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venerdì 30 marzo 2012

La liturgia, anima dell’autentica cultura umana e cristiana

È altamente auspicabile, che per essere fruttuoso e legittimo nella Chiesa, il legame tridentino sia fondato non su una protesta identitaria ereditata e difficile da assumere, ma su un’autentica cultura umana e cristiana di cui la liturgia sia l’anima, ben più che l’insegna; una cultura di cui la liturgia sia il poema il più segreto e il più resistente alle ingiurie della vita. Se al giorno d’oggi i genitori intendono crescere i loro figli nell’attaccamento tridentino, lo devono approcciare con una grande onestà ecclesiale; intendo dire, non come l’elemento vincolante di un certo profilo sociologico, ma – in tutto rigore di coscienza cristiana – come un fattore di crescita battesimale.

[François Cassingena-Trévedy, Moine de Ligugé, Te igitur. Le missel de saint Pie V. Herméneutique et déontologie d’un attachement, Ad Solem, Ginevra 2007, p. 57, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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mercoledì 24 agosto 2011

Benedetto e la bellezza

Ubi Benedictus ibi pulchritudo, verrebbe da dire ogniqualvolta ci si ritrovi, con stupore, in qualcuna di quelle vere e proprie oasi di bellezza scaturite dalla persona o dal carisma di san Benedetto da Norcia. Nelle grandi e celebri abbazie o nei piccoli e sconosciuti eremi si respira intatta la medesima scia di pace e di bellezza, di fusione tra la creazione divina e le opere umane, al punto da chiedersi – forse un po’ ingenuamente – se ci sia una “ricetta” particolare, se Benedetto abbia lasciato particolari direttive in proposito. Tuttavia compulsando la Regola benedettina alla ricerca del segreto si rischia di restare delusi: il termine “bellezza” non ricorre neanche una volta. Per il semplice motivo che non ce n’era bisogno: il segreto dei monaci è la loro stessa vita, poiché essi si dissetano costantemente alla fonte della bellezza.

La liturgia e la festa

Quella dei monaci è infatti una vita essenzialmente liturgica (“nihil Operi Dei praeponatur”, Regola, cap. XLIII), simile a quella degli angeli: non solo perché pregano incessantemente ma perché lo fanno disinteressatamente. “Essi pregano innanzitutto non per questa o quell’altra cosa, ma semplicemente perché Dio merita di essere adorato. […] È il 'servizio' per eccellenza, il 'servizio sacro' dei monaci. Esso è offerto al Dio trinitario che, al di sopra di tutto, è degno 'di ricevere la gloria, l’onore e la potenza' (Ap 4,11), perché ha creato il mondo in modo meraviglioso e in modo ancora più meraviglioso l’ha rinnovato” (Benedetto XVI). Di conseguenza, perennemente immersi nella Trinità, essi ne escono trasfigurati – diventano “Geistliche (cioè persone spirituali)” – e non possono fare a meno di trasfigurare tutte le loro attività. Inconsapevolmente essi “ornano” il mondo, perché la loro vita è essenzialmente festiva proprio nella misura in cui è impregnata di liturgia. Il filosofo tedesco Josef Pieper ci aiuta a cogliere più approfonditamente il legame tra festa e culto in un saggio intitolato Sintonia con il mondo. Pieper ci spiega che la “vera” festa, ciò che comunemente definiamo come “una bella giornata”, più che nell’attivismo si situa al livello della contemplazione, dell’ammirazione; ma questo è possibile solo se si riesce a gettare lo sguardo sul fondamento del mondo, per scoprirne quell’originaria ed essenziale bontà che, malgrado il male presente, resta intatta e irrevocabile. Qualunque sia il motivo contingente, “per rallegrarsi di qualcosa si deve approvare tutto” (Friedrich Nietzsche, cit. in J. Pieper). Non stupisce quindi che Pieper definisca il culto come il nucleo, anzi “la forma più festiva della festa”, poiché alla radice del culto vi è il consenso verso il mondo intero: “È di fatto 'un illimitato dire di sì e amen'. Ogni preghiera si conclude con queste parole, così va bene, così dev’essere, così sia, ainsi soit-il. Ugualmente si deve supporre che si sentirà risuonare il canto di lode dell’Alleluja. Anche il culto celeste delle visioni apocalittiche è un’unica acclamazione composta da ripetute esclamazioni come 'lode', 'esaltazione', 'onore', 'ringraziamento'”, e lo stesso termine eucaristia significa “azione di grazie”. Non a caso la Pasqua e quindi la domenica è la festa fondamentale del cristianesimo, è il primo e l’ultimo giorno, beneficium creationis“era cosa molto buona” (Gn 1,31) – e imago venturi saeculi: dietro ogni liturgia cristiana, irradiazione della Pasqua, c’è la festa eterna della creazione e della ri-creazione, che si svolge al di là del tempo.

Lo sguardo su Dio

Benedetto XVI, in visita all’abbazia di Heiligenkreuz, identifica la vera “ricetta” della bellezza monastica in quel “non si anteponga nulla all’opera di Dio” (cioè all’ufficio divino), che Benedetto raccomanda ai suoi monaci, ricordando loro che la partecipazione interiore all’ufficio divino consiste nel considerare “come bisogna comportarsi alla presenza di Dio e dei suoi Angeli” (Regola XIX): “La bellezza di una tale disposizione interiore si esprimerà nella bellezza della liturgia al punto che là dove insieme cantiamo, lodiamo, esaltiamo ed adoriamo Dio, si rende presente sulla terra un pezzetto di cielo. Non è davvero temerario se in una liturgia totalmente centrata su Dio, nei riti e nei canti, si vede un’immagine dell’eternità. Altrimenti, come avrebbero potuto i nostri antenati centinaia di anni fa costruire un edificio sacro così solenne come questo? Già la sola architettura qui attrae in alto i nostri sensi verso 'quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, le cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano' (cfr 1 Cor 2,9)”. Non solo negli edifici sacri, poiché “in tutti i secoli i monaci, partendo dal loro sguardo rivolto a Dio, hanno reso la terra vivibile e bella. La salvaguardia e il risanamento della creazione provenivano proprio dal loro guardare a Dio”. E poiché bonum – ma anche pulchrumdiffusivum sui, dall’ora al labora, dagli altari ai campi, alle città, ai paesaggi, a partire da quell’unico sguardo (Ct 4,9) centrato su Dio è scaturita a raggiera, come un gigantesco ostensorio, un’intera civiltà plasmata anche visivamente dalla bellezza della liturgia. L’esempio dell’Austria, definita dal Papa Klösterreich – nel duplice senso di “regno di monasteri” e “ricca di monasteri” – vale per qualsiasi luogo fecondato dai figli di san Benedetto, dove persino l’ateo più accanito troverà ristoro per gli occhi e quindi per il cuore.

Bellezza e ordine

La vita liturgica dei monaci ci permette di scoprire anche un’altra dimensione della bellezza e della pace che ne deriva: l’ordine. Un monaco benedettino, François Cassingena-Trévedy, nel suo saggio su La bellezza della liturgia, mette in evidenza la connessione etimologica tra ornare e ordinare. La liturgia – che, ribadiamo, impregna tutta la vita, anzi tutto l’essere del monaco – mette ordine, tra le altre cose, anche nel tempo e, nello spazio, in vista del ripristino di quell’ordine primordiale, a cui ogni uomo tende naturalmente poiché è la cifra che lo stesso Creatore ha iscritto nella creazione, e che si manifesterà compiutamente dopo la risurrezione: il mondo dei risorti sarà un mondo ordinato intorno a Cristo per celebrare una liturgia eterna. La liturgia ordina innanzitutto il tempo, se ne appropria per riempirlo di significato, riproponendo attraverso i vari cicli – da quello diurno della liturgia delle ore a quello annuale incentrato sulla Pasqua, sul Natale e sulle feste dei santi – il mistero multiforme di Cristo che essa inculca sempre più profondamente in noi mediante un movimento a spirale. La liturgia si appropria e instaura un nuovo ordine anche nello spazio e nelle realtà materiali e chiama a raccolta e porta a compimento tutta la creazione: niente in essa ha una funzione puramente decorativa, anzi tutti gli elementi (pane, vino, acqua, fuoco, ecc.) del mondo diventano addirittura co-liturghi – così come l’architetto Gaudì “introdusse dentro l’edificio sacro [della Sagrada Familia] pietre, alberi e vita umana, affinché tutta la creazione convergesse nella lode divina” (Benedetto XVI).

La nuova creazione

La sintonia col mondo, il ripristino dell’ordine originario è particolarmente evidente nei cosiddetti “salmi cosmici” che concludono le lodi chiamando a raccolta tutti gli elementi della creazione – stelle, acque, nevi, venti, pesci, uccelli, greggi, uomini – affinché tutti “laudent nomen Domini”. Quest’ordine non può che scaturire da un cuore “ordinato” e guarire le ferite degli altri cuori, contagiandoli con la nostalgia del tempo in cui “il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato” (Gn 2,8). Infatti, grazie alla liturgia, i monaci vivono allo stesso tempo nell’Eden e nella Gerusalemme celeste. Senza dimenticare la terra, al contrario, irradiando anche visibilmente su di essa lo splendore del Paradiso.

[Articolo di Stefano Chiappalone dal blog Continuitas, riprodotto con la cortese autorizzazione dell'autore]

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lunedì 28 giugno 2010

La bellezza della liturgia

[Del tutto recentemente abbiamo offerto l'estratto di un libro del monaco benedettino Dom François Cassingena-Trévedy, auspicandone la pubblicazione integrale da parte di qualche editore sensibile e lungimirante. Contemporaneamente, la rivista Cristianità. Organo ufficiale di Alleanza Cattolica, ha pubblicato nell'ultimo fascicolo (anno XXXVIII, n. 356, Piacenza aprile-giugno 2010, pp. 67-70) una recensione di Stefano Chiappalone a un precedente studio di Dom Cassingena-Trévedy, La bellezza della liturgia (trad. it., Edizioni Qiqajon, Magnano 2003, pp. 118). Con l'autorizzazione della rivista Cristianità pubblichiamo l'integralità di questo importante articolo.]


In diverse occasioni Papa Benedetto XVI ha indicato come modelli della liturgia gli angeli e, di conseguenza, quanti vivono continuamente alla presenza di Dio — come queste creature celesti — celebrando incessantemente la liturgia con la loro stessa vita: i monaci. Ed è proprio un monaco benedettino a mostrarci ciò — anzi, Colui — che allo stesso tempo si nasconde e si rivela nei divini misteri. L’autore, padre François Cassingena-Trévedy, di nazionalità francese ma nato a Roma nel 1959, si è laureato in Filologia all’École Normale Supérieure di Parigi nel 1980 e nel medesimo anno ha abbracciato la vita monastica. Ordinato sacerdote nel 1988, l’anno seguente si è laureato in Teologia presso l’università di Friburgo, in Svizzera. Attualmente risiede nell’abbazia di Saint-Martin de Ligugé, presso Poitiers, in Francia, dove svolge l’ufficio di maestro dei novizi. Studioso di discipline liturgiche e patristiche, in particolare dell’opera di sant’Efrem il Siro (306-373) — che ha curato per conto delle Sources Chrétiennes —, insegna all’Institut Catholique de Paris ed è autore di numerosi saggi e libri, fra i quali La liturgie, art et métier e Te igitur. Autour du Missel de S. Pie V (entrambi editi da Ad Solem, Ginevra 2007) e Les Pères de l’Eglise et la liturgie (DDB. Institut Catholique de Paris, Parigi 2009).
Il saggio Jalons pour un esthétique de la liturgie, apparso nel n. 116, del 2001, della rivista Liturgie della Commission Francophone Cistercienne, viene pubblicato autonomamente in traduzione italiana con il titolo La bellezza della liturgia, che, prima di qualsiasi ulteriore valutazione, è sostanzialmente la bellezza di Cristo, «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 45 [44], 3).
Già nella Premessa (pp. 7-11) l’autore chiarisce che solo a partire da qui, andando alla radice della liturgia, possiamo aprirci alla sua vera essenza, superando il soggettivismo e la dittatura del gusto che talvolta accomuna i fautori delle più variegate tipologie di Messa: «Nell’era dei centri commerciali si va a cercare anche nel supermercato ecclesiale ciò che si trova di conveniente. Sottile e perfido ribaltamento dei fini. Quella che nei primi secoli del cristianesimo veniva chiamata opus Dei, l’opera di Dio, tende a diventare un genere di consumo tra tanti altri» (p. 9).
Nel primo capitolo emerge il nesso primordiale, essenziale, fra Liturgia e sacramentalità (pp. 13-22): la ragion d’essere della liturgia, infatti, «[...] è sempre legata a qualche sacramento, ogni volta è un sacramento quello che celebra, che accompagna, al quale fa da contesto» (p. 13); anche nel caso della liturgia delle ore, il cui stretto legame con la Messa non fa che continuarne instancabilmente la celebrazione. Ma prima ancora dei singoli sacramenti vi è la «sacramentalità fondamentale e antecedente» (p. 15), la «sacramentalità indifferenziata, primitiva» (p. 16) data dalla presenza operante e attiva di Cristo.
Presenza operante e attiva, dunque, non vaga o parolaia, poiché la liturgia è fatta anche di parole, ma mai fini a sé stesse, sempre volte a conseguire un effetto concreto, in quanto — e siamo al secondo capitolo, Una cristologia del gesto (pp. 23-53) — legate indissolubilmente ai gesti fondamentali di Colui che è «[...] il Gesto di Dio verso di noi, Cristo. L’estetica liturgica si fonda su una cristologia del gesto» (p. 27). «Attraverso la celebrazione liturgica dei sacramenti e l’insieme dei gesti concreti che questa richiede, la chiesa non fa nient’altro che prolungare, attualizzare i gesti di Cristo» (pp. 28-29). Pertanto l’autore definisce la liturgia stessa come «[...] un bel gesto di Cristo che coordina a sé i nostri gesti» (p. 30). Il Canone Romano — o prex eucaristica — che parla di sanctas ac venerabiles manus, «mani sante e venerabili», e di praeclarum calicem, «glorioso calice», offre un compendio della bellezza e della maestà del gesto supremo di Cristo. Non si tratta però di una bellezza soltanto plastica, esteriore. «In questo caso Cristo non sarebbe stato l’unico a fare dei bei gesti. Dopo tutto l’arte statuaria della Grecia classica ne ha immortalati anch’essa parecchi, e di molto belli» (p. 34). Nei gesti di Cristo invece si manifesta una bellezza superiore che viene dall’alto — et elevatis oculis in caelum —, l’aisthetòn ultimo «[...] che si chiama Grazia, Salvezza, Amore, Vita» (p. 36) e non può prescindere dal lògos della croce che — stravolgendo e superando i nostri criteri — opera una vera e propria pasqua estetica: «Il Bello muore sulla croce, sfigurato, ed è proprio da quella morte che resuscita, paradossale, la vera bellezza; è proprio in quella morte che si manifesta la bellezza autentica» (p. 39). L’arte stessa per entrare nel santuario non può aggirare la vera Bellezza che scaturisce dalla croce, anzi deve lasciarsi permeare dalla logica della Pasqua, la logica suprema dell’Amore che la Chiesa presenta nella liturgia: «Le mani sono “sante e venerabili” proprio perché sono quelle dell’Amore, e il calice è “bello” molto semplicemente perché è l’Amore che lo prende in mano» (p. 45). Dal «bel gesto» di Cristo scaturisce anche un nuovo ordine per i nostri gesti, il loro tempo, il loro spazio, poiché «la liturgia è tutto lo spazio di cui Cristo ha bisogno per esprimersi, tutto il tempo che gli serve per raccontare se stesso» (p. 53).
Argomento del lungo capitolo successivo è L’ordine (pp. 55-108): fin dall’inizio della creazione vediamo un Dio che mette ordine e tanto nell’Antico quanto nel Nuovo Testamento viene continuamente ribadito il carattere gerarchico della liturgia, che realizza la connessione etimologica fra ornare e ordinare, e di cui la regola aurea enunciata da san Paolo offre un efficace compendio: «“Tutto avvenga decorosamente (euschemónos) e con ordine (katà táxin)” (1 Cor 14, 40)» (p. 61). Tale principio guiderà persino la risurrezione dei morti nell’ultimo giorno (cfr. 1 Cor 15, 22-23), poiché costoro in fondo risorgono al fine di celebrare una liturgia eterna. «Il mondo dei risorti, che si costituisce attorno a Cristo principio di vita, appare dunque come un mondo ordinato, e in quanto tale atto a eseguire quella liturgia concentrica, scaglionata in diversi livelli, che l’Apocalisse descrive» (pp. 62-63). I Padri della Chiesa insisteranno proprio sull’ordine e sull’armonia della liturgia, espressi nei ministeri, negli spazi, nei canti, nella dottrina. «Naturalmente ci sarà chi vorrà individuare, in questa costante attenzione dei padri all’ordine, un tratto caratteristico della loro cultura greca: libero di farlo; resta comunque il fatto che tale elemento si è incontrato con la rivelazione, che la chiesa l’ha assimilato in profondità, l’ha accolto, e che per noi non è più possibile prenderlo alla leggera sacrificandolo alle rivendicazioni dell’individualismo moderno, ordinariamente egualitaristico e anarchico, che del resto si è fatto strada solo in questi ultimi decenni, anche in ambito liturgico» (p. 73). La liturgia in realtà non fa che ristabilire quell’ordine primordiale, a cui ogni uomo tende naturalmente poiché è la cifra che lo stesso Creatore ha iscritto nella creazione.
Essa ordina innanzitutto il tempo, se ne appropria per riempirlo di significato, riproponendo attraverso i vari cicli — il ciclo delle ore diurne, l’anno liturgico e le feste dei santi — il mistero multiforme di Cristo e inculcandolo sempre più profondamente in noi mediante un movimento a spirale che concilia ciclicità e progresso, mediante «una sorta di rivoluzione copernicana attorno al mistero di Cristo» (p. 80), che conferisce così un senso a un tempo altrimenti in balia dell’assurdo.
La liturgia instaura e si appropria di un nuovo ordine anche nello spazio e nelle realtà materiali. Nella Gerusalemme celeste ci sono angeli agrimensori e geometri (cfr. Ap 21, 15ss.): «Che lo Spirito divino [...] sia anche Spirito di geometria?» (p. 83). In fondo Dio stesso afferma che non Lo si può incontrare nel caos senza forma (cfr. Is 45, 19) e la stessa creazione pertanto si configura come un kósmos di cui la chiesa è simbolo: «[...] essa comprende il divino santuario come un cielo, e in aggiunta a esso è disposto il corpo centrale dell’edificio (la navata) come una terra» (San Massimo il Confessore [580-662], cit. pp. 85-86). La liturgia chiama a raccolta e porta a compimento tutta la creazione, niente in essa ha una funzione puramente decorativa, anzi tutti gli elementi — pane, vino, acqua, fuoco e così via — del mondo diventano addirittura co-liturghi. «Altrimenti che senso avrebbero i salmi cosmici che recitiamo ogni giorno a coronamento delle lodi? [...] Qui si tocca con mano la facoltà simbolica della liturgia, non solo nel senso che essa utilizza le realtà del mondo sensibile come simboli, ma anche nel senso che essa “raccoglie” la creazione e la ricapitola» (pp. 88-89). In tal senso la liturgia è il vero «ecosistema», che inaugura l’equilibrio escatologico in cui ogni elemento troverà il proprio posto.
A maggior ragione questo nuovo ordine riguarda gli uomini e non è casuale il legame fra vocabolario liturgico e vocabolario militare, poiché il popolo di Dio non è «un popolo informe e caotico, malgrado le rivendicazioni egualitarie di un certo anarchismo ecclesiale» (pp. 91-92), che non tiene conto della necessità del battesimo e del sacerdozio ordinato, della struttura che Dio stesso ha voluto. «Insomma, la liturgia presuppone il sacramento dell’ordine, o l’ordine come sacramento» (p. 92), e questo si riflette inevitabilmente anche nel cuore del singolo uomo, instaurando un momento di pace e spostando il centro di gravità dall’io a Dio.
Infine nella liturgia, che è il luogo proprio dell’esegesi biblica, la Sacra Scrittura, suddivisa, organizzata e «attuata» attorno ai diversi misteri celebrati, rivela il suo mistico ordine, quell’ordine che a noi peccatori, lasciati al nostro senso «privato», rimarrebbe irrimediabilmente nascosto. Così come avviene per il tempo, lo spazio e l’uomo, la liturgia «[...] fa emergere la vera struttura e l’elemento formale di tale struttura, che è di ordine cristocentrico; essa organizza il corpo della rivelazione scritta attorno al suo asse: Cristo salvatore» (p. 102). È infatti in ambito liturgico che si è formato il canone della Scrittura — sia l’Antico sia il Nuovo Testamento —, che non è un libro morto da analizzare filologicamente dall’inizio alla fine, bensì da leggere in quello che il poeta francese Paul Claudel (1868-1955) definisce «l’enorme edificio della liturgia» (cit. p. 103) innalzato dalla Chiesa che, «[...] come un poeta straordinario, ha preso da ogni parte frammenti dei padri, della Bibbia, dei racconti agiografici, degli scritti poetici, per farne una costruzione viva nella quale sono impiegate armonicamente tutte le ricchezze dell’universo in un inno di gloria al Creatore» (ibidem). È il risultato di un ordine che ha a che fare con la bellezza, ma anche con il precetto, poiché «[...] non c’è liturgia autentica senza docilità intelligentemente scrupolosa alle rubriche» (p. 105) e «non esiste estetica liturgica che possa eludere il carattere normativo della liturgia» (ibidem).
«Ordine infine nel senso di ordinamento a un fine» (p. 106), cioè la perenne liturgia cui saremo chiamati nella Gerusalemme celeste, che in ultima analisi è l’epifania dell’Amore di Cristo, dalla cui iniziativa e non dalle nostre invenzioni scaturisce la vera bellezza. Questa infatti non è una bellezza qualunque, è La bellezza di Dio (pp. 109-114) e il suo splendore è tale da risultare in qualche modo «tremendo» (phriktós), da suscitare profonda impressione; e proprio da qui deriva il suo potenziale missionario, in quanto manifestazione di una Realtà che ci supera, e che tuttavia «[...] proprio allora, paradossalmente, diventa vicina» (p. 114).
Nelle pagine finali — Dove si intrufolano gli angeli (pp. 115-118) — l’autore raccomanda un particolare canone estetico che richiama molto da vicino quello spirito «angelico» della liturgia caro a Papa Benedetto XVI: l’ariosità. «Non ci sia nulla, in essa, di troppo sacrificato o di troppo pesante e opprimente, né i suoni, né la luce, né i protagonisti. Lasciamo alla Parola, alla preghiera, alle melodie, ai raggi di luce, all’incenso, il tempo e lo spazio per arrivare a un’abside e ritornare a un nartece, il tempo e lo spazio per toccare Dio e toccare l’uomo, il tempo e lo spazio per andare e tornare. Tutta la liturgia sta in questo va e vieni, in questo spazio aerato, questo respiro, questo interstizio dove s’intrufolano gli angeli» (p. 115).

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mercoledì 23 giugno 2010

Il "quadrato liturgico"

[Da un libro piccino e prezioso di cui auspichiamo presto l'edizione in lingua italiana, opera di dom François Cassingena-Trévedy O.S.B., monaco di Ligugé, edito nel 2007 a Ginevra dalle edizioni Ad Solem, offriamo un estratto]

Introduzione - Manipolo

Un livre est là sur l’autel… [1]

Così parlava Paul Claudel [1868-1955], dal suo «esilio» di Rio de Janeiro. Era il 1917 e tornava da una Messa bassa, e ripensava a tutte le Messe basse della sua vita, profondamente inscritte, e scriveva la sua. Persino «laggiù», la Messa era la Messa. La medesima, «da una sponda all’altra del mondo», come la Pace che faceva discendere. La Messa sentita come un essere a casa propria. Un libro è là sull’altare… Ritratto del libro, ritratto del messale. In illo tempore. «A quei tempi…». Ma chi di noi, posto solamente che sia in età matura, non conserva ancora il ricordo di questo libro? Chi di noi non discende da questo libro, più o meno, per le strade di una genealogia complessa e inconfessata, come sono in genere le vere genealogie? Chi di noi, anche senza averlo profondamente conosciuto, non l’ha comunque visto, non l’ha maneggiato, non l’ha sentito, non l’ha spolverato della sua polvere d’oro, non ha accarezzato i suoi segnalibri di stoffa e poi non l’ha riposto con scrupolo indefinibile? Il libro, così superato, ci resterà dunque nel cuore? D’altra parte il libro non è affatto estinto, dal momento che ci si appassiona stranamente per lui o, più esattamente, attorno a lui. Si sarebbe potuto credere che con il tempo la passione si sarebbe estinta, e invece vediamo che rimane vivace e fa ufficialmente rumore. Ma la pubblicità che si dà a una polemica ricorrente negli ultimi tre decenni e a delle rivendicazioni assolutamente attuali fa stato, tutto sommato, solo di epifenomeni, di sintomi esterni, e sembra che gli stessi «appassionati» si sottraggano senza sosta a un’analisi lucida e radicale della loro passione: del resto non è la regola, tante volte verificata, che gli attori – o piuttosto i manifestanti – della storia si dimostrano incapaci di controllarla, anche quando credono di agitarla per il proprio verso, malgrado sia questa a trascinarli nel proprio?
Forse è proprio qui che si situa il compito del liturgista, di cui sappiamo che, lungi dal costituirsi entomologo di forme separate, si sforza di fare, attraverso il confronto documentato con il passato e l’intuizione ragionevole dell’avvenire, una lettura corsiva delle evoluzioni e delle fratture. All’occorrenza, ci si aspetta da lui che, lungi dall’appassionarsi lui stesso, si ponga a distanza rispettosa (diamo a questo termine tutta la sua dimensione umana) e che tenti l’analisi, non solo della passione nella superficialità delle sue espressioni o delle sue interpretazioni pubbliche, ma dell’affetto (nel senso psicologico e quasi clinico) di cui questa è molto più profondamente rivelatrice. Detto in altro modo, nel cuore del dibattito contemporaneo sulla Messa tridentina, o piuttosto al suo scaturire (rispetto e lucidità sono d’obbligo), la parola del liturgista è altamente auspicabile: basata in primo luogo sulla certezza propriamente teologale di un’analogia tra fede e azione liturgica (leitourgia) che attraversa la storia del popolo di Dio in marcia verso il suo Signore, e in secondo luogo su quelle scienze umane per cui ormai ha un istinto, la sua parola avrà il compito di essere insieme, modestamente, quella di uno storico e di uno psicologo, l’uno e l’altro ritrovandosi nella stessa funzione interpretativa superiore. Come ha fatto sin da principio, tale parola onorerà anche la dimensione estetica, o più esattamente poetica, del suo oggetto: la Messa laggiù di Claudel non ci ha fornito di primo acchito un manipolo estremamente adatto ad appropriarci del libro e, con questo, ancor più dell’attaccamento che suscita?

Capitolo I - Aspetti di una personalità

È fuor di dubbio che il messale scaturito dal Concilio di Trento [1545-1563] sia caratterizzato da una forte individualità. A questo proposito è legittimo evocare anche una sorta di personalità. Questa non inerisce solamente al fatto che il messale in questione abbia una precisa data di nascita (1570) e che sia strettamente associato negli animi – e nei fatti – a un uomo anch’egli dotato di una forte personalità [2], san Pio V [1566-1572], per quanto alla sua gestazione sia stato necessario mezzo secolo (1514-1563) e una commissione abbia lavorato per cinque anni alla sua elaborazione. Più in profondità, si tratta di una personalità acquisita, conferita e confermata dalla longevità di un uso storico che, in modo già simbolicamente significativo, copre quattro interi secoli (1570-1969): il messale di san Pio V è un’esistenza a sé, un’esistenza identificabile e di cui ci si può dire genealogicamente solidali. Allo stesso modo una personalità linguistica, perché s’impone nella sua latinità formalmente intraducibile [3] e che, dal punto di visto della storia e della civilizzazione, rappresenta un atto propriamente imperiale della romanità. Senza dubbio l’ultimo: la sua caduta in desuetudine coincide, ancora una volta simbolicamente, con la scomparsa della latinità nella cultura occidentale, quando non ne sia stato uno degli agenti più efficaci. Personalità di costituzione, di temperamento e di progetto, che attiene ai due maggiori fattori (entrambi difensivi) che hanno presieduto alla sua genesi: di volta in volta, ad extra, l’imposizione di un baluardo rituale all’eresia che minacciava la fede tradizionale della Chiesa circa il sacramento-sacrificio dell’Eucaristia e, ad intra, la pulizia del rito, l’istituzione di uno strumento rituale sfoltito dalla vegetazione sfavillante e rigogliosa da cui era stato ingombrato al termine dell’epoca medievale, per lo meno una selezione nel florilegio delle «apologie» che avevano investito l’ordo missae in tre luoghi particolari: riti d’ingresso, offertorio e riti di comunione. Non va dimenticato, infatti, che la commissione istituita da Pio IV [1559-1565] ha fatto opera d’austerità quanto d’autorità; austerità che sembra, d’altronde, essere stato lo stimolo, il reattore paradossale della fioritura barocca della liturgia e delle sue forme [4].
Per la sua pretesa ostentata all’universalità, alla perennità, all’incorruttibilità, il messale tridentino svolge il ruolo di hapax, in ogni caso di novità, nella storia delle forme liturgiche. Esito di una pretesa romana che si era manifestata, nell’ambito liturgico e non solo disciplinare, sin dall’epoca della riforma gregoriana, in particolare nella penisola iberica. Preoccupazione per l’universale che, da un secolo appena, stimola la scoperta di un Nuovo Mondo (La messe là-bas…), a cui serve magnificamente un nuovo strumento, la stampa, di cui è assolutamente significativo che sia menzionato nella bolla del 1570 [5], e che rivela, nella stessa Chiesa, l’ingresso imminente in una nuova epoca del pensiero: quella del Metodo. Non bisogna infatti dimenticare che il messale del 1570 è un’opera della ragione e, allo stesso tempo, è uno degli atti più fondativi che posero, insieme ad altri, quest’epoca che la periodizzazione scolastica della storia denomina comunemente «Età moderna». Atto di «modernità» ancora fresca e forse inebriata dalla propria forza conquistatrice, questo messale ha ufficialmente l’ubiquità, questo messale-per-sempre che taluni oggi, quattro secoli più tardi e in un’eco che la dice lunga sull’inquietudine che li muove, chiamano volentieri il «messale di sempre». E, com’era normale a quell’epoca, l’atto di modernità «rinascente» suppose, per essere posto, un riferimento più o meno cosciente a un modello antico – e romano – di una monumentalità che trascende la storia: il messale tridentino si voleva anch’esso monumentum ære perennius [6]? Messale «monumentale», cioè che fa opera di memoria del passato come dell’avvenire (procede all’interinazione di un’evoluzione e ci si ricorderà di lui), messale del quale si è dato per scontato che arrestasse la storia e il cui rinvio ancora recente negli archivi dei monumenti liturgici ha suscitato una paura panica, quella che prende in genere l’uomo davanti all’irresistibile dominio di una storia che lo sovrasta sempre, qualunque cosa egli intraprenda per trarla in inganno. Messale «capitale» per il suo luogo geografico e simbolico di origine, per la sua topografia, e anche per la sua tipografia, come vedremo. Non è proprio di ogni capitale richiamare alla residenza e, perciò, suscitare un legame la cui messa in causa o la cui rottura non avvengono senza malessere?

Capitolo 2 - Le quattro cause

Poiché, considerando a fondo il messale tridentino nella sua collocazione storica, non vi è «oggetto» rituale (diamo qui al termine oggetto sia il significato concreto sia quello intellettuale) che non verifichi in sé, fuori da ogni dubbio, la legge che chiameremo – al fine pedagogico di schematizzare – il «quadrato liturgico». Mi spiego. Essendo dotati di una personalità sufficientemente portante, di un’individualità sufficientemente significativa (cioè capace di fare segno), tutti gli oggetti rituali – come può esserlo una «liturgia», nel senso tipico del termine – funzionano sia come principio attivo sia come risultante di un vasto sistema d’interferenze tra quattro poli maggiori che sono così declinati: polo teologico, polo devozionale, polo sociale, polo estetico. Per polo teologico s’intende il punto in cui le teologie sono concomitanti con il rito; per polo devozionale, l’insieme delle manifestazioni affettive e mistiche che questo suscita e che si concentrano su di esso; per polo sociale, gli stili di socializzazione, i comportamenti individuali o collettivi che esso instaura; per polo estetico, il vasto repertorio di forme artistiche di cui è di volta in volta e il mecenate e il beneficiario. Il rito si trova, per così dire, al centro di tale quadrilatero dinamico, interattivo, ove si operano degli scambi sottili: è attorno a questo, a partire da questo, a suo proposito, che prende forma tutto un universo culturale e religioso. È evidente che un tale «quadrato» non può essere prodotto e funzionare al di fuori di un mondo, di una «cristianità» coerente e produttiva, ove teologia, spiritualità e ritualità abbiano un’incidenza, una ripercussione reale e percepibile sui comportamenti socio-politici e le espressioni artistiche. Bisogna che tutto ciò faccia evidentemente, ufficialmente, pubblicamente sistema, perché si sia autorizzati a parlare di quadrato liturgico e, conseguentemente, all’incrocio delle sue diagonali, di un oggetto rituale caratterizzato.
Ora, è precisamente ciò che si è prodotto, e in modo assolutamente esemplare, attorno al messale tridentino. Entriamo in qualche dettaglio. Strumento rituale pienamente in accordo con le grandi riaffermazioni del Concilio di Trento in tema di eucaristia (sessioni XIII, XXI, XXII), il messale di san Pio V sostiene i molti approcci, le molte teorie, i molti tentativi teologici destinati a chiarire la natura sacrificale della Messa e la sua articolazione sul sacrificio della croce, da Caetano [Tommaso De Vio (1469-1534)] e Suarez [Francisco (1548-1617)] fino a padre de la Taille [Maurice (1872-1933)], passando per Franzelin [Johannes Baptiste (1816-1886)], Scheeben [Matthias Joseph (1835-1888)], dom Vonier [Anscar (1875-1938)] e dom Casel [Odo (1886-1948)]: ne è, per così dire, il vivaio e il laboratorio pratico. In modo molto particolare e sensibile questi è l’efflorescenza compiuta e duratura di un’ecclesiologia di tipo gerarchico, ecclesiologia la cui messa in opera concreta – è importante sottolinearlo – è la perfetta messa in scena, l’epifania e lo specchio […]

[François Cassingena-Trévedy, Moine de Ligugé, Te igitur. Le missel de saint Pie V. Herméneutique et déontologie d’un attachement, Ad Solem, Ginevra 2007, pp. 21-33, trad. it. di sr. Bertilla Obl.S.B.]

[1] Paul Claudel, La Messe là-bas (Lectures), Œuvres poétiques, Gallimard, Parigi 1950, p. 491.
[2] Nel pubblicare il messale del 1570, tuttavia, san Pio V non si segnala principalmente come liturgista (cosa che non ha mai preteso di essere): egli pone prevalentemente un atto «politico», nel senso che fa un’opera di unità cattolica (cfr. Nicole Lemaître, Saint Pie V, Fayard, Parigi 1994, p. 197). L’autorità del messale dev’essere posta in relazione con altri atti simbolici del suo pontificato, con i quali costituisce un sistema unico nella memoria storica ed ecclesiale.
[3] Ciò era stipulato, contrariamene alle rivendicazioni dei Riformati, nel capitolo 8 della XXII sessione di Trento: «Benché la Messa contenga un ricco insegnamento per il popolo fedele, non è tuttavia sembrato bene ai Padri che venga indistintamente celebrata in lingua volgare».
[4] Citiamo, a proposito dell’architettura, questa frase di [Bernhard] Hans [Henry] Scharoun [1893-1972]: «Assimilazione di barocco e Controriforma? Di fatto, la Chiesa tridentina avrebbe potuto – e non l’ha fatto – produrre il contrario del barocco». (Baroque. Italie et Europe centrale, Office du Livre, Friburgo 1964, prefazione, p. 14). Nella sua raffinata investigazione del linguaggio musicale e religioso, nel corso del XVII secolo in Francia, Monique Brulin osserva: «In quest’epoca si tratta di “rappresentare” l’emozione, di recitarla in senso teatrale cioè, in un certo senso, di mediatizzarla. Non viene abbandonata direttamente all’emozione e, proprio per questo, rinasce più forte» (Le Verbe et la Voix. La manifestation vocale dans le culte en France au XVII siècle, Beauchesne, Parigi 1998).
[5] Quod recognitum iam et castigatum, matura exhibita considerazione, ut ex hoc instituto, cœoque labore, fructus omnes recipiant, Romæ quam primum imprimi, atque impressum edi mandavimus.
[6] Cfr. Joseph-André Jungmann, Missarum solemnia, Aubier, Parigi 1951, t. I, p. 182: «Dopo un secolo e mezzo di sviluppo ininterrotto della Messa romana, dopo il flusso e riflusso di diverse correnti, il messale di Pio V innalza un potente sbarramento, dopo il quale le acque accumulate seguono la loro strada solo attraverso canali solidamente costruiti e in direzioni precise».

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