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martedì 12 aprile 2016

La vita interiore alla scuola di André Charlier

Il Venerdì Santo, alle ore 15 in punto, il celebrante, rivestito di una semplice alba, con la stola nera a sottolineare la sua dignità sacerdotale, entra nella chiesa abbaziale riempita di una folla silenziosa. Giunto ai piedi dell’altare, egli si prostra interamente a terra con un magnifico gesto di umile adorazione. La liturgia ci fa entrare nella vita interiore dell’unico sommo sacerdote, Gesù Cristo, il Signore.
Nel Getsemani Gesù ha pregato il Padre nel più misterioso combattimento spirituale. Più di Giacobbe contro l’angelo di Yahweh, più che Mosè sul Sinai, più di Giobbe. Gesù ha affrontato la volontà del Padre per noi. Egli ci ha mostrato percorrendola la strada stretta della vita interiore, che André Charlier definiva «il rapporto intimo della nostra anima con Dio». Nella «lettera ai capitani» dell’11 marzo 1943, durante l’occupazione, André Charlier tratteggiava un percorso chiaro e molto pratico di vita interiore.
La prima tappa consiste nel riconoscere umilmente e virilmente la grande debolezza delle anime a entrare nell’interiorità da sé stesse nella vita quotidiana. «Ora, io che vi vedo vivere, e che vi osservo, spesso senza che ve ne rendiate conto, trovo in voi una scarsa capacità di rientrare in voi stessi, il vostro spirito è sempre orientato all’esterno». E da pastore avvertito che conosce bene le sue pecore perché le ama, egli vede bene che il poco d’interiorità di cui i suoi allievi davano prova era contaminato dall’esterno: «Quando pensate a voi stessi, siete soprattutto preoccupati dell’impressione che potete dare agli altri». Ma certo, André Charlier, in maniera molto umana, molto incarnata, riconosce bene le circostanze attenuanti: la giovane età, il lavoro scolastico che richiede attenzione, la vita domestica con tutti i suoi obblighi e gli avvenimenti dell’epoca che attraversavano la Francia, così ossessivi. Come si dice, non ce la si fa più!
André Charlier spinge allora i suoi capitani a immergersi un po’ di più nella vita interiore, mettendo in luce un’inquietudine spesso muta, ma presente in tutte le anime. Lo fa dando l’esempio notevolmente adattato da Lyautey: «Soffro di avere l’anima così elevata da potere comprendere ciò che dovrei essere e di non avere il carattere così fermo e indurito per realizzare la concezione della vita che devo condurre». Questa constatazione, Lyautey la faceva su un segno molto chiaro, visibile, oggettivo: il pettegolezzo, che riconduce tutto a sé.
Ed ecco la tappa decisiva, quella che permette d’entrare veramente nella vita interiore, in questo rapporto intimo dell’anima con Dio, la tappa della grande verità: «Voi siete delle creature di Dio, il quale creando ciascuno di voi ha avuto un pensiero particolare: è tempo che impariate a conoscere questo pensiero divino su di voi, senza il quale la vita andrà presto a rapirvi e a impedirvi di gustare questo rapporto unico con l’Eterno. Tutto potrebbe diventare per voi così chiaro da subito, se lo volete, e la vostra vita si troverebbe per sempre trasformata».
André Charlier sa bene che questa tappa ha essa stessa il suo rischio, cioè di essere senza domani. Per evitare ciò, occorre oltrepassare un’altra tappa, quella d’entrare abitualmente, ogni giorno, nel silenzio; silenzio materiale indispensabile, certo, ma più ancora nel silenzio interiore. «Occorre fare tacere anche il tumulto dei pensieri, e che tutta l’agitazione della giornata venga a morire al fondo di questo raccoglimento».
In maniera ammirevole André Charlier dà allora il cuore della vita interiore, la sua natura profonda: «Là, mantenete la vostra anima un momento sotto lo sguardo di Dio, e con uno slancio molto semplice, fate offerta di voi stessi a quel Dio che attende da voi qualcosa di preciso». Chi non vedrà qui, dipinta, la preghiera di Gesù nel Getsemani?: «Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà». E sulla croce: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». E alla risurrezione: «Io sono risorto, e sono nuovamente con te. Tu hai posto la tua mano su di me».
Non mi rimane che invitarvi a profittare della biografia di André Charlier recentemente pubblicata, e soprattutto a celebrare le sante feste pasquali con un’anima interiore.

[Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux, editoriale di Les amis du monastère, n. 157, 19 marzo 2016, pp. 1-2, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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venerdì 30 agosto 2013

Jean Madiran (1920-2013) - In memoriam

[Il 31 luglio 2013 è morto il pensatore e scrittore cattolico francese Jean Madiran (1920-2013), al secolo Jean Arfel, oblato benedettino dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux con il nome di fr. Jean-Baptiste. In prossimità del trigesimo, trascriviamo di seguito la nostra traduzione dell’omelia pronunciata nel corso del funerale – svoltosi il 5 agosto 2013, presso la chiesa Notre-Dame des Armées, a Versailles – da Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., Abate del monastero di Le Barroux.]
 
Signori Sacerdoti,
Signori Canonici,
Cari Padri,
Carissima Michèle,
Cara famiglia Arfel,
 
San Bernardo diceva in un’omelia che gli occhi sono quanto di più eccellente vi sia nel corpo, malgrado la loro piccolezza. Diceva questo pensando alla visione beatifica. Avrebbe potuto dirlo anche vedendo gli occhi di Jean Madiran, perché egli aveva degli occhi eccezionali. Non solo in ragione del loro fascino, gioiosi e scoppiettanti – uno sguardo infantile –, ma anche per quel timore reverenziale che si provava davanti all’acutezza del suo sguardo. Jean Madiran era fatto per la luce, ma era anche un uomo che illuminava, senza compromessi.
Ben presto si è rivolto verso la luce. Giacché prima di diventare un maestro, come lo hanno salutato in numerosi omaggi – fra cui quelli di Philippe Maxence, Yves Chiron e molte altre decine –, Jean Madiran è stato un discepolo attento. Prima di Maurras, che per sette anni ha letto tutti i giorni, a partire dai suoi quindici anni, fino a quando ha incontrato il maestro di Martigues.
Poi fu la volta dell’altro maestro intellettuale che egli ebbe la grazia d’incontrare nella persona di Henri Charlier. Sarebbe meglio dire gli Charlier, la famiglia Charlier, attraverso la quale è giunta fino a lui la tradizione vivente di Péguy e del padre Emmanuel di Mesnil-Saint-Loup.
Madiran diceva: «È stato André Charlier a insegnarmi a leggere Chesterton, Claudel e Pascal. È lui che mi ha insegnato cos’è il gregoriano, che mi ha mostrato la Francia, che mi ha insegnato il silenzio. È lui che mi ha fatto comprendere quel che sapevo già ed è lui che mi ha disposto a quel che avrei dovuto comprendere più tardi. L’essenziale è l’educazione della libertà».
Se Jean Madiran ha saputo e potuto mettersi alla scuola di questi giganti, è perché lui stesso aveva del genio.
Glielo disse Maurras nella prefazione al suo libro sulla filosofia politica di san Tommaso d’Aquino. André Charlier diceva che solo Péguy si era spinto così avanti e con tale finezza nell’arte di leggere. Se Jean Madiran ha potuto appoggiarsi sulle spalle dei giganti, è perché con la sua intelligenza egli aveva ricevuto dalla sua educazione la pietà filiale, che dona alla conoscenza un’acutezza speciale, così che egli ha potuto interpretare fedelmente quanto aveva ricevuto, e a sua volta ha potuto aggiungere luce alla luce.
Per esempio, egli ha saputo – incoraggiato dallo stesso Maurras – sviluppare e innalzare il pensiero politico del suo maestro, alla luce della dottrina sociale della Chiesa, e trasmettere la luce diventando professore di filosofia precisamente a Maslacq, dove strinse un’amicizia indefettibile con un tale Gérard Calvet, il quale da allievo – talora indisciplinato – diventò un amico, per poi diventare il suo padre spirituale.
Ma è soprattutto nella sua battaglia, che ha condotto con un genio eccezionale, che Jean Madiran è meglio conosciuto, il più amato e il più detestato, senza alcun dubbio. Una battaglia condotta in un’eclissi nella quale tutto il mondo è all’oscuro. Padre Calmel diceva che la grande opposizione fra la luce e le tenebre sarebbe presto finita, che si sarebbe entrati in un’epoca di nebbia nella quale non si sarebbe più stati capaci di distinguere il fratello dall’avversario. Ma Jean Madiran aveva buoni occhi.
Oggi possiamo ricordare tutti i fronti sui quali ha condotto la sua battaglia spirituale con delle armi intellettuali  e che lo hanno reso un maestro di dimensione internazionale. Nell’ambito politico egli ha eccelso nella battaglia contro il comunismo che esalava il suo profumo seduttore fino al cuore della Chiesa. È lui che ha predisposto la più fedele traduzione dell’enciclica di Pio XI, Divini Redemptoris, e che ha pubblicato il capolavoro La vieillesse du monde.
Nell’ambito dell’impegno cristiano e politico, ha accompagnato l’avventura della Cité catholique, partecipando attivamente e intervenendo al primo Congresso di Losanna, denunciando in alcuni scritti – come La laïcité dans l’Église – la sfiducia nei confronti della nostra azione cattolica.
All’indomani del Concilio, Jean Madiran ha combattuto contro la cattiva gestione che s’installava a vari livelli nella Chiesa universale, e in particolar modo nella porzione che risiede in Francia.
Chi non ricorda questa costanza, fino alla sua morte, contro la smobilitazione dei cattolici in materia d’impegno politico, o contro alcuni erronei impegni.
In materia religiosa, Jean Madiran ha applicato quel che insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica al numero 907, ove è detto: «In rapporto alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi [i fedeli laici] hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità della persona».
Si oppose, in tema di catechesi, ai teorici del pedagogismo poco rispettoso della tradizione. Per convincersene, sarà sufficiente rileggere nei suoi Éditoriaux et Chroniques, quei testi ardenti d’indignazione, che riguardano la distruzione del catechismo. Colmò il vuoto creato dai distruttori ripubblicando successivamente il Catechismo di san Pio X, maggiore e minore, e il Catechismo del Concilio di Trento, che per molti fra noi, nel mezzo della tempesta, si mostreranno dei fari indicanti la giusta direzione verso il Cielo.
Ancora recentemente, nel 2005, dopo il raddrizzamento impostato da Giovanni Paolo II e poi da Benedetto XVI con il Catechismo della Chiesa Cattolica e il suo compendio, Jean Madiran non dimenticava di tracciare un bilancio dello tsunami devastatore.
Nell’ordine della liturgia, ha protestato contro le traduzioni erronee – in particolare della Scrittura – e si è innalzato contro la brutalità con la quale fu interdetta, di fatto, la celebrazione di quella che ora si chiama la forma extraordinaria del rito romano. Trentasette anni di battaglia, ricompensati dal motu proprio Summorum pontificum, che è stato uno degli atti salienti del pontificato di Benedetto XVI, poiché ha abbattuto il muro di Berlino contro la tradizione vivente e trasmessa.
Ha seguito con attenzione lo sviluppo del Concilio Vaticano II, pubblicando in particolare su Itinéraires i resoconti di Mons. Marcel Lefebvre – altro grande amico, fino al 1988 –, allora superiore generale dei Padri dello Spirito Santo.
Intratterrà in seguito con padre Congar una corrispondenza sull’intimo rapporto fra il Concilio e la crisi che è seguita nella Chiesa.
Sin dal 1966, ahimé, l’episcopato francese si puntò contro la rivista Itinéraires. Si trattò di una grande sofferenza per il nostro caro fratello Jean Madiran, degno figlio della Chiesa. Sappiamo che rimase fino alla fine reticente nei confronti del Concilio Vaticano II, malgrado tutto quel che hanno potuto dire sul suo carattere vincolante i Papi Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Dobbiamo però notare che lo stesso Benedetto XVI ne ha sottolineato qualche limite; non mi dilungo oltre.
Cosa incredibile, con mezzi estremamente limitati, Jean Madiran ha osato lanciare assieme a qualche amico, nel 1982, il quotidiano Présent – di cui ne dirigerà la pubblicazione –, senza il sostegno di alcuna pubblicità. Vi scriverà fino ai suoi ultimi giorni contro l’inondazione dell’immoralità, del laicismo aggressivo, dell’empietà, del liberalismo, del relativismo massonico o del marxismo militante, distruttori della civiltà cristiana in tutti i suoi aspetti.
Non ci compete di tratteggiare qui quelle che furono le sue battaglie politiche a fianco dei suoi compagni d’armi; costoro – come per esempio Bernard Antony – lo faranno meglio di noi.
Si disconoscerebbe però Jean Madiran se si vedesse in lui solo un combattente duro e puro. Certo, non ha sempre avuto la reverenza dovuta ai pastori. Glielo si perdonerà. Dom Gérard sottolineava che il suo grande amico aveva dato dei magnifici colpi di spada, senza odio, ma con un piacere non dissimulato. Alcuni dei suoi amici lo hanno messo in guardia contro il rischio di confondere il vizio e il fratello, la ruggine e il vaso. Ma egli era capace di comprendere. Era capace di perdonare, malgrado il suo temperamento focoso. Perché se Jean Madiran era un uomo fatto per la luce, era anche un uomo fatto per il fuoco.
Un fratello mi ha raccontato una scena  che lo ha sconvolto: Jean Madiran che abbracciava in pubblico un uomo che gli aveva fatto la peggiore delle ingiustizie nella vita personale.
E noi, i monaci di Le Barroux e di Sainte-Marie de La Garde, e i cappellani di Notre-Dame des Armées, possiamo testimoniare della profondità della sua vita spirituale. Jean Madiran era capace di un profondo raccoglimento. Era un contemplativo. Lo rivedo ancora assistere agli uffici con uno zelo sereno, passare silenziosamente nel chiostro, con la testa leggermente chinata, secondo il dodicesimo grado d’umiltà della Regola di san Benedetto.
Jean Madiran ha così imitato la grande santa di Francia, santa Giovanna d’Arco, la cui grazia particolare fu quella di unire profondamente la vita mistica e la vita pubblica. È il primato della grazia.
Concludo citando il nostro fratello oblato, poiché Jean Madiran aveva preso lo scapolare sotto il patrocinio di san Giovanni Battista, colui che grida nel deserto. Jean Madiran diceva: «L’autentica azione è figlia della preghiera, e coloro i quali non agiscono abbastanza, è perché non pregano abbastanza, e non perché pregano troppo. È nella vita di preghiera che ciascuno trova la forza e la volontà di un’azione a misura delle sue attitudini. Questo è vero di ogni azione; l’azione politica non fa eccezione».
Preghiamo durante questa santa Messa – secondo la forma extraordinaria che Jean Madiran amava, non per ragioni affettive, ma per ragioni teologiche – affinché il nostro fratello possa contemplare con i suoi occhi il volto di Dio, e affinché ciò che ha seminato possa portare molto frutto.
Amen.

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mercoledì 29 giugno 2011

Omaggio a Henri Charlier

«Essere pittore vuol dire trovare dei rapporti generali, cioè delle idee, là dove il resto degli uomini non percepisce che sensazioni. La superiorità di un ritratto su una descrizione mediante il linguaggio proviene dal fatto che per dare l’idea di uno spirito informante la materia, nessun linguaggio è così diretto e così delicato come quello delle arti plastiche».
(Henri Charlier, L’Art et la Pensée)

In passato ci siamo occupati a più riprese dell’educatore, moralista e scrittore cattolico francese André Charlier (1895-1971), traducendo in più puntate (si veda qui, qui, qui e qui) il suo articolo-appello del 1967 Ai monaci e alle monache dell’Ordine di San Benedetto, e ancora un articolo biografico e un discorso inedito rivolto a Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux.
Questa volta desideriamo rendere omaggio alla figura del fratello di André – come il fratello, anch’egli oblato benedettino –, il pittore e scultore Henri Charlier (1883-1975), il quale fu dalla conversione alla fede cattolica, nel 1913, un propagatore dell’eredità tradizionale della Chiesa, collaborando inoltre per lunghi anni alla rivista Itinéraires, per la quale assicurò durante un ventennio varie meditazioni spirituali di rara profondità sull’anno liturgico con lo pseudonimo D. Minimus, raccolte postume in due volumi (Les Propos de Minimus, Dominique Martin Morin, Jarzé 1994).
Henri Charlier fu uno strenuo difensore della forma straordinaria del Rito romano, e in particolar modo del canto gregoriano, tema al quale dedicò un’opera in collaborazione con il fratello (Le Chant grégorien, Dominique Martin Morin, Jarzé 1967).

Sacro Cuore in maestà (statua, 1936)
Henri Charlier (1883-1975)
L’occasione del presente omaggio ci deriva dalla recente pubblicazione, a opera delle edizioni TerraMare, di un magnifico libro di 232 pagine in grande formato – Henri Charlier. Peintre et Sculpteur. 1883-1975 (Parigi 2011) –, al contempo opera biografica e catalogo delle opere artistiche, il cui autore è il pronipote di Henri Charlier, ossia il monaco dell’abbazia di Le Barroux, Dom Henri Lapèze-Charlier O.S.B., che dedica in esordio il volume all’illustre artista e parente con le toccanti parole: «Dilectissimis parentibus meis decorisque inventoribus viæ pulchritudinis».
Lo stesso Papa Benedetto XVI ha voluto esprimere il suo apprezzamento per quest'opera, con un messaggio di cui riproduciamo l'estratto più significativo: «Possa la biografia di questo grande autore, del quale ripercorrete felicemente l'itinerario artistico e spirituale, incoraggiare gli artisti del nostro tempo a fare rivivere l'arte sacra. Affidandovi all'intercessione di Nostra Signora e di san Benedetto, il Santo Padre v'impartisce di tutto cuore la sua benedizione apostolica».
Le prefazioni al volume, abbondantemente illustrato con foto d’archivio e riproduzioni di opere del maestro, recano la firma di Hélène Rouvier, archivista onoraria del Museo Rodin, e Véronique Mattiussi, responsabile dei fondi storici, manoscritti e della biblioteca della medesima istituzione.
Al centro del libro, un appassionante excursus del percorso umano e artistico di Henri Charlier, in cui è dedicato uno spazio adeguato e opportuno alle problematiche teoriche ed estetiche del maestro francese, autore peraltro di monografie sul tema – da Culture, école, métier (Arthaud, Grenoble - Parigi 1942, 2a ed. Nouvelles éditions latines, Parigi 1959) a L’Art et la Pensée (Dominique Martin Morin, Jarzé 1972) –, che meriterebbero una traduzione e diffusione nel mercato editoriale italiano.
La questione liturgica, pure al centro delle preoccupazioni di Henri Charlier, non è tema sviluppato nell’opera, sebbene il ricco apparato iconografico che riproduce i suoi capolavori d’arte cristiana – sono oltre duecento le immagini a colori di alta qualità che accompagnano l'opera – ne sia un eloquente commento. Ecco comunque un estratto sull’argomento (p. 152):
«Durante l’estate 1972, egli lancia una piccola rivista intitolata Faits et gestes, che componeva egli stesso e stampava a sue spese. Rispondeva agli errori riguardanti la trasmissione della fede e alle deformazioni della liturgia, in una conversazione immaginaria fra tre giovani che non manca di puntiglio, come spiegherà in una lettera a Padre Bergeron: “Per venire a me, sono nel mio novantesimo anno d’età. Completo la mia ultima statua e metto in ordine i miei disegni e le mie carte. Ma ecco che il nostro vescovo – e la debolezza del nostro curato – ci ha imposto per la domenica Quasimodo una Messa dei giovani in dialetto e con musica ‘pop’. Giacché oggigiorno è impossibile dubitare che la nostra gerarchia sia perlomeno luterana, ho iniziato la battaglia, perché il popolo non è avvertito; è anzi imbrogliato da degli ipocriti che non credono più al loro sacerdozio e pendono per il comunismo. Quindi molta corrispondenza e occupazioni: stampa di volantini, conferenze, ecc. Beninteso non sono da solo (se non per la stesura)”».

L'enfant blessé (olio su tavola, 1911)

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giovedì 12 agosto 2010

André Charlier, Dom Gérard e Maslacq

[Grazie alla cortese autorizzazione di Yves Chiron, riproduciamo l’integralità della sua “lettera d’informazioni religiose” Aletheia, anno XI, n. 150, 28 gennaio 2010, pp. 1-2 (16 rue du Berry, 36250 Niherne, France), trad. it. di sr. Bertilla Obl.S.B.]

André Charlier (1895-1971) fu un educatore, un moralista e uno scrittore. Professore presso l’École des Roches a Verneuil (Eure), a partire dall’ottobre 1924; direttore dell’École des Roches, trasferita a Maslacq (Pirenei atlantici), dall’ottobre 1941 al luglio 1950; direttore del Collège de Normandie a Clères (Senna marittima), dall’ottobre 1950 al luglio 1962. Ha pubblicato una raccolta di testi – Lettres aux capitaines (1955) –, un saggio – Que faut-il dire aux hommes? (1964) – e, in collaborazione con suo fratello, lo scultore Henri Charlier (1883-1975), Le chant grégorien (1967) [1].
Dom Gérard Calvet (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux, fu allievo dell’École des Roches di Maslacq, dal 1940 al 1947, restandovi un anno supplementare – un anno sabbatico – dopo il baccalaureato e prima della partenza per il servizio militare, nell’ottobre 1948.
Nel gennaio 1950, Gérard Calvet entrò come postulante nel monastero benedettino di Madiran (Pirenei atlantici). Prese l’abito il 2 febbraio 1950 e fece la professione semplice il 4 febbraio 1951. Nel 1952 il monastero di Madiran fu trasferito a Tournay. Il 18 febbraio 1954 Dom Gérard vi fece la professione solenne e il 13 maggio 1956 fu ordinato sacerdote.
Come tutti i sacerdoti novelli, Dom Gérard celebrò le sue prime Messe alla presenza e per le intenzioni dei suoi cari. Dopo Bordeaux, alla presenza della propria famiglia, Dom Gérard si recò a celebrare una Messa al Collège de Normandie. Era il riconoscimento di un debito nei confronti di André Charlier che era stato, per lui, più di un maestro: «un padre», secondo la sua stessa espressione.
In tale occasione, André Charlier pronunciò un discorso. Ringrazio la figlia di André Charlier per avermi trasmesso questo testo inedito e di averne autorizzata la pubblicazione.
Non farò un commento riga per riga di questo discorso in tre parti. Vi si ritrovano in primo luogo un ritratto dell’allievo Gérard Calvet e alcune considerazioni su «la libertà e la grazia» [2]. Segue il racconto della scoperta della vita monastica da parte del giovane Gérard e la rivelazione della sua vocazione monastica. Infine, vi è l’esposizione della lotta condotta da André Charlier, la sua rivendicazione dell’«esigenza» [3] e la sua visione delle avanguardie e degli avamposti necessari, tra i quali poneva il giovane monaco-sacerdote.

Yves Chiron

[1] Su André e Henri Charlier ci si riferirà ai numeri speciali che sono stati loro consacrati dalla rivista Itinéraires (n. 166, settembre-ottobre 1972, e n. 266, settembre-ottobre 1982).
[2] Dom Gérard dirà di avere ricevuto a Maslacq «un’intelligenza dei rapporti fra la natura e la grazia che è senza dubbio l’apporto più prezioso e il più originale del messaggio che ci era rivolto» (Histoire de Maslacq, in Itinéraires, n. 266, cit., p. 268).
[3] Anche in questo caso, non si può che rimandare alle pagine di Dom Gérard su Maslacq. Lui stesso pone in esergo la nozione di «esigenza» (ibid., p. 338).


Reverendo Padre,
Ti ricordi senza alcun dubbio i saluti che t’indirizzammo quando lasciasti Maslacq per entrare a Madiran. Fu nel famoso studio numero uno, e c’era una certa emozione nell’uditorio. Anche dello stupore. Ci si stupiva di vedere entrare in monastero colui che aveva ricoperto con tanta buffoneria il ruolo della Contessa d’Escarbagnas, o con tanta naturalezza quella dello Stordito, o ancora – te ne ricordi? – colui che aveva scordato di passare i suoi abiti da donna per rappresentare Viola scagliata dalla tempesta sulle coste dell’Illiria, ne La dodicesima notte di Shakespeare. I tuoi titoli nella scuola erano riassunti in un biglietto da visita del quale forse non hai conservato il ricordo. Era fortemente umoristico. Quanto a me, ho pensato che non ci fosse nessuna rottura nel percorso. Non è inutile avere giocato e danzato (con un certo spirito) al fine di comprendere i giochi della Libertà e della Grazia, allorché s’intraprendono i primi passi nella vita mistica. Non è detto nella Scrittura che la Saggezza di Dio giocava davanti a Lui in ogni tempo? La vita devota non è sinonimo di noia e di rigidezza. I clown possono essere le persone più serie del mondo.
Mi ricordo il primo soggiorno che facemmo insieme all’abbazia di Madiran. Abbiamo dormito in un granaio pieno di fieno e tu eri sceso acrobaticamente al piano di sotto attraverso il tavolato per cadere in una rastrelliera delle mucche, cosa che ti era valsa la rottura di una costola. Credo che con noi ci fossero Guy de La Chapelle, Bertrand de Galard e Denis Chapon. La vita dei monaci vi sembrava straordinaria. Insomma, non ci capivate un granché. Nel refettorio, durante la lettura recto tono, avete trattenuto il riso a fatica. Tuttavia, prima di partire, tu sei entrato da solo nella cappella e mi sono detto di frequente che, anche se non te ne sei reso conto, la tua vocazione si decise in quest’unico istante. Le più grandi cose della vita dipendono dalle più piccole circostanze: è sufficiente che in un dato momento siamo capaci di vedere e intendere ciò che bisogna fare, purché in seguito non si rimetta tutto in discussione attraverso le sottigliezze del dubbio e della discussione. Quando s’intraprende un cammino bisogna sempre andare fino in fondo. Credo che se l’École des Roches ti ha insegnato qualcosa, è stato semplicemente di prendere le cose sul serio, cioè alla lettera. Prendere il proprio lavoro alla lettera. Che vi dice: «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».
Tale comandamento si applica a tutti gli uomini, non solo ai monaci. Ma senza dubbio i monaci sono gli unici a prendere questo comandamento alla lettera e a mettere tale esigenza al primo posto tra le loro preoccupazioni, davanti a tutto il resto.
Nella sua ultima lettera, fr. Marie mi ricordava un’espressione di Padre Romain, che ha un posto così importante nella scuola, benché ne sia così lontano: «Maslacq dev’essere un vivaio per gli avamposti». Vi è, in effetti, una seconda cosa che la scuola ha potuto insegnarvi: è la gravità della lotta che vi attende, perché nel mondo moderno tutti i valori che determinano la nobiltà e il significato della vita sono minacciati pericolosamente, perché li vediamo morire sotto i nostri occhi senza che nessuno, persino i cristiani, reagisca se non con proteste letterarie o verbose. Per aver detto ciò, sono stato tacciato di pessimismo. Tanto peggio! Non me ne distacco di una parola. D’altra parte, mi sono sempre sentito a mio agio tra gli avamposti e le avanguardie. Non ho il gusto per la morte. Non sono tra coloro che considerano il proprio lavoro già come una ritirata. Io mi batto. Mi sono molto battuto negli ultimi quindici anni e rendo onore a coloro, professori e allievi, che hanno voluto battersi al mio fianco; perché, cosa curiosa, anche alcuni degli stessi allievi hanno acconsentito a battersi e non hanno voluto rimanere spettatori ironici. So bene di essere considerato impaziente, esigente, amo che si marci velocemente, che si realizzi velocemente, che si comprenda velocemente. Quali retroguardie ho dovuto trascinarmi in questi quindici anni di battaglie! Ma che importa? La tua presenza qui, questa sera, significa che c’è qualcuno tra voi che ha scelto gli avamposti, perché dietro a te ce ne sono altri, grazie a Dio. Così penso di poter dire ora come Simeone: «Nunc dimittis servum tuum Domine». In una lettera che mi scrivesti circa due anni fa, tu mi dicesti: «Voglio consacrare il mio sacerdozio all’anima della Francia». Queste parole mi sono state a cuore, perché le ho prese alla lettera. Il volto del mondo può essere cambiato e il mondo può essere salvato, quando la volontà corrisponde davvero all’appello. Cinque secoli fa, l’anima della Francia è stata messa per intero nelle mani di una ragazza della Lorena che non sapeva né leggere né scrivere. Eccola oggi deposta nelle tue mani sacerdotali e nelle mani di coloro che, come te, non avranno paura di battersi negli avamposti.

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venerdì 9 aprile 2010

Ai monaci e alle monache dell'Ordine di San Benedetto / ultima parte


Mi accorgo che questo vi disturba. Anche nella Chiesa, si sentono pronunciare delle proposte così sbalorditive sull'arte sacra che temete di trovarvi sorpassati. Vi percepite come un'antica vestigia medievale nel mezzo di una Chiesa che si concede a un distratto aggiornamento, che corre verso forme di preghiera, liturgia e arte alle quali è chiesto anzitutto di essere inedite, senza tenere conto delle prescrizioni conciliari e malgrado le sagge resistenze della gerarchia. In un mondo in perpetuo divenire, si vorrebbe che la Chiesa lo sposasse e facesse cambiare tali forme in funzione dell'evoluzione del mondo. Ma non è questo che le anime si attendono. Esse non hanno a che fare con l'evoluzione del mondo: ne soffrono, piuttosto che gioirne. Ciò di cui hanno sete è una "sorgente d'acqua che zampilla per la vita eterna" (Gv 4,14). Se da una parte la Chiesa non disconosce i bisogni del tempo, essa è tuttavia anzitutto la sposa dell'Eterno: ci strappa al Tempo per consegnarci all'Eternità. Così ci allontaneremo finalmente da quanti non sanno inserirsi che nel tempo, di cui diventano prigionieri, e ci dirigeremo sempre più verso voi la cui vita è un linguaggio che parla di Eternità. Fareste dunque un calcolo sbagliato riguardo il vostro posto nella Chiesa, abbandonando quello che occupate così nobilmente e nel quale nessuno vi può sostituire. Non abbiate paura di rimanere immobili o di avere l'aria di restare tali in un mondo divorato dalla velocità: voi avete scelto un Amore che è senza cambiamento, seppure veloce come un fulmine.
Noi proveremo, noi laici, a salvare la musica gregoriana ovunque lo potremo fare. I monaci e le monache possono salvarla ancor più di noi, perché si tratta del loro cibo quotidiano, e voglio credere che non ne sono sazi: è il loro respiro. Si potrà sempre ammirare il timpano e i capitelli di Vézelay; continueranno a ispirare santi pensieri agli uomini fino alla fine dei tempi, perché è sufficiente guardarli con animo aperto (trascuro il caso in cui la rabbia degli iconoclasti li riducesse in polvere). La musica, essa, dev'essere eseguita e ascoltata, senza di che è votata alla morte pura e semplice o alla morte delle biblioteche. Vi appartiene quindi di mantenere in vita il canto gregoriano: è un obbligo che dovete assolvere com'è, d'altro canto, un obbligo plurisecolare del vostro Ordine quello di salvare tutto ciò che costituisce una ricchezza per la cultura degli uomini. Se la Regola di san Benedetto non ne fa menzione, la storia lo riconosce come uno dei gioielli più belli della vostra corona. Che dirà la posterità se si accorgesse che voi - in passato, salvatori di così tante opere, anche pagane, che non avete lasciato perire perché costituivano un peso indubbio nella bilancia delle cose dello spirito - vi siete mostrati incapaci di salvare il vostro proprio tesoro?

[André Charlier (1895-1971), Aux moines et aux moniales de l'Ordre de saint Benoît, articolo-appello del 1967 comparso nel volume Le chant grégorien edito da Dominique Martin Morin (Bouère), di cui una prima versione risale al marzo 1965 (Itinéraires, n. 91), poi in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 78-84 (qui pp. 83-84), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 4 / fine]

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martedì 9 marzo 2010

Ai monaci e alle monache dell'Ordine di San Benedetto / terza parte

Uno di voi, in una lettera ammirevole che testimonia il vostro combattimento interno nei tempi attuali, mi parla "dell'armoniosa bellezza della vita benedettina, in cui il riferimento a Dio, totale, fa di tutta l'esistenza una continua liturgia". Di grazia, non frantumate questa armoniosa bellezza con innovazioni frettolose: è per suo tramite che la vocazione benedettina è giunta a toccare il vostro cuore; essa è composta d'elementi indissolubili dei quali non potrete rigettarne alcuno, pena un impoverimento che vi causerà una sofferenza irrimediabile. Vorrete sbarazzarvi di un canto che ha accompagnato la preghiera di generazioni di monaci per secoli e che è stato il canale di grazie ineffabili per i vostri fratelli e per il mondo? Vorrete fare questo proprio nel tempo in cui, per la vostra cura, questo canto è stato ristabilito nella sua purezza primitiva? Rinuncerete senza versare una lacrima, non dico a tanti capolavori - poiché non si tratta solo di opere del genio umano -, ma a così tanti miracoli della grazia? Scrivendo queste parole, tali miracoli si presentano alla mia memoria, e sono giustamente i più semplici e i più popolari: è la sequenza Victimae pascali laudes in cui la Resurrezione ci è annunciata in una maniera così toccante e familiare; è quell'altra sequenza Veni Sancte Spiritus, che sviluppa la melodia di uno dei più belli alleluia; sono gli inni, fra i quali non c'è che l'imbarazzo della scelta; è lo Stabat Mater, impossibile da cantare, o anche solo da leggere, senza che lacrime di penitenza salgano ai vostri occhi. Se davvero siete pronti a rinunciare a tutto questo, comincerei a tremare per l'Ordine benedettino.
Tali melodie sono la fioritura d'una produzione di molti secoli di cristianità. Potete davvero credere che non importa quale centro di pastorale liturgica, fosse pure nazionale, anche se si applicasse con abnegazione, ci produrrebbe qualcosa che vi si avvicinerebbe, seppur da lontano? Ignorate il mistero della creazione artistica, senza il quale non avreste quest'idea innocente, che si possa spazzare via questo tesoro inestimabile, che si possa fare piazza pulita, che non importa nulla, perché si andrà a rifare tutto questo in meglio. Vi è decisamente un sentimento che i moderni ignorano, ed è il rispetto, in particolare il rispetto delle cose del pensiero. Crediate bene che non ignoriamo affatto il bisogno che spinge ogni epoca a esprimersi con il proprio linguaggio. Noi stessi ci sforziamo di far parlare il nostro tempo con il suo linguaggio; ma non crediamo che per fare questo sia necessario rigettare i modelli più perfetti e soffocare le voci più sante.

[André Charlier (1895-1971), Aux moines et aux moniales de l'Ordre de saint Benoît, articolo-appello del 1967 comparso nel volume Le chant grégorien edito da Dominique Martin Morin (Bouère), di cui una prima versione risale al marzo 1965 (Itinéraires, n. 91), poi in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 78-84 (qui pp. 82-83), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 3 / continua]

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venerdì 29 gennaio 2010

Ai monaci e alle monache dell'Ordine di San Benedetto / seconda parte


Così, è con vera angoscia che ci rivolgiamo a voi quando vediamo demolire con precipitazione ciò che ha costituito oggetto di venerazione per molti secoli. Perché, infine, per quanto siamo laici, abbiamo il diritto di dire quello che pensiamo delle riforme che, per quanto imposte in nome del Concilio, ci sembrano spesso una semplice consacrazione dell'anarchia che ha regnato nella Chiesa in tema di liturgia da un certo numero di anni. Ci rivolgiamo a voi, monaci e monache, per supplicarvi di salvare il tesoro della Chiesa. Abbiamo un gran numero di obbligazioni nei confronti dell'Ordine benedettino, che è stato per noi una fonte incomparabile di grazie, e abbiamo così profondamente percepito, ogni volta che siamo penetrati nei vostri monasteri, la fiamma spirituale che da voi s'irradiava, sicché eravamo convinti che la santa liturgia e il canto gregoriano avrebbero trovato in voi degli zelanti difensori. Quale non fu il nostro stupore e la nostra tristezza quando fummo resi edotti dalla Lettera apostolica Sacrificium laudis [di Papa Paolo VI, "sulla Lingua latina da usare nell'Ufficio Liturgico corale da parte dei religiosi tenuti all'obbligo del coro", del 15 agosto 1966]:
Rivela il Santo Padre: "Dalle lettere di alcuni di voi e da parecchie missive giunteci da varie parti siamo venuti a conoscenza che i cenobi o le province da voi dipendenti - parliamo solo di quelle di rito Latino - hanno adottato differenti modi di celebrare la divina Liturgia: alcuni sono molto attaccati alla lingua Latina, altri nell'Ufficio corale vanno chiedendo l'uso delle lingue nazionali e vogliono inoltre che il canto cosiddetto Gregoriano sia sostituito qua e là con canti oggi in voga; altri addirittura reclamano l'abolizione della lingua latina stessa. Dobbiamo confessare che tali richieste Ci hanno non lievemente colpiti e non poco rattristati; e vien da chiedersi da dove sia sorta e, perché si sia diffusa questa mentalità e questa insofferenza in passato sconosciuta".
Forse ritenete che la liturgia e il canto gregoriano siano questioni secondarie, ma sembra proprio che il sommo pontefice giudichi diversamente, a tal punto la sua lettera era colma di emozione e dolore:
"Quale lingua, quale canto vi sembra che possa nella presente situazione sostituire quelle forme della pietà cattolica che avete usato finora? Bisogna riflettere bene, perché le cose non diventino peggiori dopo aver rinnegato questa gloriosa eredità. (...) Preghiamo dunque tutti gli interessati, di ponderare bene quello che vorrebbero abbandonare, e di non lasciare inaridire la fonte alla quale hanno fino ad oggi abbondantemente attinto. Senza dubbio la lingua latina crea qualche, e forse non lieve, difficoltà ai novizi della vostra sacra milizia. Ma questa, come sapete, non è da ritenere tale che non possa essere superata e vinta, soprattutto tra voi che, più lontani dagli affanni e dallo strepito del mondo, potete più facilmente dedicarvi allo studio. Del resto quelle preghiere permeate di antica grandezza e nobile maestosità continuano ad attrarre a voi i giovani chiamati all'eredità del Signore; in caso contrario, una volta eliminato il coro in questione, che supera i confini delle Nazioni ed è dotato di mirabile forza spirituale, e la melodia che scaturisce dal profondo dell'animo, dove risiede la fede e arde la carità, il canto gregoriano cioè, sarà come un cero spento che non illumina più, non attrae più a sé gli occhi e le menti degli uomini".

[André Charlier (1895-1971), Aux moines et aux moniales de l'Ordre de saint Benoît, articolo-appello del 1967 comparso nel volume Le chant grégorien edito da Dominique Martin Morin (Bouère), di cui una prima versione risale al marzo 1965 (Itinéraires, n. 91), poi in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 78-84 (qui pp. 80-82), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 2 / continua]

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venerdì 20 novembre 2009

Ai monaci e alle monache dell'Ordine di San Benedetto

Reverendi Padri, Reverende Madri,
Voi siete, secondo la volontà del vostro fondatore, il Patriarca dei monaci, una «scuola al servizio del Signore»: Dominici schola servitii. Fra le varie famiglie religiose della Chiesa, la vostra originalità consiste nell’esservi votati solo al Signore. Lo servite nella Lode, che san Benedetto chiama Opus Dei; e non vi è sufficiente che la Lode sia pura: volete che sia bella. Voi osservate alla lettera la parola del salmista – «Sette volte al giorno io ti lodo» – e date alla vostra lode le ali del canto. Nel nostro secolo trepidante, in cui tutta l’attività si sviluppa sotto il segno dell’utile, è bello che vi siano ancora uomini e donne che si consacrano a lodare Dio, che per fare questo abbandonano varie volte al giorno tutte le occupazioni e si dedicano alla Lode con gravità, con semplicità, per doversi occupare di una funzione sacra. In questo avete un’incontestabile vocazione nel nostro tempo. Mentre attorno a noi, e anche all’interno della Chiesa, siamo testimoni di un’incredibile svalutazione del sacro, voi soli rendete ancora il sacro sensibile. Lo rendete sensibile per la vostra attitudine, il vostro abito, il vostro incedere quando entrate in coro, mediante i saluti che vi scambiate mutualmente, e che distinguono così bene la dignità dell’uomo attore di un dramma sacro, attraverso l’economia così perfettamente calcolata dei gesti liturgici in cui non c’è alcun spazio per l’improvvisazione, ma che tutto significano, con l’armonia coreografica che presiede alle evoluzioni dell’officiante all’altare. Quando assisto a una Messa conventuale, la più semplice che sia – non dico un pontificale –, preferibilmente quando l’organo si ferma e lascia dei lunghi silenzi prima e dopo la consacrazione, Dio è per me più presente e la mia fede trova una certezza particolare. Quando vi si guarda, quando vi si ascolta, si ha la sensazione che ognuno dei vostri gesti e ogni vostra parola corrispondano a una realtà spirituale. Tali gesti e tali parole s’inscrivono in un insieme liturgico che è il mezzo scelto dalla Chiesa per elevare l’anima dei fedeli alla santità, per «rigenerare alla vita celeste», secondo la bella espressione di Pio XII nell’enciclica Mediator Dei. Questa elevazione per la quale una realtà naturale assume un senso sacro non è possibile che per la vostra fedeltà al principio di san Benedetto: «che l’intima disposizione dell’animo si armonizzi con la nostra voce». Perché è tramite il canto che si traduce la vostra lode. Per dare all’Ufficio divino tutta la sua purezza e perfezione, avete ristabilito le melodie sacre nel loro testo autentico, ciò che sarà l’onore del vostro Ordine in questo secolo. Senza dubbio voi portate il culto liturgico a un grado di perfezione che è difficile raggiungere in una qualsiasi parrocchia; ma non vi sono due liturgie, una per i monaci e un’altra per il popolo cristiano: tutto il popolo è stato invitato ad abbeverarsi alla medesima fonte di santità. Alcune parrocchie hanno dimostrato che, anche con mezzi ristretti, si può dare alla liturgia la grandezza e la nobiltà che essa richiede, ciò che è semplicemente una questione di educazione e di formazione dei fedeli. Noi che apparteniamo al popolo cristiano delle parrocchie, abbiamo certamente seguito in maniera inadeguata le vostre lezioni; ciò nonostante anche noi abbiamo la nostra esperienza e sappiamo senza dubbio che la grazia di Dio agisce per mezzo della preghiera liturgica, che agisce mediante il canto della Chiesa.

[André Charlier (1895-1971), Aux moines et aux moniales de l'Ordre de saint Benoît, articolo-appello del 1967 comparso nel volume Le chant grégorien edito da Dominique Martin Morin (Bouère), di cui una prima versione risale al marzo 1965 (Itinéraires, n. 91), poi in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 78-84 (qui pp. 79-80), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 1 / continua]

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