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venerdì 11 gennaio 2013

Missa Romana

[L'11 gennaio 1977, trentasei anni fa, moriva a Roma la poetessa, scrittrice e traduttrice Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini (1923-1977), di cui abbiamo pubblicato alcuni testi su Romualdica (cfr. qui, qui e qui). La ricordiamo, oltre che nella preghiera, riproducendo una sua poesia, Missa Romana.]


I
 
Più inerme del giglio
nel luminoso
sudario
sale il Calvario
teologale
penetra nel roveto
crepitante dei millenni
si occulta
nell’odorosa nube della lingua.
 
Curvato da terribili
venti
bacia sacre piaghe in silenzio
eleva e mostra
pure palme trapassate
mendica pace
tra pollice e indice tende
un filo sull’abisso del Verbo.
 
Dagli ossami dei martiri
tritume di gaudio
cresce
la radice di Jesse
sboccia nel calice rovente
e nella bianca luna
crociata di sangue e
stendardo
che sorgendo gli fiacca
i ginocchi.
 
Sulla pietra angolare
ci spezza la morte
la eleva all’orizzonte delle lacrime
la posa
con materno terrore
su stimmate di labbra
a medicare
la vita.
 
Intorno al pasto
mortale
tra i lembi del Dio
sibilano serpenti addentano il corporale
ai quattro angoli del conopeo
si arrotolano i fogli
dei cieli
crepe saettano nei pilastri.
 
Ossessi
alla porta
nel profumo di peste
mimano e vendono con lazzi
agli infermi e deformi
della probatica
vasca
la sua soave maschera di suppliziato.
 
II
 
Falconiere del Cielo
sulla cui mano alzata
piomba l’eterno Predatore
avido di prigione...
 
III
 
Dove va
questo Agnello
che ai vergini è dato
seguire ovunque vada dove va
questo Agnello
stante diritto e ucciso
sul libro dei segnati
ab origine
mundi?
 
Non si può nascere ma
si può restare
innocenti.
 
Dove va
questo Agnello
che a noi gli ucciditori non è dato
seguire coi segnati
né fuggire
ma singhiozzando soavemente concepire
nel buio grembo della mente
usque ad consummationem
mundi?
 
Non si può nascere ma
si può morire
innocenti.

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mercoledì 8 dicembre 2010

«E siete felici?» - «Troppo!»

Roma è una città che ignora tutto di se stessa. Immemorialmente indifferente, radicato in quartieri, insulare, il romano rifiuta di conoscere il nome della strada accanto alla propria. Se non la scorgesse di lontano, ignorerebbe che la sua città possiede una piramide. Vivrà e morrà senza aver avuto notizia di una Porta Magica, di un museo delle Anime Purganti, di una Trappa. Dei «Padri Trappisti delle Tre Fontane» egli apprezza da generazioni un serico cioccolato, un miele fragrante, un elisir di eucalipto eccellente per il mal di petto. Per i meno totalmente puri di conoscenze, il Trappista è figurato dal bianco cappuccio conico, abbastanza cinematografico, quindi moderatamente noto, che segna le copertine dei libri di Thomas Merton. Ma a pochissimi accadrà di associare quel cappuccio con l’alto bosco di eucalipti, palpitante di tortore e di pavoncelle, a forse cinque chilometri dal centro della città: dove uomini sigillati in un perpetuo silenzio distillano l’elisir salutifero su un terreno gremito di presenze arcane e inzuppato dal sangue prezioso dei martiri. Là fu troncato il capo dell’apostolo Paolo, e dai tre punti dov’esso rimbalzò rotolando zampillarono appunto le Tre Fontane. Là si lasciò trucidare la «Massa candida»: i diecimila legionari cristiani di san Zenone. Là, sopra quei santi ossami, nel minuscolo ipogeo dedicato un tempo alla dea Dia, san Bernardo da Chiaravalle celebrò messe miracolose. Là apparve, in anni recenti, la Vergine Maria, alla quale i Trappisti dedicano da sempre un culto particolare.
Com’è noto (secondo usa dire delle cose generalmente ignote), la Trappa, ossia l’ordine cistercense della Stretta Osservanza, è un pollone tardivo dell’ordine di san Benedetto riformato agli inizi del [secondo] millennio da san Roberto e poi da san Bernardo. Molto più tardi l’abate di Rancé, fondatore dell’obbedienza cistercense-trappista, lo ridusse qual è attualmente, l’ordine più rigoroso ad eccezione forse del certosino. Chateaubriand, autore di una Vie de Rancé, trascrisse nel Génie du Christianisme il breve, fulgido epistolario di un giovane ufficiale francese scampato alla Rivoluzione che, dopo lunghi vagabondaggi, trovò in una Trappa di Spagna la sua domus aeternitatis: dove al canto dell’uffizio divino, diurno e notturno, si alternava il lavoro dei campi; dove ci si cibava di vegetali, si dormiva e moriva sulla paglia e la cenere, si taceva dal giorno della presa d’abito a quello della sepoltura. Una normale Trappa, infine, dov’era necessario tra l’altro moderare le austerità individuali perché i cenobiti non se ne inebriassero oltre misura. «Bisogna esserne testimoni per farsi una idea della contentezza, della giubilazione di tutti: nulla prova la felicità di questa vita meglio di ciò che hanno fatto i Trappisti per riunirsi di nuovo dopo la loro espulsione dalla Francia e la quantità di monasteri che si sono formati, fino nel Canadà». Huysmans coglie le stesse esclamazioni sulle labbra, per un momento dissigillate, del mirabile abate trappista nel suo romanzo En route (che la BUR ha tradotto col titolo Per strada). Visitata l’abbazia, considerate le leggi di quella piccola Sparta cristiana, Huysmans chiede con un fremito: «E siete felici?». «Troppo!» mormora sorridendo l’abate. E prosegue con le stesse parole che il grande poeta catalano Verdaguer chiuse in versi perfetti: «Signore, m’hai ingannato! / Mi promettevi catene / e mi davi la libertà; / parlavi solo di pene / e mi donavi le strenne / della tua felicità. / Signore, mi hai ingannato!».
Cosa non troppo incredibile, in un mondo assai peggio ridotto della Francia del ’93, le cose stanno circa allo stesso modo nel sussurrante bosco di eucalipti all’orlo di Roma. Se si penetri verso il crepuscolo, all’ora della grande Salve Regina cistercense, nella possente, nuda chiesa romanica, si penserà di assistere a una cerimonia di anime già liberate dal corpo. Alte ombre ammantate di bianco fluiscono dentro a qualche istante l’una dall’altra, riveriscono more benedictino l’altar maggiore, scompaiono dentro stalli di legno celati alla vista. Solo l’attimo dell’inchino è percepibile al di là della fitta griglia di ferro, che non si apre che la domenica, per brevi istanti, alla Comunione dei fedeli.
Vi sono momenti, quello della meditazione per esempio, al termine di un uffizio, nei quali è impossibile dire se i monaci siano ancora presenti nei loro stalli o già dileguati nei penetrali della clausura. Il silenzio è tale che si odono ardere i ceri dinanzi al solo altare minore. (Esso è dedicato ad un Sacro Cuore che altrove sarebbe un povero Sacro Cuore, ma alla Trappa, nella terribile potenza e nudità del luogo, figura un eccesso di dovizia, l’umiltà negligente del signore che non cura di buttar sulla spalla una giubba di fustagno). Una fibbia di antifonario che scatta, un sandalo che si approssima, la gran chiave che gira nella griglia sepolcrale, una figura ammantata che ne scivola fuori e lentamente, con un’altissima e sottilissima canna, posa un fiore di fuoco sotto ciascuna delle dodici croci alle pareti della chiesa: tutto alla Trappa fa trasalire, tutto è presagito, «atteso con misterioso timore». E là dentro, finalmente, nessuno trema più di compiere i gesti che il suo corpo ha fame di compiere. Un giovane sacerdote secolare, prostrato sulla pietra, incrocia le braccia sul petto. Una monaca le distende innanzi alla grata e resta così per ore, estatica, crocifissa, senza che alcuno la noti.
Vi è una tipologia degli ordini religiosi: bruno slanciato esangue il gesuita, vasto ed elastico il domenicano, sottile il benedettino dal chiaro sguardo intellettuale. Il Trappista, dal capo raso, non di rado barbuto, appare un uomo tagliato con l’ascia, arcaico. Ciò non significa che non sia aitante e spesso di gran razza come il decano spagnolo dal volto lunare e perfetto, al quale la morte non potrà nulla aggiungere, che nei giorni tiepidi sosta nel portico della chiesa a ricevere sulle mani un raggio di sole e il bacio reverente di povere donne e bambini. O l’ostiario francese con gli stivali sotto la tonaca e una barba cristiana intorno ai fini lineamenti del principe Myškin. O il converso camuso, in mantello bruno, che un caravaggesco avrebbe innalzato sulla croce del Buon Ladrone.
Non sappiamo se costoro dormano ancora su paglia e cenere, se sia ancora vietato loro di appoggiare la schiena al muro per riposarsi. Il resto della regola appare immutato. Tra le cocolle bianche non corre sillaba. Riverenze, pochi cenni di muti. Solo al superiore, previa licenza, si può rivolgere la parola, e dopo Compieta, all’ora del gran silenzio, neppure a lui. Nelle cronache della Trappa, tra i confratelli proposti per la beatificazione, vi sono i trenta martiri spagnoli gettati in mare vivi presso Santander, durante la guerra civile, le labbra cucite da fil di ferro. Terrificante sigillo di un voto. Ma quel filo di ferro il Trappista se lo cuce da solo alle labbra, giorno per giorno, al termine di ogni uffizio. Domine, labia mea aperies, egli può ben intonare all’apertura del Mattutino, segnandosi piamente la bocca: solo per lo spazio della lode – la divina lode gregoriana – gli è concessa di usare la sua voce. Curiose voci dei Trappisti, spesso fioche per lungo silenzio: penitenziale mischianza di nasalità ieratica e cavernosa decrepitudine con il fiore della vergine giovinezza. (Per i devoti di statistiche, i Trappisti sono giovani per lo più, e sempre più numerosi e affollati sorgono dappertutto i loro monasteri, così maschili come femminili; ve n’è uno a Vitorchiano che conta novanta religiose, quasi tutte assai giovani e di eccellente educazione).
Tutto ciò apparirà privo di senso a chi non abbia meditato, o respinga senza esame, la maestosa vita della contemplazione. Vi è, ad esempio, un articolo del Credo che i cattolici, pur costretti a recitarlo ogni domenica nella più triste delle traduzioni, sembrano avere dimenticato: «Credo nella Comunione dei Santi». Pare che ai più la confessione di questo dogma suggerisca figurazioni vaghe di serafici cori. Laddove essa riguarda precisamente chi la pronunzia e chi gli sta accanto: come due vasi comunicanti, Dio mediatore, in grazia di una energia spirituale pressoché senza limiti: la preghiera. «La nostra libertà» scrisse Bloy durante una visita alla Grande Certosa «è solidale con l’equilibrio del mondo, ed è questo che bisogna comprendere se non si vuole stupirsi del profondo mistero della Reversibilità, che è il nome filosofico del gran dogma della Comunione dei Santi. Ogni uomo che produce un atto libero proietta la sua personalità nell’infinito. S’egli dà a malincuore un soldo a un povero, quel soldo trapassa la mano del povero, cade, fora la terra, buca i soli, traversa i firmamenti e compromette l’universo… Un moto di vera pietà canta per lui le lodi divine… guarisce gli infermi, consola i disperati, placa le tempeste, riscatta i cattivi, converte gli infedeli e protegge il genere umano».
Donde l’antichissima dottrina cristiana della sostituzione delle pene e delle colpe, così come delle grazie; la moltitudine di santi, canonizzati o no, che si offersero e si offrono in un immenso Suscipe, quali «ostie pure, ostie sante, ostie immacolate» in luogo di vivi e di morti: assumendosi infermità, tentazioni, orrori d’ogni genere in luogo d’altri e più deboli, dilapidando favori celesti, energie sovrumane a beneficio d’altri e più poveri. Questo «admirabile commercium» che fece dire a Huysmans: «Senza la sua cintura di conventi immersi nel silenzio e nell’incessante orazione, Parigi sarebbe già perita in un bagno di sangue» (e gli rispose l’abate: «Se la cintura fosse stata più salda, Parigi non avrebbe corso il rischio di perire»), questo scambio di moneta invisibile tra gli spiriti dei viventi, e tra quelli dei viventi e quelli dei morti, è la ricchezza vertiginosa che Dio ha concesso all’uomo su questa terra. Ed è la sola che dipenda da lui accogliere o rifiutare. Da san Bernardo da Chiaravalle, da papa Eugenio III, abate delle Tre Fontane, attraverso i pontificati di otto secoli fino a san Pio X, le strane creature che credono al potere sulla terra dell’uomo perduto nel cielo, hanno imposto le loro paradossali persuasioni fino a un Giovanni XXIII.
Disse quel pontefice ai Trappisti delle Tre Fontane che non riteneva di poter dare inizio alla gran battaglia di un Concilio Ecumenico senza averne affidato le sorti alla preghiera delle mute, inesorabili guarnigioni che, lasciando operare Marta, s’erano appropriate da sempre, con Maria, l’«unum necessarium», e sole ormai potevano dispensarlo.
Usciranno indenni i solitari di san Bernardo dalla febbre umanistica e umanitaria che sconvolge gli spiriti, come un tempo la malaria sconvolgeva la valle degli eucalipti? Lo si dovrebbe presumere ricordando le vicende dei monaci di Chateubriand. Passerà il prete in maglione e fuoriserie, patito di psicanalisi e televisione, il frate che suona la chitarra e «comprende tutto», come passarono l’abatino voltairiano e il cardinale dodicenne del Rinascimento. Resterà il Trappista: terribilmente moderno attraverso i secoli, come ciò che è unicamente radicato nel cielo. Il Trappista che non comprende quel che non è da comprendere, che può vivere con pari indifferenza e misericordia ai bordi di un villaggio indio o di una metropoli. Il Trappista da cui vanno a confessarsi, a quanto si dice, i Principi della Chiesa, nelle ore di tenebra e contraddizione. «Dio» disse l’abate Rancé «non ha comandato a tutti gli uomini di abbandonare il mondo; ma non c’è uomo al quale abbia proibito di amare il mondo».

[Vittoria Guerrini (1923-1977), La Trappa, originariamente comparso con lo pseudonimo Bernardo Trevisano, in Il Giornale d’Italia, 6 settembre 1967, p. 3, ripubblicato in Cristina Campo [pseudonimo di Vittoria Guerrini], Sotto falso nome, Adelphi, Milano 1998, pp. 141-147]

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venerdì 19 novembre 2010

Dell’orazione giaculatoria

Anteo, per rimanere invincibile, doveva toccar terra col piede. L’uomo religioso deve, nell’agone che gli è proprio, staccarsene il più sovente possibile: proiettando la sua mente in Dio, scagliandola, come si dà il volo a una rondine, verso il Creatore. Questo dardo d’oro della mente, questo batter d’ali che si gettano perdutamente a prender dimora un istante nel cuore stesso della luce, sono noti ai cristiani; e quando siano vocali (ma non necessariamente) si chiamano operazioni giaculatorie, da jaculum, appunto: dardo o freccia scoccata.
Il Vescovo di Roma ha ricordato di recente che «l’uomo è un essere costituzionalmente ordinato a trascendere se stesso, un essere proiettato verso Dio». Questa naturale conformazione spiega come la giaculatoria sia stata in ogni tempo istintiva sulle labbra del popolo: il più delle volte inconscia, puro grido, non di rado colma di affetti delicati. «Cuore di Cristo, Vergine dolcissima, Madre del Cielo, fateci santi» sono tra le locuzioni ancora in uso nelle campagne italiane. E non è detto che il lancio di questi lievi e caldi boccioli non compensi, sulle bilance invisibili, terrificanti pesi di blasfemia. Il dolore del popolo rinnova, in una gamma infinita, l’eco – umile e difforme finché si vuole – della suprema giaculatoria divina: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Nella storia cristiana la pratica assidua, metodica dell’orazione giaculatoria risale ai padri anacoreti della Tebaide. Nelle Vitae Patrum è perpetuato il ricordo dell’unica giaculatoria con la quale l’abate Pafnuzio condusse in tre anni la cortigiana Thais alla purificazione perfetta. Volta verso Oriente, ella doveva ripetere: «Tu che mi creasti, abbi pietà di me».
Ma vi è un nome al quale «si piega ogni ginocchio, in cielo, in terra e negli inferni». La giaculatoria dei Padri era soprattutto il nome di Cristo, reiterato all’infinito secondo il comandamento paolino «Pregate incessantemente» (1Ts 5,17), ora solo, ora in un breve contesto: «Signore Gesù, figlio del Dio vivente, abbi pietà di me peccatore». La pratica risale a un grande mistico bizantino, Simeone il Nuovo Teologo, ma la ritroviamo, più o meno accentuata, in tutti i Padri d’Oriente [...].
Come il sacro Nome venga dolcemente accordato al gioco del respiro e del battito cardiaco, finché per così dire non più l’uomo prega ma in lui si prega incessantemente, gioiosamente, così come in lui si pulsa e si respira, è narrato con incantevole realismo in un singolare romanzo composto in Russia nel XIX secolo, senza dubbio da un eminente conoscitore delle vie della contemplazione: La relazione (o Il racconto) di un pellegrino al suo confessore (LEF, a cura di don Divo Barsotti): stupenda piccola opera costruita, come Le anime morte, in forma di itinerario attraverso un paese ed un popolo. Ma queste sono anime vive, incoercibilmente felici e soavemente possenti, che il magnete del Nome congrega intorno al pellegrino dovunque passi. Il mondo, blocco ottuso e cieco, racchiude in ogni tempo una filigrana di esseri che vivono secondo regole che non sono di questo mondo. E sono gli esseri che mutano il cuore del mondo. L’iniziazione alla «via del Nome» è ancora diffusa nei monasteri del Monte Athos [...] e, a quanto sembra, in molti paesi dell’Est.
Cassiano consacra un intero capitolo delle sue Collazioni alla giaculatoria «Deus, in adiutorium meum intende, Domine, ad adiuvandum me festina»: versetto davidico che aprirà, in Occidente, ciascuna Ora canonica dell’Uffizio corale. Nelle Ore, anche certe coppie di versi e responsori brevissimi suonano quali giaculatorie di supplica: «Ostende nobis Domine / misericordiam tuam», o «Miserere / mei, Deus».
Ma l’amore vince il timore. Giaculatoria regale è la giaculatoria di pura dilezione, come quella che san Francesco ripeté per un’intera notte: «Mio Dio e mio tutto». Affettuose giaculatorie chiudono ciascun capitolo dei piccoli trattati di sant’Alfonso. Non diversamente le intendeva san Francesco di Sales, le cui lettere di direzione spirituale si insinuano come dita delicate sino alle corde più fini della vita dell’anima, squisitamente accordandole alla volontà divina. A santa Francesca di Chantal egli raccomanda di salutare con una giaculatoria ogni rintoccar d’ora. Ad una giovane donna vessata dal terrore della morte, di esclamare frequentemente: «Voi siete mio Padre, o Signore». Ma è nelle lettere a due dame, a cui gli affari di Corte impediscono l’orazione metodica, che egli formula con maggior bellezza e precisione il carattere dell’orazione giaculatoria: «... soprattutto desidero che in ogni occasione, durante la giornata, voi ritiriate il vostro cuore in Dio, dicendogli qualche parola di fedeltà e d’amore». «... [supplite] alla mancanza degli altri esercizi con frequenti e ferventi orazioni giaculatorie o proiezioni (élancements) dello spirito in Dio». […]
La consuetudine di queste sacre formule riveste l’uomo di una speciale impassibilità, e non è raro incontrare ancor oggi delicati asceti di cui non si spiegherebbe la resistenza all’urto del mondo se non li sapessimo ricoperti da un’invisibile armatura di giaculatorie. Come sempre il santo è il miglior banchiere, secondo la parola di uno scrittore contemporaneo, e lo stato di orazione perenne, oltre ad assicurare un apporto continuo di energie spirituali, lo stato di gioia e la santa imperturbabilità, opera tutto un seguito di meraviglie minori, alle quali difficilmente si crederà senza esperienza. La recitazione del Nome e la giaculatoria in generale, isolando lo spirito in un cerchio al quale soltanto forze superiori hanno accesso, è una possente difesa psicologica ben nota agli uomini di preghiera. Più di un antico mistico sperimentò come questa fulminea intimità con Dio arrivasse a produrre in qualche maligno interlocutore la improvvisa balbuzie, inspiegabili capogiri o altri sintomi di confusione mentale. […]
Nell’ultimo libro di Jacques Maritain (Le paysan de la Garonne, Desclée de Brouwer, 1966), di un’importanza così unica per la storia del cattolicesimo contemporaneo e così affascinante nella titanica ironia delle sue condanne, è suggerita, ancora una volta, la pratica della giaculatoria. «Si può fare orazione nel treno, nella metropolitana, nella sala d’aspetto del dentista. Si può ricorrere con frequenza a quelle brevi preghiere lanciate come un grido che gli antichi raccomandavano tanto».
È certo che se l’uomo conoscesse la sterminata potenza della sua anima quando un costante movimento verticale l’assicuri come un canapo a Dio, persino un mondo qual è il nostro cesserebbe di atterrirlo e, beninteso, di affascinarlo.

[Cristina Campo (pseudonimo di Vittoria Guerrini, 1923-1977), Dardi verso il cielo, originariamente comparso in Il Giornale d’Italia, 10-11 gennaio 1967, p. 3, ripubblicato in Eadem, Sotto falso nome, Adelphi, Milano 1998, pp. 136-140]

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mercoledì 6 ottobre 2010

Note sopra la liturgia

Negli Apophtegmata Patrum è detto come il demonio sia incapace di conoscere i nostri pensieri perché di un’altra natura dalla nostra, ma come egli possa indovinarli osservando i movimenti del nostro corpo. Di quella spia egli profitta per tenderci i suoi tranelli: donde l’importanza data in ogni tempo al comportamento esteriore e la spontanea venerazione per chi l’abbia perfetto. Costui, oltre a creare intorno a se stesso un anello di purezza inviolabile, sta in certo modo compiendo un esorcismo a beneficio di quanti gli sono prossimi. «Beato» dice san Francesco «quell’uomo che non vuole nei suoi costumi e nel suo parlare esser veduto né conosciuto se non è in quella pura composizione e in quello adornamento semplice del quale Iddio lo adornò e compose».
È comprensibile che un maestro spirituale insistesse presso i suoi discepoli sulla liturgia solitaria, atteggiamento del corpo durante l’orazione anche soltanto mentale, consigliasse di pregare in piedi, compiendo tutti i gesti prescritti, come in coro, «come se i fratelli assenti fossero presenti». E che un’educatrice di genio, Hélène Lubienska de Lanval, imponga prima di tutto ai bambini la recitazione di pochi versetti biblici accompagnata da taluni gesti e cerimoniali significativi: preparando il calco esteriore alla colata del contenuto che verrà più tardi: intellettuale prima, spirituale poi. Si sa di molte conversioni dovute alla predicazione, ma la scintilla può scoccare da un solo, perfetto gesto liturgico; c’è chi s’è convertito vedendo due monaci inchinarsi insieme profondamente, prima all’altare poi l’uno all’altro, indi ritrarsi nei penetrali del coro.
In un mondo nel quale l’uomo lentamente muore per mancanza non già di riverenza, come i filantropi vorrebbero indicarci, ma perché non sa più chi, non sa più che cosa riverire, un gesto simile può mutare una vita. E non appare strano, avendolo visto, che a santa Gertrude il Cristo sia apparso per la prima volta «nell’ora dolcissima di Compieta», mentre ella si rialzava da un inchino profondo col quale aveva riverito una monaca più anziana. Al posto di quella vide il «delicato giovinetto», «tale nell’aspetto quale allora la mia giovinezza sarebbe stata lieta di vedere anche con gli occhi del corpo». Con l’ultimo inchino sparirà forse da questa terra l’ultima vicenda degna di venerazione.
La liturgia è dunque il santo esorcismo. Santo e per così dire naturale. I gesti sacri lo sono anche in senso biologico, perché da tradizioni millenarie legati a numeri ai quali la vita dell’uomo arcanamente risponde: il tre, il sette, il dieci e così via. Uno studioso, Sambucy, ha notato come nella Messa siano contenuti gli atteggiamenti rituali più puri della contemplazione […], per esempio al Canone, allorché il sacerdote prega a braccia aperte e sollevate geometricamente, unendo i pollici agli indici; ma da noi si tende, incomprensibilmente, a trovare arbitrario, gratuito e sostituibile lo splendore di consimili gesti o la meravigliosa complicazione di certe regole cerimoniali: come quella, tutta ruotante intorno al numero tre e al mistico rapporto tra il cerchio e le rette (in modum circuli, in modum crucis), che informa, nella Messa solenne, la incensazione delle oblate. L’uomo così impegnato in gesti significativi adempie all’opus Dei non soltanto in senso sacro ma anche in senso naturale, affidando il respiro al ritmo infallibile del canto (che, con le lunghezze armoniosamente diseguali dei versetti, dilata e varia il giuoco del soffio nei polmoni) e lasciando che tutto il corpo ritrovi, in quella stretta e trascendentale disciplina, le sue leggi e i suoi numeri segreti. Lode davvero trinitaria, nella quale il corpo è fatto sentimento, il cuore pensiero e l’intelletto contemplazione.
Oggi si direbbe che quell’insano terrore che induce l’uomo ad aggredire la natura nel momento stesso che la fugge, lo spinga ad interrompere anche il grande esorcismo spirituale del gesto, introducendovi sempre più ciecamente cunei di vita profana: voci scomposte, ordini, illuminazioni inopportune, oggetti non rituali e, mostruosamente, il microfono, che rende grottesca la voce umana, assurde le tragiche vesti, anacronistico il gesto cerimoniale: giacché sarà sempre il nobile a pagare per il predone.

Liturgia è celebrazione dei divini misteri. È anche la grande esoterica del cattolico, che solo dopo una lunga frequentazione della liturgia terrena sarà in grado di presagire qualcosa della liturgia celeste. È, infine, desiderio di glorificare la divinità ricomponendo sulla terra, come stampate da un’ombra, le meraviglie del cielo: il giro degli astri, il succedersi delle stagioni, il mistero del tempo, l’itinerario della mente a Dio. Assistendo a una celebrazione liturgica solenne o anche soltanto a un Vespro bene ufficiato (è chiaro che parliamo e abbiamo parlato finora della tradizionale liturgia latino-gregoriana), si avrà l’impressione immediata di un moto astrale, di un’orbita celeste. E subito il Breviario lo conferma: piccolo libro zodiacale e cosmologico, currens per anni circulum, dove ciascuna ora canonica celebra una fase della luce, come negli Inni delle Piccole Ore, un momento della creazione del mondo, come negli Inni dei Vespri, o il graduale passaggio dalla notte al giorno, dal peccato all’illuminazione, come negli Inni dei Mattutini. Fin nelle ultime sfumature la varietà dei toni, le diverse cadenze musicali di uno stesso inno, salmo o responsorio a seconda del tempo liturgico, della solennità o della stagione (tonus vernalis, tonus hiemalis) – l’«immensa e delicata» liturgia mostra di ben portare il nome che le diede san Benedetto, opus Dei, giacché l’uomo non vi ha ruolo che di interprete delle grandezze di Dio e del creato. I suoi movimenti vi uniscono la lentezza maestosa delle ore con la levità della danza, mentre i paramenti, variando il loro colore, fissano all’occhio significati di morte, di risurrezione primaverile, di purgazione, di purpurea raccolta. Intorno all’immobile Sole-Cristo, Cristo stesso, nella persona del sacerdote, volge la Sua divina vicenda, e in essa coinvolge l’anno come il giorno, l’uomo in adorazione come lo stuolo dei Santi e delle Gerarchie Angeliche. Liturgia è dunque desiderio di circondare la divinità di immagini quanto possibile ad essa somiglianti, oltre che di parole da essa ricevute. Di restituire al Creatore, in virtù della Sua ispirazione, un estatico specchio della creazione. Gratias agimus Tibi propter magnam gloriam Tuam.
In un tempo nel quale l’uomo, preda di forze oscure, si industria di far esplodere la vita, stravolgendone tutte le leggi e rinunciando alla sua ultima destinazione, è particolarmente affliggente per lo spirito che anche nel meraviglioso santuario della liturgia tradizionale si aprano brecce, che anche questo sistema vacilli.

Liturgia – come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile. Essa è regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell’estasi. In realtà la poesia si è sempre posta come segno ideale la liturgia ed appare inevitabile che, declinando la poesia da visione a cronaca, anche la liturgia abbia a soffrirne offesa. Sempre il sacro sofferse della degradazione del profano.
La liturgia cristiana ha forse la sua radice nel vaso di nardo prezioso che Maria Maddalena versò sul capo e sui piedi del Redentore nella casa di Simone il Lebbroso, la sera precedente alla Cena. Sembra che il Maestro si innamorasse di quello spreco incantevole. Non soltanto lo oppose alteramente alla torva filantropia di Giuda che, molto tipicamente, ne reclamava il prezzo per i poveri: «Avrete sempre i poveri, ma non avrete sempre me» – parola terribile che mette in guardia l’uomo contro il pericolo delle distrazioni onorevoli: Dio non c’è sempre e non rimane a lungo e quando c’è non tollera altro pensiero, altra sollecitudine che Se stesso – ma addirittura replicò quel gesto la sera dopo, quando, precinto e inginocchiato, lavò con le Sue mani divine i piedi dei dodici Apostoli, allo stesso modo che Maddalena, scivolando tra il giaciglio e il muro, aveva lavato i Suoi. Dio, come osservò uno spirito contemplativo, si ispira volentieri a coloro che ispira.
«E l’odore si sparse per l’intera dimora». Il nardo di Maria Maddalena profuma l’intera liturgia cristiana, più ancora del nardo soave della Sulamita, del quale tanto si parla nelle Ore di Nostra Signora, tutte intrise di aromi e di fiori. Al nardo viene giusta mente comparato l’incenso, che ha il potere di disperdere l’angoscia del respiro e si leva al cospetto di Dio de manu Angeli. L’incenso è inesprimibilmente misterioso. Esso è insieme preghiera e qualcosa di più fine, più acuto della preghiera. Compone l’aroma dell’eros con quello della rinuncia, è resa di grazie ed è, come il nardo, alcunché di soavemente ferale. «Ella mi prepara per la mia sepoltura» disse il Salvatore con quell’accento che nessuno, intorno a Lui, penetrava. Nemmeno Maddalena comprese, naturalmente. Ma quando, tre giorni dopo, venne al Sepolcro con altri balsami, in cerca del corpo venerato, esso non era più là. Come sempre non l’utile aveva servito alla vera celebrazione ma il superfluo: non l’azione ma la liturgia dell’azione. La vera imbalsamazione del Corpo del Signore era già avvenuta al banchetto, e insieme anche la sola unzione regale e sacerdotale che Egli mai ricevesse su questa terra. E più ancora: un principio di sacramento, giacché il corpo ch’ella così preparava era già l’«ostia pura, ostia santa, ostia immacolata» pronta all’offerta; e il suo bisogno di toccarlo, intriderlo di profumi e di lacrime, tergerlo con ciocche di capelli, fondersi in qualche modo con esso, qualcosa di molto simile a una comunione. Inesauribile è il gesto di Maddalena, e in realtà Cristo affermò che per sempre ci si sarebbe ricordati di esso. Ciò che lo rende inesauribile è appunto la sua gratuità: tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a una dramma sola di quel nardo, come tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a un solo grano d’incenso bruciato al cospetto di Dio con cuore ardente. Nel Mattutino del Grande Sabato del rito bizantino si cantano, rivolte a Giuda, queste parole:
«Se sei l’amico dei poveri e ti rattristi dell’effusione di un balsamo per la consolazione di un’anima, come hai potuto vendere la luce a prezzo d’oro?».
La complessità del gesto di Maddalena ne fa, come abbiamo detto, qualcosa che da liturgico diviene in qualche modo sacramentale. Ma si potrebbe ricordare, prima ancora del suo gesto, quello non meno ineffabile, se anche più semplice, dei saggissimi Magi. I quali, partiti alla ricerca di un fanciullo bisognoso di tutto, non gli recarono latte né panni ma le insegne della Sua triplice dignità di Profeta, di Sacerdote e di Re. Così mostrando che neppure Dio stesso, quando si mostri a noi perfettamente povero, ci dispensa dalla celebrazione simbolica della Sua gloria, quale è rappresentata dalla liturgia; e che questa, pur nel suo incessante attuarsi, rimane per eccellenza un’operazione contemplativa. Di una delicatezza e di una gravità che rendono, più che rischiosa, mortale ogni arbitraria modificazione.

[Vittoria Guerrini (1923-1977), Note sopra la liturgia, originariamente comparso con lo pseudonimo Bernardo Trevisano, in Cappella Sistina, luglio-settembre 1966, pp. 99-102, ripubblicato in Cristina Campo [pseudonimo di Vittoria Guerrini], Sotto falso nome, Adelphi, Milano 1998, pp. 129-135]

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