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lunedì 12 giugno 2023

Tradizione, morte delle civiltà e passatismo

La scomparsa di questi costumi e tradizioni è un segno della morte delle civiltà. Il filosofo Gustave Thibon risponde in anticipo al rimprovero di passatismo: “Che cosa m’importa il passato in quanto passato? Non vedete che quando piango per la rottura di una tradizione, è soprattutto al futuro che penso? Quando vedo marcire una radice ho pietà dei fiori che domani appassiranno per mancanza di linfa (il nostro sguardo cui manca la luce)”.
Ciò che rattrista il filosofo non è ciò che è stato cancellato dal passato, bensì ciò che è confiscato al futuro. È anche pensando al futuro che Padre Calmel incoraggiava i suoi fedeli a formare, nella preghiera e nell’amicizia, comunità fraterne dove la grazia possa fiorire:
“Sotto l’egida della Vergine che schiaccia il Drago, i cristiani che pregano e si amano veramente in Cristo si stringeranno per mano, come fratelli, sulle onde impetuose di un mondo che ha rinnegato Dio e sta distruggendo l’uomo. Uniti dalla preghiera e dall’amicizia, per quanto ostacolati dalla pressione generale, riusciranno a mantenere o ricostituire una sorta di ambiente temporale veramente civile, sufficiente a permettere alle anime di buona volontà di non andare alla deriva e perdersi senza ritorno, ma di rimanere salde e vive. Di continuare il loro canto interiore, celebrare incessantemente l’amore e la bellezza di Dio attraverso le prove dell’esilio” (Itinéraires, novembre 1965).

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Demain la Chrétienté, nuova ed. rivista (1a ed. 1986), prefazione di Gustave Thibon, postfazione di Bernard Antony, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2005, p. 190, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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domenica 21 agosto 2011

Gustave Thibon, testimone di speranza


[Ci siamo occupati a più riprese del "filosofo contadino" Gustave Thibon (1903-2001), del quale abbiamo in varie occasioni tradotto su Romualdica alcuni scritti (fra cui, nel 2009 e in sei puntate, l’articolo L'equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola; nel 2010 un inedito; e nel 2011 l'in memoriam della rivista Cristianità). Una nuova occasione per parlare di Thibon, nel decimo anniversario della sua scomparsa, ci è offerto dal seguente articolo di Emiliano Fumaneri, comparso il 20 agosto 2011 su La Bussola Quotidiana, che riproduciamo con la cortese autorizzazione del quotidiano online.]


L'uscita nelle sale cinematografiche del film Le stelle inquiete, dedicato a un episodio della vita della filosofa Simone Weil (1909-1943), ha avuto il non indifferente pregio d'aver reso nota al pubblico italiano anche la figura del pensatore cattolico Gustave Thibon (1903-2001), il "filosofo-contadino" (philosophe-paysan), l’autodidatta in grado di impratichirsi con le lingue classiche e quelle moderne, lo studioso di Ludwig von Klages, Nietzsche, San Tommaso e della mistica carmelitana capace di guadagnarsi l'ammirazione di figure imponenti del panorama culturale europeo.
Gustave Thibon nasce nel 1903 a Saint-Marcel d’Ardèche (Midi di Francia) da una famiglia contadina. La stretta comunione con i ritmi della natura e la familiarità col silenzio accumulano in lui quelle profonde, vaste riserve interiori che riverserà nelle sue opere. Nel 1916, dopo aver frequentato la scuola comunale, si vede costretto ad abbandonare gli studi per dedicarsi al lavoro nei campi. Alieno da preoccupazioni religiose, trascorre un'adolescenza agnostica. A diciotto anni è assalito però da una veemente passione per la conoscenza. Con impeto febbrile si getta nello studio delle lingue, impara da solo il latino, il greco e il tedesco. Affronta testi di filosofia e teologia, si cimenta anche nella matematica e la biologia.
Thibon si riconcilia con la fede cattolica dell'infanzia grazie alla lettura di Léon Bloy (1846-1917) e all'incontro con Jacques Maritain (1882-1973), cui deve la scoperta dell'opera di San Tommaso d'Aquino. Maritain lo incoraggia a scrivere e la sua amicizia (interrotta in seguito a divergenze di giudizio su Charles Maurras e l'Action française) gli permetterà di pubblicare i primi articoli sulla Revue Thomiste.
È sempre l'incoraggiamento degli amici a consentirgli di vincere la naturale inclinazione alla modestia e spingerlo così a pubblicare, nel 1940, l'opera che lo rivela al grande pubblico: Diagnostics. Essai de physiologie sociale, cui segue Retour au réel. Nouveaux diagnostics (1943). Il primo dei due saggi verrà fatto tradurre e pubblicare nel 1947 dalla Morcelliana con il titolo di Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale. Grazie all'interessamento di Marco Tangheroni (1946-2004), nel 1973 le Edizioni Volpe pubblicano una nuova traduzione di Diagnosi che fa seguito, a distanza di un anno, alla prima edizione italiana di Ritorno al reale. Nuove diagnosi (1972). Nella nostra lingua sono state tradotte anche le raccolte di aforismi thiboniani La scala di Giacobbe (1947), Il pane di ogni giorno (1949), L'uomo maschera di Dio (1971). Sono stati pubblicati anche Quel che Dio ha unito. Saggio sull'amore (1947), Vivere in due (1955), Crisi moderna dell'amore (1957), Nietszche o il declino dello spirito (1964). Infine va segnalato il libro-testimonianza scritto col padre domenicano Joseph-Marie Perrin, Simone Weil come l'abbiamo conosciuta (2000).
La profondità del pensiero, la penetrante lucidità del giudizio e la folgorante bellezza dello stile gli valgono ben presto la considerazione di altri prestigiosi intellettuali come Marcel de Corte (1905-1944), Gabriel Marcel (1889-1973), Henri Massis (1886-1970). Ma l'incontro che segnerà maggiormente la sua vita spirituale e intellettuale è quello con Simone Weil. In fuga dai nazisti, nell'estate del 1941 la Weil trova rifugio presso la fattoria di Thibon. Tra l’inquieta pensatrice di origini ebraiche e il filosofo-contadino si instaura un rapporto profondo improntato alla massima schiettezza e a un'altissima stima reciproca, tanto che Simone decide di affidargli i propri manoscritti. Dopo la prematura morte della filosofa (1943) sarà Thibon a incaricarsi di farne conoscere il nome al mondo pubblicando alcuni estratti dei suoi diari col titolo La pesanteur et la grace (1948), edito in italiano come L'ombra e la grazia (trad. it., Comunità, Milano 1951).
Alla morte, che lo coglie nel 2001, Gustave Thibon lascia al mondo – oltre a tre figli, i nipoti e un ricordo indelebile nel cuore di chi l'ha conosciuto – una ventina di opere, innumerevoli articoli e testi di conferenze, senza contare la considerevole mole di scritti rimasti impubblicati.
Su due princìpi poggia l'architrave del pensiero thiboniano: l’opposizione agli idoli e l’amore per l’unità. Due momenti che però «si fondono in un unico, perché l’idolo rappresenta la parte innalzata al tutto, ma soltanto distruggendo gli idoli si può ricostruire l’unità» (Il pane di ogni giorno, Morcelliana, 1949, p. 10). «Dio non ha creato che unendo», osserva Thibon. Il peccato, il dramma dell'uomo consiste nel separare ciò che Dio ha unito: «La metafisica della separazione è la metafisica stessa del peccato» (Quel che Dio ha unito, Società Editrice Siciliana, 1947, p. VI).
Il nostro tempo, segnato dall'oblio dell'Essere e delle verità supreme, è funestato dalla lotta feroce e senza quartiere tra gli idoli. Non può che essere la guerra endemica la condizione strutturale di un mondo dominato da false divinità: nessuna di esse può permettere alle altre di elevarsi al di sopra di tutte per reclamare la signoria spettante all'unico vero Dio. Il conflitto tra gli idoli garantisce così l’impossibilità di ogni autentica trascendenza.
Procurare la morte rappresenta la vera vocazione dell’idolatria: la sete di sangue divora l'idolo, mentre l’odio viscerale per l’Essere lo vota al nulla e alla menzogna. Per il Socrate cristiano vivente in Thibon l'autentico spirito filosofico consiste invece «nel preferire alle menzogne che fanno vivere le verità che fanno morire» (L'ignorance étoilée, Fayard, 1985, p. 45). Thibon fa dunque idealmente suo il detto di Tolkien: "le radici profonde non gelano". Così è delle verità più semplici e ordinarie: la profondità degli abissi appartiene al grande, immenso oceano della normalità. Piatta e superficiale è solo la terra calpestata dagli idoli.
«Il thibonismo è una filosofia del buon senso», ha scritto Hervé Pasqua. La vera saggezza sta nell'essere fedeli tanto al "realismo della terra" quanto alle verità eterne del cielo, giacché «le cose supreme non fioriscono che al di là della tomba. Ma esse cominciano quaggiù e la loro fragile semenza è nei nostri cuori, e niente fiorisce nel cielo, che non sia prima germogliato sulla terra» (La scala di Giacobbe, AVE, 1947, p. 102).
Il mondo moderno è impazzito, sostiene Chesterton, «non tanto perché ammette l'anormalità, ma perché non sa ritrovare la normalità». L'epoca della secolarizzazione ha oltraggiato e decomposto infine la stessa natura umana; ecco perché si rende necessaria anzitutto un'opera di "apostolato del senso comune". «Un tempo – scrive il filosofo francese in un celebre passo di Ritorno al realeil cristianesimo dovette lottare contro la natura: quella natura era tanto dura, tanto ermeticamente chiusa che la grazia durava fatica a intaccarla. Oggi dobbiamo lottare per la natura, al fine di salvare il minimo di salute terrena necessaria all’innesto del soprannaturale».
Estraneo all’evanescente spiritualismo che abbandona al male le realtà terrene come al perfettismo incarnato dal mito del progresso tecnico necessario e inarrestabile, più che un "iconoclasta della reazione" – alla maniera del colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), al quale pure è accomunato da numerose affinità, anche stilistiche – Thibon è un "testimone della speranza". «L'epoca in cui tutto si è perduto», scrive, «è anche quella in cui tutto si può ritrovare» (Entretiens avec Gustave Thibon, par Philippe Barthelet, La Place Royale, 1988, p. 175). Schierato a favore della positività ultima del reale, il suo è un appello al riconoscimento della "verità delle cose". La speranza poggia sulla pienezza dell'essere, in ultima istanza sull'onnipotenza divina. Dio è, è l'Essere. L'idolo, il non-essere: l'idolatria è la religiosità della disperazione. Crolla così il presupposto della gnosi eterna: l'irredimibile, disperata negatività della realtà creata. È l’amore a svelare il mistero stesso dell’essere.
Se la metafisica della speranza thiboniana si rivela impermeabile ai fuochi fatui del progressismo, certo non indulge alle suggestioni "tradizionaliste" delle utopie "archeologiche". «Che m’importa dunque il passato in quanto passato? Non vi accorgete che quando piango sulla rottura di una tradizione, è soprattutto all’avvenire che penso. Quando vedo marcire una radice, ho pietà dei fiori che seccheranno domani per mancanza di linfa» (L’uomo maschera di Dio, SEI, 1971, p. 258). La devota memoria del passato non deve indurci a «considerare la morte delle cose mortali come una sconfitta irreparabile. Non aggrapparsi totalmente, disperatamente alla materialità (nel senso più ampio) di una tradizione, di una istituzione, d'un regime. Occorre salvare l'anima delle cose cui il vento della morte ha spazzato via il corpo» (Parodies et mirages ou la décadence d'un monde chrétien. Notes inédites [1935-1978], Éditions du Rocher, 2011, p. 20). L'affermazione di valori soprastorici ed eterni non va confusa con l’immagine di una realtà storica compiuta e realizzata. «La vera fedeltà non consiste [...] nell’impedire ogni cambiamento, ma più precisamente nell’impregnare ogni cambiamento di eterno» (Crisi moderna dell'amore, Marietti, 1957, p. 8).
Il philosophe-paysan sa bene che se è preclusa la via del ritorno al paradiso terrestre, ostruita dalla misteriosa realtà del peccato originale, nondimeno l'uomo, come direbbe Gomez Dàvila, "respira male in un mondo non attraversato da ombre sacre". L'ideale della cristianità non può essere accantonato superficialmente. Certo: il regno di Dio non è di questo mondo; occorre scansare il ricorrente «mito dell'uomo collettivo», la tentazione idolatrica che nel "Grosso Animale" platonico (cfr. Repubblica, VI, 492-493) trova forse l'immagine più eloquente.
Ciononostante, è la stessa natura umana a richiedere «una civiltà dove il temporale è irrigato senza posa dall'eterno» (Préface a Dom Gérard Calvet O.S.B., Demain la Chrétienté, Dismas, 1986, p. 11). Il cristiano deve spendersi anche per una società centrata su Dio, portatrice e trasmettitrice dei valori eterni (il Vero, il Bello e il Bene), in cui le tradizioni e i costumi siano intermediari (metaxu) tra l'uomo e il suo fine trascendente. «La nostra eternità non è la negazione del tempo, ne è la fidanzata» (Il pane di ogni giorno, cit., p. 165). L'esempio stesso dei santi mostra che i cristiani devono essere al tempo stesso «visionari del cieli e prodigiosi operai sulla terra».
Al contrario, un mondo impregnato della mera "terrestrità" auspicata da Gramsci nei Quaderni del carcere, imperniato cioè sul principio dell'uomo "misura di tutte le cose", è generatore di una dis-società: un coacervo di individui atomizzati retto unicamente dal precario equilibrio dei rapporti di forza. Lo stesso termine "equilibrio" è sintomatico, chiosa Thibon: «L'equilibrio concerne unicamente la quantità, la pesantezza, i rapporti di forza. L'armonia implica la qualità e la convergenza di qualità verso un fine comune» (L'équilibre et l'harmonie, Fayard, 1976, p. XI).
La nevrosi egualitaria che agita il nostro tempo va ricondotta all'abbandono di questa essenziale distinzione. L'assolutizzazione del principio di uguaglianza si esprime nella legge del numero. Ma il trionfo del quantum non lascia spazio se non al "mondo in frantumi" scaturito dallo scontro di esseri massificati e gruppi "sconnessi" tra loro, senza alcun legame – prima di tutto interiore – a unirli.
Tragiche sono le conseguenze: il conflitto «eretto a legge permanente delle società» e la «generalizzazione della violenza» che sempre più diviene «l'unico mezzo di farsi intendere e ottenere soddisfazione» (ibidem). Si spiega così perché in questo "regno della quantità" si sia imposta la metafora dell'equilibrista in luogo di quella dell'accordatore, l'armonizzatore di suoni. Ma «l'equilibrismo ha fatto il suo tempo, non abbiamo che la scelta tra i due termini di questa alternativa: restaurare, mediante l'armonia, un ordine vivente o lasciarci imporre un ordine morto e mortale da una forza senz'anima che annichilirà tutte le altre» (ibid.).
La ragione spietatamente calcolatrice dell’uomo-massa è incline a organizzare il suo spazio di vita alla stregua di una macchina, plasmandolo per mezzo della tecnica. Sintomo di questa patologia è la crescente diffusione di organismi sociali artificiali, di collettività anonime in seno alle quali gli uomini, puri ingranaggi di una megamacchina sociale, agiscono come funzionari irresponsabili. Questi raggruppamenti trascurano la legge fondamentale dell’armonia e della durata di una società: la legge della comunità di destino, fondata sul principio di interdipendenza o di reciproca solidarietà.
Nella comunità di destino – il cui esempio più tipico è rappresentato dalla famiglia – l’interesse personale coincide invece con l’assolvimento del proprio dovere. Una società è sana, afferma Thibon, nella misura in cui tende ad attenuare la tensione tra interesse e dovere, è malsana nelle misura in cui tende a esasperarla.
Per l’Occidente "sazio e disperato", sfregiato dai resti delle ideologie totalitarie, il realismo thiboniano reca quindi un grande messaggio di speranza: «L'unica nobiltà dell'uomo, la sola via di salvezza consiste nel riscatto del tempo per mezzo della bellezza, della preghiera e dell'amore. Al di fuori di questo, i nostri desideri, le nostre passioni, i nostri atti non sono che “vanità e soffiar di vento”, risacca del tempo che il tempo divora. Tutto ciò che non appartiene all'eternità ritrovata appartiene al tempo perduto» (L'uomo maschera di Dio, cit., p. 262). 

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lunedì 6 giugno 2011

Continuitas

[Ci siamo occupati a più riprese del "filosofo contadino" Gustave Thibon (1903-2001), del quale abbiamo in varie occasioni tradotto su Romualdica alcuni scritti (fra cui, nel 2009 e in sei puntate, l’articolo L'equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola; nel 2010 un inedito; e nel 2011 l'in memoriam della rivista Cristianità). Una nuova occasione per offrire alcuni estratti dell'opera di Thibon ci è fornita dalla nascita del nuovo blog Continuitas, la cui visita raccomandiamo ai lettori, da cui traiamo il post Thibon: vera e falsa Tradizione]

Sinistra e destra nella Chiesa e la spiritualità: il progressista avanza senza tener conto dei parapetti e cade nell’abisso; l’integrista, per paura di cadere, si aggrappa ai parapetti e non avanza più…
(Gustave Thibon, L’illusion féconde, Fayard, Parigi 1995, p. 83)

La vera fedeltà non consiste [...] nell’impedire ogni cambiamento, ma più precisamente nell’impregnare ogni cambiamento di eterno.
(Gustave Thibon, Crisi moderna dell’amore, trad. it., Marietti, Torino 1957, p. 8)

Fedeltà e disponibilità — L’incapacità di legarsi a nuovi affetti appare ai vecchi amici come un pegno di fedeltà. Dovrebbero piuttosto dolersene, perché è quello un segno di esaurimento affettivo che non risparmia neppure il nostro attaccamento per essi. L’individuo impotente a creare nuovi vincoli non si trova in grado di mantenere vive le antiche affezioni e la sua fedeltà somiglia molto a quella dello scheletro per la bara o della pietra per il luogo ove giace. Cosi, una terra troppo esausta per dar vita a nuovo seme, non ha più neppur la forza di nutrire le piante che già regge. La grande illusione degli idolatri del passato sta nel disconoscere che il nostro potere di conservazione è rigorosamente proporzionato al nostro potere di rinnovamento e di creazione, sia nel campo della spirito che in quello del cuore. Quindi la loro fedeltà non è che saggezza e virtù da imbalsamatore.
(Gustave Thibon, Il pane di ogni giorno, trad. it., Morcelliana, Brescia 1949, pp. 16-17)

Lo spirito conservatore — Mi hanno dato del conservatore. «Eppure le conserve non mi piacciono proprio per niente», ho risposto. Preferisco consumare un cibo corruttibile a luogo e stagione e privarmene poi finché il ciclo dei giorni o i casi d’un viaggio me lo riportino sulla tavola piuttosto che averlo sempre a mia disposizione, artificialmente sottratto ai rischi della corruzione ed alle promesse della vita. Ma è pur giocoforza confessare che molte delle virtù conservatrici si richiamano a tecniche analoghe a quelle che presiedono alla fabbricazione dei prodotti conservati: l’impregnazione con lo zucchero, il sale o l’aceto (esistono virtù zuccherate e virtù acidule), e, più ancora, la sterilizzazione che uccide i germi vitali e l’imbottigliamento che sopprime gli scambi col mondo esteriore. Senza contare che non si tratta che di una fedeltà provvisoria, perché le conserve cosi ottenute finiscono sempre per alterarsi; la loro decomposizione infeconda e allora la peggiore di tutte… Non conosco che due forme sane dello spirito conservatore: la fedeltà viva che consiste nel prolungare il passato nel presente come le radici si prolungano nel fiori, e l’amore contemplativo che consiste nel proiettarlo nell’eternità: quella che fa rinascere le cose nel tempo e quella che le solleva al di sopra del tempo. Ma che importanza hanno le fedeltà senza rinnovamento, ed i sussulti che la morte accorda a moribondi che già possiede? E le virtù allo sciroppo, alla salamoia o al bagno-maria che uccidono la fecondità al fine di ritardare un poco la corruzione?
(Gustave Thibon, L’uomo maschera di Dio, trad. it., SEI, Torino 1971, p. 249)

La tradizione e l’avvenireLaudator temporis acti? — Che m’importa dunque il passato in quanto passato? Non vi accorgete che quando piango sulla rottura di una tradizione, è soprattutto all’avvenire che penso. Quando vedo marcire una radice, ho pietà dei fiori che seccheranno domani per mancanza di linfa.
(Gustave Thibon, L’uomo maschera di Dio, trad. it., SEI, Torino 1971, p. 258)

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mercoledì 19 gennaio 2011

Il filosofo contadino

[Ricorre oggi il decimo anniversario della scomparsa di Gustave Thibon (1903-2001), del quale abbiamo in varie occasioni tradotto su Romualdica alcuni scritti (fra cui, nel 2009 e in sei puntate, l’articolo L'equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola; e nel 2010 un inedito). Lo ricordiamo trascrivendo l’In memoriam pubblicato dalla rivista Cristianità. Organo ufficiale di Alleanza Cattolica nel numero di gennaio-febbraio 2001 (n. 303), che anticipiamo con un celebre brano di Thibon. Nella foto a fianco, Gustave Thibon con dom Gérard Calvet O.S.B., in occasione di una conferenza presso l’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux]

«Noi non siamo né di destra né di sinistra, non siamo neppure di in alto; siamo di dappertutto! Siamo stanchi di mutilare l’uomo; sia per abbatterlo come a destra, o per adorarlo, come a sinistra, siamo stanchi di separarlo da Dio. Noi non abbandoneremo un solo atomo della verità totale che è la nostra. In nome di che cosa veniamo attaccati? I nostri avversari sono per il popolo? Anche noi. Per la libertà? Anche noi. Per l’autorità? Anche noi. Per la razza, per lo stato, per la giustizia? Anche noi siamo per tutto ciò, ma per ogni cosa al suo posto. Ci si può battere solo strappandoci le nostre stesse membra. Essendo per il tutto siamo per ogni singola parte. Non vogliamo divinizzare nulla della realtà umana e sociale, poiché abbiamo già un Dio; e neppure vogliamo rifiutare nulla, poiché tutto è uscito da questo Dio. Non siamo contro nulla. O piuttosto, giacché il Nulla è oggi in azione, siamo contro il Nulla. Di fronte ad ogni idolo difendiamo la Realtà che l’idolo annienta. Sotto qualsiasi maschera si presentino, noi diciamo no a tutti i volti della morte. Nella lotta senza scampo che mette alle prese i negatori e i corruttori del Vangelo, da sempre abbiamo preso posizione: siamo del Partito di Cristo»
. (Gustave Thibon)

Il 19 gennaio 2001, a Saint-Marcel-d’Ardèche, nel Midi di Francia, è scomparso, quasi centenario, lasciando tre figli e nipoti, Gustave Thibon. Ed è scomparso nello stesso luogo in cui era nato il 2 settembre 1903, figlio e nipote di contadini. In occasione delle esequie il vescovo diocesano, S. E. mons. François Blondel, ordinario di Viviers, ha — fra l’altro — affermato in un messaggio che «la Chiesa di Francia gli è riconoscente» e, dopo averne citato due pensieri — «Porto in me dei morti più viventi dei viventi. Il mio più grande desiderio è di rincontrarli» e «Mio Dio, al momento della mia morte prendetemi come m’avete fatto e come mi sono disfatto, e abbiate pietà in me della Vostra immagine» —, ha auspicato «che il Signore della speranza esaudisca questa duplice preghiera».
Testimone eminente del secolo XX, è stato definito «il filosofo-contadino», in quanto autodidatta e vignaiolo almeno fino agli anni 1950. Tornato a venticinque anni alla fede cattolica dalla quale si era allontanato nel corso dell’adolescenza, compie studi di filosofia e di storia del pensiero ed è profondamente segnato — anche attraverso un rapporto dialettico — dallo stoicismo classico, da san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274), da san Giovanni della Croce (1542-1591) e da Friedrich Nietzsche (1844-1900), nonché dall’amicizia con Jacques Maritain (1882-1973), con Marcel de Corte (1905-1994), con Gabriel-Honoré Marcel (1889-1973) e con Simone Weil (1909-1943). Con la Weil Thibon intesse un profondo dialogo spirituale: ebrea e trotzkysta, «filo-cristiana» ma mai convertitasi alla fede cattolica, ella deve al filosofo-contadino non solo la propria incolumità negli anni del secondo conflitto mondiale, ma anche, grazie alla pubblicazione postuma dei diari, l’ingresso nella vita culturale. Del sodalizio è testimonianza il volume Simone Weil come l’abbiamo conosciuta (trad. it., con una prefazione di Franco Ferrarotti, Àncora, Milano 2000), pubblicato a Parigi nel 1952 dal padre domenicano Joseph-Marie Perrin e dallo stesso Thibon.
Riflettendo con profondità e con semplicità non comuni su temi quali Dio, l’amore e la morte, Thibon è fra i più acuti critici del «mondo in frantumi» della modernità filosofica, al quale oppone la Croce di Cristo che sola salva, apprezzata pure nei suoi risvolti culturali, politici e sociali, e incarnatasi in una tradizione bimillenaria di cui Thibon impara progressivamente a riconoscersi come figlio.
Conferenziere brillante, è autore di numerosi saggi, articoli e interventi, talora raccolti in volumi a più mani. In lingua italiana sono stati editi, fra altri: Quel che Dio ha unito. Saggio sull’amore (Società Editrice Siciliana, Mazara del Vallo [Trapani] 1947); La scala di Giacobbe (Anonima Veritas, Roma 1947); Nietzsche o il declino dello spirito (Edizioni Paoline, Alba [Cuneo] 1963); e L’uomo maschera di Dio (SEI, Torino 1971).
Le sue opere più significative e più note sono Diagnostics. Essai de physiologie sociale, uscita nel 1940 con prefazione di Marcel, e il suo «seguito» Retour au réel. Nouveaux diagnostics, del 1943. A questi due scritti è principalmente legata la «fortuna» italiana di Thibon. Il primo, pubblicato a Brescia nel 1947 dalla Morcelliana con il titolo Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale, viene ritradotto e riproposto nel 1973 a Roma, con il medesimo titolo, dall’editore Giovanni Volpe (1906-1984), facendo seguito alla prima edizione italiana di Ritorno al reale. Nuove diagnosi, del 1972.
La pubblicazione di quest’ultimo testo in Italia è frutto del rapporto culturale e spirituale nato, e negli anni sviluppatosi, fra il filosofo transalpino e Alleanza Cattolica, per la formazione dei cui militanti Thibon ha svolto e svolge un ruolo di autore di riferimento.
Le due opere sono state riproposte nel 1998 in un unico volume, Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, con una premessa di Marco Respinti (Effedieffe, Milano).

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domenica 4 luglio 2010

Domani, la Cristianità


Non indietreggio verso ciò che fu, avanzo verso ciò che resta.
(Gustave Thibon)

Possiamo concepire in due modi l'idea di cristianità. Il primo, fortemente colorato dalla storia, si manifesta mediante uno sguardo sul passato, attraverso i monumenti artistici e letterari, la vita degli eroi e dei santi. Essa appartiene alla virtù di pietà, virtù religiosa e nazionale; si basa sulla memoria e a questo titolo possiamo dire che ogni cultura, ogni civiltà è anzitutto, essenzialmente, memoria. Il secondo modo di concepire l'eredità provoca uno sguardo sull'attualità e sull'avvenire, alla maniera in cui un ragazzo di vent'anni osserva i campi incolti ereditati dal padre deceduto. Egli osserva e ne prende atto. Tuttavia, si guarda bene dall'imitare in maniera servile le modalità di aratura del padre. Poi calcola le proprie risorse e assume la risoluzione di salvare l'eredità. Fosse pure con l'insolenza della sua età, spera di fare meglio.

[...] Ogni cristianità nascente ci collega alla storia della Chiesa primitiva e porta con sé la grazia degli inizi. Eccoci al lavoro. Per il momento, non si tratta ancora del sorgere dell'aurora, forse non è che il barlume dell'alba che lentamente si distingue dalla notte. Ma vedo Perpetua e Felicita: la giovane patrizia che abbraccia la serva, e tutte due che avanzano assieme verso il martirio. E sant'Ignazio, vescovo di Antiochia, che scrive ai cristiani perseguitati di Roma: "Voi avete la regalità dell'amore".

Dubiteremo forse del fatto che si stesse rivolgendo anche a noi?

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Demain la chrétienté, 2a ed., Dismas, Dion-Valmont 1988, p. 7, p. 154 e pp. 168-169, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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venerdì 2 aprile 2010

Un inedito di Gustave Thibon

Domani, festa di Pasqua. Commemorazione del mistero supremo del destino umano: Cristo è risorto e ci chiama con lui alla vita eterna. Da venti secoli, tanti commentari e sermoni, la cui banalità e ridondanza degradano questo mistero. Il verbalismo ha fatto seguito al Verbo, il chiacchiericcio alle lingue di fuoco che discesero sugli apostoli. Come osare ancora parlarne? Come restituire alle parole l'innocenza del loro significato originale?
I teologi parlano di mistero rivelato. La vera rivelazione si riconosce dal fatto che essa approfondisce in noi il mistero, anziché dissiparlo: Dio diventa per noi, al contempo, via via più interiore e più sconosciuto.
Qualcuno mi parlò un giorno di quel delirio antropocentrico che ci fa immaginare Dio, creatore di tutti i mondi, il quale si sarebbe abbassato fino a sposare la vita e la morte dell'uomo, granello di polvere perso nell'immensità del cosmo, schiavo della necessità per sua natura e vittima della sorte nel suo destino. Di fatto, mi diceva, noi siamo disperatamente soli in un universo indifferente. Ciò che mi ha ricordato i versi di un poeta del secolo XIX:
[...] che si preghi o si bestemmi
La Materia nella sua stupidità si muove,
L'orribile solitudine non è mai la stessa,
E l'uomo solo risponde all'uomo spaventato.
Ho risposto che Simone Weil ha osservato giustamente che "un ordine superiore entro un ordine inferiore si presenta sempre sotto forma di un infinitesimale". Alcuni esempi: cosa pesa la moltitudine degli esseri viventi in rapporto alla massa della materia inanimata?; oppure, quale posto occupa l'uomo - dotato di coscienza, specchio del mondo e di sé stesso - fra le migliaia di specie animali? Più ancora, la coscienza, questo tragico privilegio, ha per prezzo del riscatto la fragilità, la dipendenza nei confronti degli ordini inferiori: il pensiero è più minacciato della vita, e quella che noi chiamiamo la nostra anima è sottomessa a innumerevoli condizionamenti biologici; si può certamente respirare senza pensare, ma non si può pensare senza respirare. Confondendo la causa e la condizione, i "riduzionisti" di ogni marca non vedono nell'anima che il riflesso inetto dei giochi della materia. "Abbiate molta cura del vostro corpo - mi scriveva la stessa persona quand'ero malato - per conservare a lungo l'illusione di avere un'anima".
Tuttavia, denunciare un'illusione implica già il presentimento di una verità, e per ridurre tutto alla materia bisogna essere al di là della materia. Argomento irrefutabile di Aristotele: "Non vi è nulla nello spirito che non sia stato anzitutto nei sensi, se non lo spirito lui stesso". La filosofia dell'assurdo e il pessimismo che ne deriva recano in sé stessi la propria confutazione. "Dire che la vita non vale nulla - scriveva Simone Weil - e offrire quale prova il male è assurdo, perché se non vale nulla, di cosa la priverebbe il male?".
Il sentimento di privazione attesta l'esistenza del bene di cui siamo privati. Morire di sete non prova nulla contro la realtà dell'acqua. O la sete essenziale dell'uomo è quella di un Bene illimitato e senza rovescio, sconosciuto quaggiù. Il mistero della risurrezione di Cristo risponde a questo appello del finito all'infinito, dell'imperfetto all'impossibile. Alla luce di questo mistero scompare l'insolubile problema del male: come può permettere il male un Essere infinitamente buono e infinitamente potente? Gesù risorto ha fatto del male uno strumento del Bene superiore, irriducibile al bene smarrito. Ciò che la liturgia traduce in termini inammissibili sul piano strettamente teologico: "Felice colpa! Davvero era necessario il peccato di Adamo". E ancora: "Tu che hai creato meravigliosamente la natura umana, e che l'hai riparata più meravigliosamente ancora". Rimedio che deriva dalla metamorfosi più che dalla rimessa a nuovo. Se l'uomo si è sfigurato con il peccato, è trasfigurato dalla grazia. Creato nell'Eden, rinascerà in Cielo. La sua caduta è il preludio della sua ascensione. Dice un Padre della Chiesa: "Ritornare a Dio è più divino che essere usciti da Dio". Questo ritorno a Dio passa dalla sofferenza e dalla morte; il Venerdì Santo precede il mattino di Pasqua. Ad Deum per crucem. Ma le tracce del peccato restano così vive nelle nostre anime che la nostalgia dell'Eden vela la speranza del Cielo. Tutte le mitologie del progresso poggiano sul postulato di un miglioramento indefinito della specie umana che permetterà la riapertura di quei "luoghi di delizia" da cui furono cacciati i nostri progenitori. Ma le promesse divine non sono date, nella loro pienezza, che al di là del tempo e della morte. Tale è la prova della virtù della speranza. Come già diceva Eraclito: "Colui che non spera non incontrerà l'insperato". Altresì, è il grido dell'apostolo: "Saldo nella speranza contro ogni speranza" (Rm 4,18).

[Gustave Thibon (1903-2001), testo inedito del 1996 riprodotto in Les amis du monastère, n. 98, 1° maggio 2001, pp. 1-2, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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giovedì 5 novembre 2009

L’equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola / ultima parte

Senza dubbio vi sono degli elementi caduci nella Regola. Talune cortecce cadono, la linfa rimane…
Il giovane citato in precedenza si è mostrato scioccato dalle prescrizioni riguardanti le punizioni corporali. Ho concesso che non siamo più nel secolo VI e che immagino a fatica l’uso delle discipline in un monastero contemporaneo.
Ma si può parlare senza arrossire — o senza ridere — di un autentico addolcimento dei costumi? La nostra epoca — quella dei figli viziati, dell’assistenza generalizzata, della «comprensione» ammorbidita della giustizia penale, ecc. — non è anche quella degli aborti in serie, dei genocidi di massa, dei campi di concentramento e di morte, del terrorismo politico, della tortura scientifica? Che peso hanno le povere vergini di san Benedetto comparate a un tale diluvio di orrori? Un po’ di pudore non guasterebbe. La peggior forma d’ipocrisia è usare la trave nel nostro occhio come una lente d’ingrandimento per esagerare le dimensioni delle pagliuzze che offuscavano lo sguardo dei nostri antenati. Riflesso infantile d’autodifesa e d’autogiustificazione tramite il quale il nostro tempo si dà una buona coscienza conciliando, al prezzo di una menzogna, la propria fede nel progresso e la propria regressione verso la barbarie…
L’equilibrio in altitudine. Più il fine dell’ascesa è elevato, più va prestata attenzione alle leggi della pesantezza. Il pericolo di caduta è diversamente grave per l’alpinista e per il camminatore di pianura.
Le minuzie della Regola assicurano questo equilibrio, senza il quale ci si espone al rischio di cadere ai primi gradini, o a non salire che in sogno. Un tempo ho detto che solo l’infinito ci dà la chiave della misura. Si può girare la proposizione e affermare che la misura ci dà la chiave dell’infinito. La regola emana dal confluire di queste due evidenze: essa ci vaccina contro la tentazione della dismisura, quel falso infinito odiato dei Greci che Maurras qualificava come osceno, e che tradisce sia la terra sia il cielo.
Il termine del viaggio è in cielo; la rotta è sulla terra e l’uomo vi sale con tutto il suo peso. La Regola traccia e consolida la via stretta che conduce alla Patria senza frontiere. Essa non sopprime la pesantezza: ne previene gli effetti negativi legandola all’attrazione dell’imponderabile divino.
È per questo capolavoro di armonia fra le leggi della natura e il mistero della grazia che san Benedetto rimane, al di là e all’interno di tutti i secoli, una delle guide supreme dell’umanità in cammino verso la salvezza.
Nel quinto centenario della sua nascita e in un mondo già raggiunto e minacciato nel suo insieme da una nuova barbarie più impietosa di quella dell’Alto Medioevo, l’immagine tutelare del Patriarca e del suo gregge emerge come la visione dell’Arca sulle acque del diluvio. Mi tornano alla mente i versi che gli dedicava all’inizio del secolo XX il poeta Le Cardonnel:

Tu regardes les flots échappés de ton urne
Aux horizons lointains de l’esapce et du temps
Miséricordieux, sévère et taciturne.

Orizzonti dove lo spazio confina con l’infinito e il tempo con l’eternità.

[Gustave Thibon (1903-2001), L'équilibre dans l'altitude. Méditations sur la Règle, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 71-77 (qui pp. 76-77), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 6 / fine]


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domenica 1 novembre 2009

L’equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola / quinta parte

La Regola, a immagine della vita, è ferma nel suo principio e docile nelle sue applicazioni. Sono meravigliato, rileggendola, dallo spirito di moderazione che tempera e — se posso così dire — lubrifica i precetti più severi. La migliore bilancia è quella più sensibile alle differenze dei pesi. San Benedetto non perde mai di vista la diversità degli esseri e delle circostanze: ogni pagina della Regola testimonia di quest’attenzione vigilante al concreto e al dettaglio: si rileggano, per esempio, le righe dedicate alla misura del cibo e delle bevande, alla cura dei malati, ai lavori manuali, ecc. E se la bilancia — la cui giustezza è il simbolo della giustizia — deve pendere un poco, è nel senso dell’indulgenza e della misericordia: «semper superexaltet misericordiam judicio», è prescritto agli abati.

Regola di vita e regola viva. Il nostro tempo ripudia volentieri le discipline morali e spirituali come contrarie alla libertà e alla «fioritura» dell’uomo. In realtà, non abbiamo più autentica libertà perché non abbiamo più vere regole. E quanto alla fioritura permanente, non esiste che per i fiori artificiali, che non alimentano alcuna linfa e che non danno né frutto né seme. Non si sfugge alla regola: non si ha scelta che fra la regola viva e vivificante e la regola morta e mortificata. Il Giano contemporaneo ci offre due volti ugualmente distorti: da un lato la smorfia mobile della licenza e del caos; dall’altro la smorfia congelata dell’ordine burocratico che sostituisce le regole con i regolamenti e le forme — nell’accezione aristotelica del termine — con le formalità, scheletro prefabbricato per gl’invertebrati della libertà. Un solo esempio per illustrare tale contrasto: la pornografia e l’aborto sono permessi, quando non incoraggiati, ma non si ha il diritto di rifiutare le vaccinazioni o di circolare in auto senza cintura; si può corrompere e uccidere, ma non disporre del proprio corpo…

[Gustave Thibon (1903-2001), L'équilibre dans l'altitude. Méditations sur la Règle, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 71-77 (qui pp. 75-76), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 5 / segue]


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mercoledì 14 ottobre 2009

L’equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola / quarta parte

In un senso ancor più profondo, la Regola c’insegna l’uso armonioso del tempo, cosa pressoché completamente dimenticata dal nostro mondo d’idolatria del temporale.
Il tempo, riflesso del movimento circolare degli astri, «immagine mobile dell’eternità immobile», ha per essenza il ritmo; è continuo e irreversibile, ma riconduce senza fine i medesimi fenomeni — giorni e stagioni, ascese e declini, vita e morte, ecc. — nella sua gravitazione attorno al medesimo centro. «Il ritmo è la palpitazione dell’eterno nella durata», afferma un romanticista tedesco. De-ritmare il tempo — sia stiracchiandolo per l’ozio e la noia, sia colpendolo con il trambusto e il superlavoro — è commettere un peccato contro l’eterno, di cui è immagine e percorso. E perdere il proprio tempo è già perdere la propria anima.
In questo la Regola è un capolavoro d’adattamento del tempo dell’uomo al tempo di Dio. Per essa ogni ora è l’ora del Signore. Come diceva Simone Weil, essa ha per effetto «di rendere più sensibile il carattere circolare del tempo», cioè d’impregnare senza fine il presente d’eternità, ogni punto della circonferenza rimanendo ugualmente sottomesso all’attrazione del centro. Il monaco perfetto vive nella redenzione perpetua dell’effimero da parte dell’eterno.
Monotonia, uniformità, diranno le menti viziate dalla febbre del secolo, per la quale l’immagine del cerchio evoca quella della prigione. Ciò significa dimenticare che il ritmo non assume mai l’identico, ma il simile, che è zampillio permanente e non ripetizione meccanica. Vi è uniformità nel volo circolare dell’aquila, nell’ondulazione delle onde del mare, nel fruscio delle foglie al vento, nella successione delle primavere? Nulla in natura è la riproduzione assoluta di quanto lo ha preceduto; tutto assomiglia a ciò che è stato e tutto è «ciò che mai si vedrà due volte». Non vi è monotonia in Dio né nell’opera di Dio. Ciò che è monotono, rimasticato, che gira in tondo — ma non nello stesso cerchio: in quello di una gravitazione senza stella — è il prurito della novità a ogni costo, è la moda che dipinge sui muri del tempo, vissuti come una prigione, delle false finestre per un’evasione illusoria.
Ma il tempo non è solo l’immagine dell’eterno: ne è anche la prova. San Benedetto sottolinea il fatto tragico che noi non abbiamo se non questa vita per realizzare la nostra salvezza, e ognuno dei nostri passi sulla terra lascia un’impronta indelebile nel mondo in cui nulla cambia: «finche c’è tempo e siamo in questo corpo e abbiamo la possibilità di compiere tutte queste buone azioni, dobbiamo correre e operare adesso quanto ci sarà utile per l’eternità». In altre parole, tutto ciò che non è semente d’eternità è una perdita di tempo. Di fronte alla cronolatria moderna che altro non è se non la prostituzione del tempo a sé stessa, è possibile dare al tempo un più profondo omaggio che scorgervi, a seconda dell’impiego che ne facciamo, l’ostetrica o l’abortista di un’anima immortale?
[Gustave Thibon (1903-2001), L'équilibre dans l'altitude. Méditations sur la Règle, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 71-77 (qui pp. 73-75), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 4 / segue]

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giovedì 1 ottobre 2009

L’equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola / terza parte

«Capisco bene — mi ha detto un giovane, condizionato dal lassismo contemporaneo —, ma che bisogno c’è di una regola come quella di san Benedetto per aprirsi alla luce e all’amore? Quale rapporto intercorre fra queste minuzie e la santa libertà dei figli di Dio? O con il celebre precetto di sant’Agostino “ama e fa ciò che che vuoi”? L’amore, dono gratuito dell’essere infinito la cui misura, ci dice lo stesso santo, è di essere senza misura, esige una disciplina così raffinata nell’umano e nel temporale?».

Ho risposto: confondete la causa e le condizioni. La causa della crescita di una pianta è nel seme; le condizioni risiedono nella natura del suolo, nel sole, nella pioggia e nelle cure del giardiniere. La causa del respiro è nei polmoni; le condizioni risiedono nella qualità dell’atmosfera e nella solidarietà fra i polmoni e le altre parti del corpo. Per esempio, è possibile assimilare la «gabbia» toracica a quella che contiene dei volatili in cattività? E si respirerebbe più liberamente se i polmoni fuggissero da questa prigione?


Ugualmente per l’amore divino e la salvezza dell’anima. L’ascesi è per la libertà dei figli di Dio ciò che il suolo, il clima e il lavoro del giardiniere sono per la pianta. O che lo scheletro è per i polmoni. O ancora ciò che l’esperienza, la prudenza e l’equipaggiamento dell’alpinista sono per il raggiungimento della cima da raggiungere. L’ascensione lo dispensa dell’uso delle corde e dei chiodi? Quanto gli evita la caduta, è un’offesa alla sua libertà?

[Gustave Thibon (1903-2001), L'équilibre dans l'altitude. Méditations sur la Règle, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 71-77 (qui p. 73), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 3 / segue]

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lunedì 21 settembre 2009

L’equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola / seconda parte

Mi sono attardato sul prologo della Regola. Di cosa si tratta? Anzitutto di aprire gli occhi alla luce che divinizza: ad deificum lumen. Ho pensato alle parole di Goethe sullo sguardo umano destinato a contemplare gli oggetti illuminati, non la luce: «Erleuchtetes, nicht Licht, zu schauen bestimmt». Perché la luce, che fa vedere tutto, è essa stessa invisibile. Da qui il nostro attaccamento agli oggetti illuminati, per mezzo dei quali ci dimentichiamo della luce. La conversione risiede nel cambiamento interiore che ci fa adorare la nuda luce attraverso e oltre gli oggetti illuminati e ci fa comportare, seguendo le parole dell’Apostolo, «come se vedessimo l’invisibile».

Da questa contemplazione della luce nascono le opere luminose. «Se, però, vogliamo trovare dimora sotto la sua tenda, ossia nel suo regno, ricordiamoci che è impossibile arrivarci senza correre verso la meta, operando il bene». Compiute queste opere, la risposta di Dio precederà le nostre invocazioni: «et antequam me invocetis, dicam vobis: ecce adsum».

[Gustave Thibon (1903-2001), L'équilibre dans l'altitude. Méditations sur la Règle, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 71-77 (qui pp. 72-73), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 2 / segue]

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venerdì 18 settembre 2009

L’equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola

Non ho né il tempo né la forza, e nemmeno — ahimé — l’esperienza sufficiente per commentare degnamente la Regola del santo patriarca. Vi apporto tuttalpiù alcune riflessioni sparse, uscite da una rilettura attenta del grande testo di san Benedetto, e questa testimonianza di un uomo del secolo XX — talora accusato di non essere abbastanza del suo tempo, ma che a suo avviso lo è sin troppo — dev’essere intesa come un omaggio lontano e nostalgico a tutto ciò che nella Regola risponde ai bisogni profondi dell’uomo eterno e, singolarmente, dell’uomo d’oggi.

Sono consapevole di parlare di ciò che mi manca. Poco importa, posto che ciò che manca sia riconosciuto e provato come tale. La ferita di un’assenza è ancora una presenza. E il contrasto con ciò che siamo affina, se rifiutiamo di mentire a noi stessi, la percezione di ciò che dovremmo essere. Un Balzac, un Hugo, dei quali è nota la vita avventurosa, non hanno forse sentito come nessun altro il prezzo della castità che tradivano con la loro condotta? «La verginità, madre di grandi cose, tiene nelle sue mani bianche la chiave dei mondi superiori», scrive il primo. E il secondo canta:
Hélas ! Faux désirs, fausses flammes ;
L’esprit par la chair se corrompt.
Quand nous n’aurons plus que des âmes
Comme les âmes s’aimeront !
O è necessario evocare Nietzsche — filosofo dell’esplosione e «frantumatore delle antiche tavole» —, che spinge il paradosso fino a questa confessione: «farsi avvocati della regola, sarà domani l’ultima forma di grandezza». La profezia si è compiuta: questo domani è il nostro oggi, e le servitù senza nome e senza numero che sono nate dalla sregolatezza ci fanno sospirare verso la regola come al vertice della libertà.

[Gustave Thibon (1903-2001), L'équilibre dans l'altitude. Méditations sur la Règle, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 71-77 (qui pp. 71-72), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 1 / segue]

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