattutto dom Gérard fu un uomo di preghiera e di civilizzazione. Tutta la sua opera è basata su tre pilastri, che ha sempre raccomandato prima di tutto alla comunità che aveva fondato, più uno, del quale parlò verso la fine della propria vita, come testamento ai propri monaci.
Il primo pilastro è la verità. Una sana filosofia dell’essere, una teologia ortodossa, solidità nella conoscenza del vero e, di conseguenza, solidità nella fede. Se la ragione è debole, la fede è ridotta a sentimentalismo o superstizione. La legge naturale, il decalogo, san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274), le grandi verità cristiane sono visti da dom Gérard come semi di civilizzazione.
Il secondo pilastro è la Regola di san Benedetto. Integrale, senza modifiche, conosciuta, amata e vissuta. Dom Gérard attribuiva un’importanza particolare a coloro che considerava come i fondatori della sua discendenza monastica, in particolare, dopo san Benedetto, padre Jean-Baptiste Muard (1809-1854), fondatore del monastero della Pierre-qui-Vire, e dom Romain Banquet O.S.B. (1840-1929), che fu messo a capo di una fondazione della Pierre-qui-Vire, l’abbazia di En-Calcat, che abbiamo già ricordato come all’origine di quella comunità di Madiran e poi Tournay, in cui dom Gérard iniziò la propria vita monastica. Importante fu pure la dottrina spirituale di Madre Marie Cronier O.S.B. (1857-1937), fondatrice e prima abbadessa di Dourgne, il monastero femminile associato a En-Calcat. Fu una grande mistica, che aveva ispirato allo stesso dom Romain Banquet la fondazione di En-Calcat.
Dom Gérard nelle proprie opere è tornato più volte sul magnifico equilibrio della Regola, che si adatta a ogni temperamento e condizione personale. La dolcezza della Regola ha convertito generazioni di cristiani all’ombra dei monasteri. Dom Gérard scrive: «Quando i primi monaci hanno fondato i loro monasteri nei paesi selvaggi dell’Europa, ciò che più tardi darà vita alla civiltà, essi hanno fatto tre cose: hanno coltivato la terra (un lavoro senza frode); hanno formato delle comunità fraterne, d’ispirazione familiare (in accordo con l’ordine naturale); hanno fatto salire il loro canto di lode a Dio, giorno e notte (ciò che li manteneva in contatto permanente con il loro fine soprannaturale). Il lavoro, la vita di famiglia, il canto liturgico: come si vede, si tratta di cose semplici e concrete, accordate alle aspirazioni naturali dello spirito umano. Allora “ha preso”, come si dice quando il fuoco si accende. Vi è un inizio di cristianità ogni volta che qualcosa di santo e di rettificato esce dalla terra. Non si fabbricano dei valori di cristianità come non si fabbrica il grano che cresce; lo si coltiva, certo, lo si protegge, ma occorre anzitutto della buona terra e quel permesso divino composto da un accordo provvidenziale fra l’acqua, il sole e il lavoro degli uomini. Il radicamento benedettino ha dato vita all’Europa cristiana grazie a un’unione di fatti miracolosi che la storia registra sotto il nome di cause, ma che è in primo luogo un effetto interamente gratuito della grazia divina».
Il terzo pilastro è la santa liturgia. La liturgia esiste prima di tutto per condurci all’adorazione, al culto di Dio, al compimento del primo comandamento. Per questo dom Gérard ha passato la maggior parte della sua vita “rivolto al Signore”, innamorato del rito più che millenario della Messa, del latino come lingua liturgica — la lingua della Vulgata —, della bellezza dei Salmi e della Santa Messa, della teologia della Messa di san Pio V (1566-1572), resa perfetta da generazioni di cristiani in preghiera, proprietà della Chiesa e prima di tutto del suo capo, Nostro Signore Gesù Cristo. La forma straordinaria del rito latino, o rito gregoriano, come il cardinale Darío Castrillon Hoyos [1929-2018] ha proposto di chiamarlo, non è la creazione di questo o di quell’uomo, o la creazione di questa o di quella generazione: è una pietra tornita da generazioni di credenti, una vera anticipazione di Paradiso su questa terra.
In Une règle de vie intérieure dom Gérard raccomanda di leggere i passi della Scrittura previsti per la liturgia del giorno, in modo che la nostra lettura della Bibbia non sia lasciata al caso o al capriccio, ma segua le indicazioni materne della Chiesa.
Infine il canto gregoriano ha un’importanza particolare nella liturgia perché è capace di innalzare gli spiriti alla bellezza della fede, senza contare su facili sentimentalismi, ma piuttosto su una vera e ricca profondità spirituale.
Tutti gli aspetti finora ricordati convergono nella liturgia celebrata a Le Barroux e sono il nucleo centrale di tutta la vita di dom Gérard.
Quando era ormai prossimo alla morte, dom Gérard volle aggiungere ai tre pilastri spirituali su cui aveva fondato la comunità un quarto pilastro, senza il quale gli altri crollano: l’amore fraterno.
Il rigore dottrinale di dom Gérard era unito all’amore per le anime, molti gli riconoscevano una dolcezza eccezionale nei rapporti con il prossimo. Aveva infine un animo da artista, cosa che lo aiutò non solo nella costruzione del monastero, in uno stile cistercense provenzale senza tempo, ma anche nell’intrattenere rapporti con artisti, nel coinvolgere i propri monaci di tanto in tanto nella messa in scena di spettacoli teatrali ad uso interno della comunità, che avevano lo scopo di allentare il rigore e di rendere più gioiosi i rapporti tra fratelli, proprio come aveva imparato a suo tempo all’École des Roches, quando giovane studente partecipava volentieri a qualche recita.

3. Il monachesimo e la sua irradiazione nella società

Dom Gérard non concepiva la vocazione monastica come una scelta di separatezza dal mondo, ma come un fermento capace di cambiare le civiltà. Aveva interiorizzato profondamente l’opera di san Benedetto, e credeva e agiva come se la sua piccola comunità in preghiera fosse l’origine di un ampio movimento di conversione. Attualmente i suoi monaci formano numerosi sacerdoti in visita insegnando a officiare nella forma extraordinaria del Rito romano, fanno catechismo per la diocesi, curano la vita spirituale di centinaia di oblati sparsi in tutto il mondo, hanno profondi rapporti con movimenti scout giovanili, con associazioni laicali, addirittura con settori dell’esercito e della legione straniera. Tutti costoro a Le Barroux possono trovare quel cibo spirituale che farà loro da viatico nelle loro vite lontane dal monastero.
Tale impulso, che potremmo dire missionario, non esclude però una stretta osservanza della Regola di san Benedetto, senza sconti per quanto riguarda non solo il numero degli uffici — sette di giorno e uno nel cuore della notte —, ma i digiuni, il lavoro manuale — panificazione, produzione di olio, vino, essenza di lavanda, sandali in cuoio, stamperia, laboratorio artistico di icone e sculture —, la vita spirituale.
Dom Gérard, in una famosa omelia tenuta nel giorno di Pentecoste del 1985, al termine del già citato pellegrinaggio Parigi-Chartes, diceva: «La vita cristiana è una marcia, spesso dolorosa, che passa per il Golgota, ma rischiarata dagli splendori dello Spirito. E che sfocia nella gloria. Ah, possono perseguitarci, ma non permetto che ci si compatisca. Perché noi apparteniamo a una razza d’esiliati e di viandanti, dotati di un prodigioso potere d’invenzione, ma che rifiuta — è la sua religione — di lasciarsi distogliere lo sguardo dalle cose del Cielo. Non è forse quello che canteremo tra poco alla fine del Credo?: Et expecto — e attendo — Vitam venturi saeculi — la vita del secolo futuro. Oh, non un’età dell’oro terrestre, frutto di una supposta evoluzione, ma il vero paradiso di Dio, di cui Gesù parlava quando disse al buon ladrone: “Oggi sarai con me in paradiso”. Se noi cerchiamo di pacificare la terra, di abbellire la terra, non è per sostituire il Cielo, ma per servigli da scala. E se un giorno, di fronte alla barbarie montante, dovremo prendere le armi in difesa delle nostre città carnali, è perché esse sono, come diceva il nostro caro Péguy, “l’immagine e l’inizio e il corpo e l’assaggio della casa di Dio”. Ma anche prima che suoni l’ora di una riconquista militare, non è forse permesso parlare di crociata, almeno quando una comunità si trova minacciata nelle sue famiglie, nelle sue scuole, nei suoi santuari, nell’anima dei suoi bambini? E parimenti, cari amici, noi non abbiamo paura della rivoluzione: temiamo piuttosto l’eventualità di una controrivoluzione senza Dio».

Per approfondire:

Reconquête, rivista del Centro Charlier e di Chrétienté-Solidarité, n. 247-248, aprile-maggio 2008, interamente dedicato a Dom Gérard.
Un monaco benedettino (Dom Gérard Calvet), La santa liturgia, trad. it., Nova Millennium Romae, Roma 2011.
—, Demain la Chrétienté, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux (Carpentras) 2005.
—, Benedictus, 3 voll., Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux (Carpentras) 2009-2011.

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mercoledì 26 febbraio 2020

L’osservanza della Quaresima

Anche se è vero che la vita del monaco deve avere sempre un carattere quaresimale, visto che questa virtù è soltanto di pochi, insistiamo particolarmente perché almeno durante la Quaresima ognuno vigili con gran fervore sulla purezza della propria vita, profittando di quei santi giorni per cancellare tutte le negligenze degli altri periodi dell’anno. E questo si realizza degnamente, astenendosi da ogni peccato e dedicandosi con impegno alla preghiera accompagnata da lacrime di pentimento, allo studio della parola di Dio, alla compunzione del cuore e al digiuno. Perciò durante la Quaresima aggiungiamo un supplemento al dovere ordinario del nostro servizio, come, per esempio, preghiere particolari, astinenza nel mangiare o nel bere, in modo che ognuno di noi possa di propria iniziativa offrire a Dio “con la gioia dello Spirito Santo” qualche cosa di più di quanto deve già per la sua professione monastica; si privi cioè di un po’ di cibo, di vino o di sonno, mortifichi la propria inclinazione alle chiacchiere e allo scherzo, e così attenda la santa Pasqua nella gioia del più intenso desiderio spirituale. Ma anche ciò che ciascuno vuole offrire personalmente a Dio dev’essere prima sottoposto umilmente all’abate e poi compiuto con la sua benedizione e approvazione, perché tutto quello che si fa senza il permesso dell’abate sarà considerato come presunzione e vanità, anziché come merito. Perciò si deve far tutto con l’autorizzazione dell’abate.
[Regula Sancti Benedicti, XLIX, “De Quadragesimae observatione”]

San Benedetto ha trattato della Quaresima nel capitolo precedente. Si tratta però di un periodo di una tale importanza, che egli ritiene necessario tornarvi lungamente. Adesso conosciamo l’organizzazione materiale della Quaresima; qui si tratta della sua organizzazione spirituale.
“La vita del monaco deve avere sempre un carattere quaresimale”, dice san Benedetto. Evidentemente, qui il Nostro Santo Padre non intende dire che le mortificazioni esteriori proprie della Quaresima dovranno esistere in ogni tempo; ancora meno egli intende invitare i monaci a dedicarvisi liberamente al di fuori del periodo prescritto. Il digiuno non costituisce l’elemento necessario della Quaresima, ma si tratta del rinnovamento interiore di cui parla san Paolo quando dice: “In novitate vitae ambulemus”, “camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). Durante la Quaresima occorre praticare ciò che si dovrebbe fare sempre: “ognuno vigili con gran fervore sulla purezza della propria vita”. Colui che “vigila” così la propria vita, è distaccato da tutto ciò che lo separa da Dio o lo svia da lui, ovvero dal mondo. Quando un pensiero di amor proprio, d’orgoglio, di sensualità, di rancore penetra nell’anima, essa diventa meno pura; è meno di Dio. Dio ci vuole tutti per lui, ed è questa totale appartenenza, senza tornare indietro, senza agitazione, che dovrebbe caratterizzare tutta la vita. Ma “paucorum est ista virtus”, “questa virtù è soltanto di pochi”; ve ne sono pochi che si mantengono in una tale purezza. I giorni “santi” della Quaresima hanno per fine di condurvici, “per cancellare tutte le negligenze degli altri periodi dell’anno”.
Durante la Quaresima, dunque, si compirà un’opera negativa e un’opera positiva. La prima si realizza in linea generale “astenendosi da ogni peccato”; la seconda mantenendosi strettamente uniti a Dio.
San Benedetto non intende tuttavia rimanere su idee generali e vaghe. Egli precisa le opere principali della Quaresima. Anzitutto la preghiera, preghiera piena di fede, di fervore, di tenerezza, che giunge sino a fare sgorgare dal cuore la compunzione e le lacrime dagli occhi. Quindi più ardore per la preghiera comune, maggiore frequenza nelle “orazioni particolari”.
Le sante letture saranno più lunghe e maggiormente meditate. Il santo Patriarca ce ne ha già parlato precedentemente.
Infine, “l’astinenza” sarà più severa. Qui pare tuttavia che il Nostro Santo Padre non riduca l’accezione del termine astinenza alla sola privazione del cibo: “si privi cioè di un po’ di cibo, di vino o di sonno, mortifichi la propria inclinazione alle chiacchiere e allo scherzo”. In tal modo, possiamo fare una distinzione. Ci sono mille piccole privazioni, mille piccole mortificazioni, che ci si possono presentare nel corso della giornata. È bene non lasciare passare il tocco leggero e discreto dello Spirito Santo, che sollecita a questa buona azione o a quella piccola mortificazione. Per questo non è necessario alcun permesso. Altra cosa si dica delle mortificazioni che escono dall’ordinario. Ci sono delle anime che, per questo genere di penitenza, hanno un “dono” di Dio, che vi sono chiamate, e che per quella via fanno opera d’amore e di apostolato. Eppure, come sono frequenti le illusioni su tale punto! La mortificazione esteriore non è sempre un indizio di santità. La si trova talora unita alla non mortificazione dello spirito o della volontà. Il suo carattere straordinario costituisce un pericolo d’orgoglio, tale per cui ci si crede più avanzati degli altri che non ne fanno così tanta – almeno su quel punto – e di conseguenza ci s’illude. Perciò il Nostro Santo Padre ha voluto assumere contro i pericoli di questo genere una sana precauzione. Ogni risoluzione su questo punto dev’essere sottomessa al padre spirituale. La mortificazione rientra così nell’obbedienza. E dove essa diventa veramente meritoria, è quando non avendo più l’attrazione di un fervore entusiasta che rende tutto facile, essa non presenta più che le asperità. Allora essa è una vera croce, che si porta per obbedire, e la realtà della sofferenza fa dimenticare le tentazioni dell’orgoglio.
Infine, c’è un sentimento che deve dominare tutta la Quaresima: la gioia dello Spirito Santo. L’anima che rinuncia, l’anima che si dona, lo deve fare gioiosamente. D’altro canto, a cosa rinuncia? Alla vanità e all’illusione. A chi si dona? A colui che è tutta Bellezza, tutta Bontà, tutta Pace, tutta Gioia. La gioia della Quaresima assume un colore speciale dal fatto che si va verso Pasqua. Occorre, dice san Benedetto, che “così attenda la santa Pasqua nella gioia del più intenso desiderio spirituale”. Pasqua, è il Signore risorto e vivo fra di noi! È il compimento di quel rinnovamento dell’anima che ha infine ritrovato pienamente il suo Salvatore; è la Luce, simboleggiata dal cero pasquale, che illumina gli spiriti e i cuori; è l’Alleluia, che risuona in tutta la Città delle anime. Per il cristiano, non vi è gioia più grande di quella della Pasqua, e il pensiero che si avanza verso questa gioia mette già come un raggio luminoso sulle penitenze e le mortificazioni della Quaresima.

[Canonico Georges-Abel Simon, La Règle de saint Benoît commentée pour les oblats et les amis des monastères, 5a ed., Éditions de Fontenelle & Éditions Sainte-Madeleine, Saint-Wandrille-Rançon & Le Barroux 2019, pp. 361-363, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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mercoledì 1 gennaio 2020

Un commento alla Regola di san Benedetto per gli oblati benedettini




In un libro salutato dal New York Times come “il saggio più importante e più discusso del decennio” – L’Opzione Benedetto. Una strategia per i cristiani in un mondo post-cristiano (trad. it. San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 2018) –, il giornalista Rod Dreher si è posto una domanda diventata cruciale: come essere cristiani in un mondo che non lo è più? Dreher propone in risposta una “Opzione Benedetto”, come gli ha suggerito un ritiro effettuato al monastero di Norcia. “L’esempio benedettino – egli scrive – è certamente un segno di speranza, ma è anche una messa in guardia: quale che sia la nostra storia personale, ci è impossibile di vivere pienamente nella fede, se Dio non è che una parte della nostra esistenza, separata dal resto. Occorre scegliere ciò che si mette al centro: se Cristo o il sé e i propri idoli. […] L’‘Opzione Benedetto’ non consiste nel fuggire dal mondo reale, ma a guardare questo mondo in verità” e a “vivere in esso per trasformarlo come ci trasforma lo Spirito Santo […], ispirandosi alle virtù contenute nella Regola di san Benedetto”.
Tale “Opzione Benedetto”, di una vita ispirata alle virtù della Regola, è quella che hanno fatto una moltitudine di sacerdoti e laici, desiderosi di nutrirsi dello spirito della Regola di san Benedetto, unendosi spiritualmente a una comunità benedettina tramite il legame dell’oblatura. Il canonico Georges-Abel Simon (1884-1958) ha avuto l’eccellente idea di comporre un commento alla Regola di san Benedetto rivolto a questi oblati. Egli stesso oblato dell’abbazia di Saint-Wandrille, il canonico Simon era un sacerdote erudito, riconosciuto per la sua competenza in storia ecclesiastica e in liturgia. Il suo libro, scritto verso il 1930 e frutto di un lungo lavoro, ha già conosciuto quattro edizioni: nel 1931, 1935, 1947 e 1982. Conserva oggi tutto il suo valore. Non è proprio dei classici di non invecchiare?
La Regola di san Benedetto, sempre attuale, ne è essa stessa una dimostrazione. Il mondo nel quale san Benedetto è nato verso il 480 somigliava peraltro un poco al nostro: turbato, diviso, in preda all’incertezza. Molti cercavano un senso ai vari drammi che scaturivano dall’inondazione delle invasioni barbare e dalle guerre messe in atto dal potere bizantino per impossessarsi dell’Italia. Anche la Chiesa conosceva delle divisioni teologiche. Fu allora che apparve il santo che costruì un’arca in cui le virtù umane e soprannaturali potevano entrare in coppia per essere conservate nel mezzo del diluvio universale: “[…] benedetto di nome (benedictus) e di grazia”, ci dice il suo primo biografo, Papa san Gregorio Magno. Il suo “libro della vita e dei miracoli del Beato Padre Benedetto” ebbe un grande irradiamento. Ma per conoscere l’anima di san Benedetto, come nota finemente san Gregorio, nulla può sostituire lo studio della sua Regola, così mirabile per la sua forma letteraria e il suo discernimento (discretio): “L’uomo di Dio, oltre ai tanti miracoli che lo resero così conosciuto nel mondo, rifulse anche per una eccezionale esposizione di dottrina. Scrisse infatti anche una Regola per i monaci, Regola caratterizzata da una singolare discrezione ed esposta in chiarissima forma. Veramente se qualcuno vuol conoscere a fondo i costumi e la vita del santo, può scoprire nellinsegnamento della Regola tutti i documenti del suo magistero, perché quest’uomo di Dio certamente non diede nessun insegnamento, senza averlo prima realizzato lui stesso nella sua vita” (Dialoghi II,36).
Guardandosi attorno e leggendo tutta la letteratura monastica disponibile in Occidente, Benedetto ha scoperto vari tipi di vita monastica, con le loro tradizioni e i propri successi (o le loro sconfitte). Ha riunito queste diverse tendenze e ha mostrato una straordinaria abilità nello scegliere e armonizzare i vari elementi, onde pervenire a un capolavoro di equilibrio e di rispetto delle persone.
Tuttavia, la Regola non è solo l’opera di un codificatore di genio. Ciò che scriveva, Benedetto l’aveva vissuto a Subiaco come eremita e superiore, e a Montecassino come abate. La sapienza consumata della Regola non è potuta nascere che dall’assimilazione lunga e in profondità di una vita intera.
L’equilibrio ottenuto è perfetto. San Benedetto assume, certo, l’ideale monastico egiziano. Il monastero è una “scuola [pratica] del servizio del Signore”. Il discepolo impara ad amare il Signore nell’umiltà, l’obbedienza e il silenzio, per correre sulla via dei comandamenti di Dio con un cuore dilatato.
Ciò nonostante, san Benedetto arricchisce questa ricca concezione verticale di una dimensione orizzontale ispirata da sant’Agostino. Se i monaci sono i discepoli venuti in monastero per essere formati, essi sono altresì dei fratelli che l’amore unisce, comunità amante che forma “un cuore solo e un’anima sola”, come la comunità primitiva. Lo stesso abate deve piuttosto cercare di farsi amare che di essere temuto. Il punto culminante di questo ideale è il capitolo 72 sullo zelo buono che conduce a Dio e al quale i monaci devono esercitarsi con la più ardente carità.
Un tale ideale è fatto proprio per tutti i cristiani. Ma la Regola non è solo maestra di vita nelle sue grandi linee. Tutti i dettagli dei diversi capitoli – anche quando si tratta dei pasti, del lavoro o degli utensili del monastero – sono ricchi di lezioni per la vita quotidiana. La vita spirituale non può essere sconnessa dalla vita quotidiana.
La meditazione dei vari capitoli della Regola, sotto la guida del canonico Simon, è fonte di un grande arricchimento spirituale e umano. Con san Benedetto, i due vanno sempre di pari passo.

[Dom Jean-Charles Nault O.S.B., Abate di Saint-Wandrille, Prefazione, in can. Georges-Abel Simon, La Règle de saint Benoît commentée pour les oblats et les amis des monastères, 5a ed., Éditions de Fontenelle & Éditions Sainte-Madeleine, Saint-Wandrille-Rançon & Le Barroux 2019, pp. V-VIII, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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