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lunedì 24 dicembre 2012

L'uomo interiore è un esploratore

Per mostrare la vanità delle chiacchiere e il valore dell'esperienza Cassiano presenta alcuni esempi: chi non sa nuotare può chiedersi come il suo corpo possa rimanere a galla. Le lezioni di un maestro di nuoto gli possono servire, ma più ancora il tuffarsi. Uno può dire che il miele è dolce a chi non l'ha mai assaggiato. Le parole che raggiungono l'orecchio non possono però fargli sentire il gusto. Deve assaggiarlo lui. Dopo può conoscere la soavità del miele.
Succede la stessa cosa per il cammino interiore e per le metamorfosi che l'accompagnano. Non esiste conoscenza senza esperienza. La scienza spirituale poggia sull'esperienza. Non può essere comunicata dall'esterno; si può solo invitare a mettersi in cammino. Un'agenzia di viaggi può tentare di descrivere la bellezza delle cascate del Niagara o delle cime dell'Himalaia, ma il viaggiatore dovrà fare il viaggio per scoprirle. Per di più l'uomo interiore non è un turista, ma un esploratore. Per lui niente sostituisce l'esperienza, anche perché con questa egli raggiunge una dimensione nuova che deve incontrare personalmente. L'uomo spirituale non si trova soltanto davanti ai due infiniti di cui ha parlato Pascal: la sua lucidità gli permette di sapere che, nella dimensione spirituale, esistono gradi illimitati.
 
[Marie-Madeleine Davy, L'uomo interiore e le sue metamorfosi, trad. it., Editrice Ancora, Milano 1995, pp. 130-131]
 
 
 
 
 
 

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venerdì 2 novembre 2012

Trattando dell’amicitia / Deus in adiutorium meum intende

Trattando dell’amicitia, sempre minacciata dalla discordia, Cassiano pone come sesto ed ultimo fondamento della “vera amicizia”: “credere ogni giorno che si sta per lasciare questo mondo, perché senza dubbio questo ucciderà in generale ogni specie di vizio” (Conl. 16,6,2-3).
Tale ferma dottrina di Cassiano si annuncia già nel mirabile sermone di vestizione dell’abate Pinufio, pezzo che serve da conclusione ai quattro primi libri delle Istituzioni e di introduzione agli otto seguenti. All’inizio del discorso, Pinufio espone al postulante che la vita che sta per abbracciare è nient’altro che una “crocifissione con Cristo”, secondo la parola di san Paolo. Essere crocifissi significa due cose. In primo luogo l’impossibilità di muoversi spiritualmente intesa come rinuncia ad ogni piacere e ad ogni peccato. Poi l’attesa di una morte imminente:
“Il crocifisso non considera le cose presenti, non pensa alle proprie affezioni, non si cura dell’indomani, non ha alcun desiderio di possedere, non prova né orgoglio, né desiderio di contestare, né gelosia; non si rattrista per le ingiurie presenti e non si ricorda di quelle passate, ma si considera già morto, con il pensiero teso in avanti, verso l’aldilà. Così dobbiamo essere crocifissi ad ogni cosa mediante il timore del Signore, cioè morti non solo ai vizi carnali, ma anche agli elementi stessi, fissando gli occhi dell’anima là dove dobbiamo attenderci di emigrare in ogni istante. Così potremo conservare mortificate tutte le nostre concupiscenze ed affezioni carnali” (Inst. 4,35).
Anche qui Cassiano attribuisce al pensiero della morte una universale virtù purificante. In parecchi passi delle Istituzioni, il suo benefico ruolo è descritto in termini di indifferenza alla prosperità ed all’avversità (Inst. 5,41 e 9,13). Questa nota è particolarmente interessante, perché lega il pensiero della morte al grande tema che si sviluppa attraverso tutta la prima parte delle Conlationes, nelle Conferenze “pari” (Conl. 2.4.6.10): quello delle situazioni contrarie, generatrici delle tentazioni opposte, tra le quali il discernimento – quest’altro mezzo universale – fa seguire all’anima la “via regale” e rettilinea, che evita le aberrazioni di destra e di sinistra. Sul piano della preghiera, la formula “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi” [Sal 69,2] appare come l’arma efficace contro queste tentazioni che nascono dalla prosperità quanto dall’avversità (Conl. 10,10,4-13). Con la sua portata generale e la sua immancabile efficacia, il pensiero della morte imminente ha dunque un posto presso quei rimedi sovrani che sono il Deus in adiutorium e la discretio.
 
[Dom Adalbert de Vogüé O.S.B. (1924-2011), “Avere ogni giorno davanti agli occhi la morte come un avvenimento imminente”, in Idem, La comunità. Ordinamento e spiritualità, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia 1991, pp. 359-374 (pp. 365-367)]

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martedì 8 marzo 2011

Per la Quaresima: il digiuno

Riguardo alla misura dei digiuni, non è facile stabilire una regola uniforme, che tutti possano osservare, perché non tutti hanno la stessa resistenza fisica, né si può praticare il digiuno, come le altre virtù, con la sola inflessibilità dell'animo. E proprio perché il digiuno non dipende solo dalla forza interiore, ma anche dalle capacità del corpo, abbiamo ricevuto su questo punto dalla tradizione la seguente regola: i tempi, la quantità e la qualità dell'alimentazione devono variare in rapporto alla diversità di condizione fisica, di età e di sesso, ma per quanto riguarda la virtù interiore della continenza l'obbligo di mortificarsi è uguale per tutti. Non tutti, infatti, possono prolungare i digiuni per intere settimane, né rinviare il pasto restando tre giorni, o due, senza mangiare. Molti, anzi, indeboliti dalla malattia o dalla vecchiaia, non riescono a sostenere il digiuno neppure fino al tramonto del sole, se non con grande pena e fatica.

Non bisogna valutare la perfezione della continenza soltanto in base ai tempi e alla qualità dell'alimentazione, ma prima di tutto in base al giudizio della propria coscienza. Ciascuno, infatti, deve imporsi una regola di frugalità proporzionata alle esigenze della lotta che deve combattere contro il proprio corpo. È senz'altro utile e assolutamente necessario osservare i digiuni fissati dalla regola, ma se il pasto che li segue non è frugale, non si potrà raggiungere lo scopo per cui li si pratica, cioè l'integrità. Infatti, i lunghi digiuni seguiti da pasti abbondanti affaticano il corpo per un certo tempo, ma non gli permettono di acquisire la purezza della castità. L'integrità della mente è strettamente connessa al digiuno del ventre, e chi non sarà disposto a custodire ininterrottamente una regola uniforme di astinenza, non riuscirà a mantenere per sempre la purezza della castità. Anche i digiuni più austeri, se sono seguiti da un rilassamento eccessivo, diventano inutili e ci fanno subito cadere nel vizio dell'ingordigia. È preferibile un'alimentazione ragionevole e moderata ogni giorno, anziché un lungo e austero digiuno una volta ogni tanto. Un'astensione dal cibo praticata senza misura non solo può compromettere l'equilibrio della mente, ma, con l'affaticamento del corpo, finisce per infiacchire e privare della sua forza anche la preghiera.

[Giovanni Cassiano, Le istituzioni cenobitiche, V,1-2 e V,9]

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martedì 14 settembre 2010

Deus in adiutorium meum intende. Domine, ad adiuvandum me festina

[…] Al modo stesso è necessario comunicare a voi il modulo della dottrina spirituale, al quale, dirigendo in continuità e assai tenacemente il vostro sguardo, impariate a coltivarla salutarmente con ininterrotta prosecuzione, e così possiate, con quel ricorso e con la sua moderazione, risalire a visioni ancora più elevate. Per voi dunque sarà proposta come formula di questa disciplina e di questa preghiera, da voi richiesta, quella che ogni monaco, allo scopo di tendere al continuo ricordo di Dio, deve abituarsi a coltivare con una continua ripresa da parte del cuore e dopo avere espulsa la varietà di tutti gli altri pensieri, poiché egli non potrà applicarvisi in altro modo, se prima non si sarà liberato da tutte le preoccupazioni e sollecitudini corporali. Tale esperienza, come a noi è stata trasmessa da quei pochi che, tra gli antichissimi padri sono sopravvissuti, così pure da noi essa non viene proposta, se non a pochissimi, realmente sitibondi di accoglierla. Pertanto sarà da noi suggerita a voi, conseguentemente, questa formula di vera pietà, allo scopo di raggiungere un continuo ricordo di Dio: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi” [Sal 69,2]. Di fatto, questo breve versetto, non senza motivo, è stato particolarmente ripreso da tutto il complesso della Scrittura. Esso riflette tutti i sentimenti, di cui può essere capace la natura umana, e si adatta con sufficiente proprietà e convenienza ad ogni stato e a tutte le tentazioni. E in realtà questo versetto contiene l’invocazione a Dio di fronte a tutte le difficoltà, contiene l’umiltà d’una pia confessione, contiene la vigilanza in vista di ogni sollecitudine e timore, la fiducia d’essere esauditi, la confidenza d’un aiuto sempre presente e disponibile. E di fatto, chi sempre invoca il proprio protettore, è sicuro che quello è sempre presente. Questo versetto contiene l’ardore dell’amore e della carità, ha la visione delle insidie e la paura dei nemici, dai quali l’anima, osservando se stessa, ammette giorno e notte di non poter essere liberata senza l’aiuto del proprio protettore. Questo versetto è un muro inespugnabile, una corazza impenetrabile e uno scudo ben sicuro per tutti coloro che sostengono gli attacchi dei demoni. Esso non ammette che disperino dei rimedi per la loro salvezza coloro che vengono a trovarsi in preda all’accidia, all’ansietà dell’animo e alla tristezza, o comunque depressi, poiché dichiara colui che viene invocato osserva costantemente le nostre lotte e non è lontano da chi lo invoca. Questo versetto ci ammonisce a non doverci insuperbire troppo per i successi del nostro spirito e per la letizia del nostro cuore, e a non gonfiarci nei momenti della prosperità, visto che non è possibile, com’esso attesta, perseverare in quello stato senza la protezione di Dio, dato che esso non è soltanto un’espressione di continua preghiera, ma anche una supplica per essere aiutati al più presto. Questo versetto, ripeto, risulta necessario e utile per chiunque di noi venga a trovarsi in qualsiasi occorrenza.

[Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci, [Libro I, Conf. X,10], traduzione e note a cura di Lorenzo Dattrino, 2 voll., Città Nuova, Roma 2000, vol. 1, pp. 404-405]

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lunedì 9 agosto 2010

Alle fonti del monachesimo - II

[In una pagina precedente abbiamo proposto la cosiddetta "versione alessandrina" del racconto delle origini apostoliche del monachesimo a opera di Giovanni Cassiano (360 ca.-435), tratta da Le istituzioni cenobitiche. In questa seconda occasione riproduciamo invece la "versione gerosolimitana", tratta dalle Conferenze ai monaci]

La vita cenobitica ebbe dunque il suo inizio al tempo della predicazione apostolica. Infatti tale risultò quell’intero gran numero dei credenti in Gerusalemme, così descritto negli Atti degli Apostoli: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola, e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune” [At 4,32]. “Vendevano proprietà e sostanze, e ne facevano parte, secondo il bisogno di ciascuno” [At 2,45]. E ancora: “Nessuno tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi e case, li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto ai piedi degli apostoli; e veniva distribuito poi a ciascuno secondo il bisogno” [At 4,34-35]. Tale, dirò ancora, era allora tutta la Chiesa, quale, al tempo nostro, è difficile riscontrare, se non in numero molto ridotto proprio nei cenobi. Infatti dopo la morte degli Apostoli, la moltitudine dei credenti cominciò a intiepidirsi, quelli specialmente che erano confluiti alla fede di Cristo dal di fuori, dalle parti cioè dei gentili, ed erano coloro, dai quali gli Apostoli, in vista degli stessi rudimenti della fede e data l’inveterata tradizione della stessa loro vita pagana, nulla più richiedevano al di fuori delle norme seguenti: “Astenersi dalle carni offerte agli idoli, dalla fornicazione, dal sangue e dagli animali soffocati” [At 15,29]; una tale libertà, concessa ai gentili per la debolezza della loro fede appena iniziata, cominciò a contaminare un po’ per volta anche la Chiesa che s’era formata a Gerusalemme, e così, raffreddatosi il fervore della fede primitiva per il crescente numero di quanti ogni giorno vi affluivano, giudei o estranei che fossero, finirono per rilassarsi da quella austerità non solo quanti avevano aderito alla fede di Cristo, ma anche coloro che erano stati preposti alla guida della Chiesa.
Alcuni infatti, ritenendo lecito anche per loro quello che vedevano concesso ai gentili in vista della loro debolezza, credettero di non incorrere in nessun male, se avessero conservato il possesso dei loro beni, continuando a professare la fede di Cristo. Invece coloro che conservavano ancora il vero fervore, memori com’erano di quella primitiva perfezione, separatisi dalle loro città e dal consorzio di quanti ritenevano lecito per loro e per la Chiesa di Dio la negligenza d’una vita rilassata, presero a dimorare in luoghi periferici alle città e in siti separati, e a osservare privatamente e personalmente quelle norme che essi ricordavano dettate dagli Apostoli in forma generale per tutto il corpo della Chiesa; venne così a crearsi quella disciplina, di cui sto parlando, tutta propria dei discepoli che si erano sottratti al contagio in precedenza richiamato. Essi, separatisi col progresso del tempo dalle folle dei credenti per il fatto che si astenevano dalle nozze e venivano separati dalla comunione dei parenti e del mondo, vennero denominati monaci, ossia monázontes, per l’austerità della loro vita così singolare e solitaria. Ne derivò ovviamente che dalla comunione di vita da loro condotta, essi furono chiamati cenobiti, e le loro celle e i loro alloggi furono detti cenobi.
Fu dunque unicamente questa la specie più antica dei monaci, la prima non soltanto in ordine di tempo, ma anche della grazia; fu quella che perdurò inviolabile per moltissimi anni fino all’età di Paolo e di Antonio. Di essa noi vediamo perdurare i resti ancora al tempo nostro nei monasteri più osservati dei cenobiti.

[Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci, [Libro III, Conf. XVIII,5], traduzione e note a cura di Lorenzo Dattrino, 2 voll., Città Nuova, Roma 2000, vol. 2, pp. 234-236]

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lunedì 2 agosto 2010

Alle fonti del monachesimo

[Originario di una regione dell’Impero romano (la Scizia, oggi Romania) dove si parlava sia il latino che il greco, Giovanni Cassiano (360 ca.-435), dopo un lungo soggiorno nei monasteri della Palestina e dell’Egitto, scrisse per i monaci d’Occidente, nei primi decenni del secolo IV, Le istituzioni cenobitiche (De institutis coenobiorum) e le Conferenze dei Padri (Collationes), pensate come progetto organico capace di trasmettere e di tradurre in un linguaggio accessibile l’esperienza e l’insegnamento dei “Padri” conosciuti in Oriente. Nell’assoluta fedeltà al Vangelo propose così un sapiente equilibrio tra vita comunitaria e vita solitaria, mettendo l’ascesi a servizio della carità. La sua opera, ponte e anello di collegamento fondamentale tra Oriente e Occidente, ha permesso a innumerevoli generazioni di monaci - san Benedetto ne raccomanda nella Regola le opere come autorevoli trattati per la formazione dei monaci - di attingere alle fonti più antiche e autentiche del monachesimo e rimane una delle pietre miliari della letteratura cristiana della Chiesa indivisa. Nel brano seguente Cassiano offre quella che è stata definita la "versione alessandrina" del racconto delle origini apostoliche del monachesimo; a essa egli affianca (in Conf. XVIII,5) una "versione gerosolimitana"]


Agli inizi della nostra fede, infatti, coloro che portavano il nome di monaci erano sì pochi, ma di specchiata virtù. Essi avevano ricevuto questa regola di vita dall'evangelista Marco, di beata memoria, che fu il primo vescovo della città di Alessandria, e non si limitavano a custodire i nobili costumi praticati dalla moltitudine dei credenti nella Chiesa primitiva, come leggiamo negli Atti degli Apostoli - La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che possedeva, ma ogni cosa era fra loro comune. Quanti infatti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli Apostoli: poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno (At 4,32.34-35) -, ma a tutto ciò essi avevano aggiunto pratiche molto più sublimi.
Ritirandosi infatti in luoghi solitari alla periferia delle città, conducevano una vita di astinenza di un rigore tale, che perfino coloro che erano estranei alla religione si stupivano di questa loro pratica di vita così austera. Tale infatti era il fervore con cui si dedicavano notte e giorno alla lettura delle divine Scritture, alla preghiera e al lavoro manuale, che non sentivano neanche il bisogno né si ricordavano di mangiare, se non dopo due o tre giorni, quando era l'esigenza stessa del corpo a sollecitarli. Mangiavano e bevevano non tanto ciò che desideravano, ma il necessario, e mai prima del tramonto del sole, in modo tale da associare le ore di luce alle meditazioni spirituali e la cura del corpo alla notte; e compivano altre pratiche molto più sublimi di queste.
Tutte queste cose, anche chi non le conosce già dal racconto degli scrittori locali, potrà apprenderle dalla Storia ecclesiastica. A quel tempo, dunque, quando la perfezione della Chiesa primitiva perdurava ancora intatta presso i suoi successori, essendone il ricordo ancora recente, e quando la fede fervente dei pochi non si era ancora intiepidita diffondendosi tra la moltitudine, i Padri venerabili, preoccupandosi con vigile apprensione del bene dei loro posteri [...]

[Giovanni Cassiano, Le istituzioni cenobitiche. De institutis coenobiorum et de octo principalium vitiorum remediis libri XII, (II,5), traduzione dal latino a cura di Luigi d'Ayala Valva, Introduzione di Adalbert De Vogüé, Edizioni Qiqajon, Magnano (Biella) 2007, pp. 52-54]

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