Il monaco è un uomo che rinuncia a tutto per avere tutto. È colui che ha rinunciato al desiderio per avere il più alto adempimento di ogni desiderio. Ha rinunciato alla sua libertà per diventare libero. Va in guerra perché ha trovato un genere di guerra che è pace.
Al di là dell'immaginazione, al di là della grandezza, del potere, della saggezza, della luce della mente, il monaco ha trovato la chiave per vivere di cose prive di romanzo e di dramma: fatica, fame, povertà, solitudine, vita in comunità. È il silenzio del Cristo di Nazareth, in cui Dio viene lodato senza pompa, fra trucioli di legno.
Il compito del monaco consiste nel liberarsi da tutto ciò che è egoismo e tumulto per far luogo al misterioso Spirito di Dio, per trasfondersi in Dio senza quasi rendersene conto. Tutti coloro che visitano un monastero e che comprendono che cosa vi avviene, se ne allontanano con la consapevolezza che Cristo vive in quegli uomini: «Che il mondo sappia che Tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me».
Fu la sete di vuoto, di assoluta assenza di egoismo a popolare i deserti d'Egitto nel terzo e quarto secolo. E i meravigliosi scritti di Sant'Atanasio e di Cassiano propagarono questo fuoco per tutta l'Europa.
Quando Sant'Antonio l'eremita emerse dalla città in rovina del deserto, che per venti anni aveva echeggiato delle tentazioni ad opera dei demoni, il suo viso stupì gli uomini che avevano sentito parlare di lui ed erano venuti per essere suoi discepoli. Essi non videro un uomo morto o un uomo sconvolto dalla pazzia, dal fanatismo o da un odio crudele e sciocco, ma un uomo i cui lineamenti denotavano la semplicità e la pace dell'Eden, i primi giorni di un mondo che ancora ignorava il peccato. Era un viso che avrebbe fatto apparire ridicole le espressioni «equilibrio» e «controllo di se stesso», perché non da se stesso era posseduto quell'uomo, ma dall'eterna, infinita pace in Cui ogni vita e ogni essere si cullano nei secoli dei secoli. Era più uomo di quanti ne avessero mai visti, perché la sua personalità si era annullata in se stessa per bere alle sorgenti della verità e della vita.
San Pacomio scoprì un altro genere di solitudine. Nel primo grande monastero di cenobiti egiziani, il monaco imparò a sparire non nel deserto, ma nella comunità di altri monaci. Si tratta, in un certo senso, di un modo ancor più efficace di sparire, poiché implica un ascetismo che ha effetti particolarmente profondi e duraturi.
Durante alcuni secoli la vita monastica significò essere un eremita o essere un cenobita. Erano due vie per raggiungere lo stesso fine immediato: vuotare e purificare il cuore per lasciarlo libero di lodare l'infinito Dio per amor Suo.
Trascurando quelle che possono essere state le esagerazioni di Tabenna, di Nitria, di Scete, le grandi abbazie di Egitto e di Siria gettarono le basi di un ascetismo pieno di saggezza, di prudenza, di buon senso e di carità. San Tommaso, con tutto il suo equilibrio e la sua moderazione, non poté trovare migliore autorità su cui poggiare, più sicuro modello da seguire, delle Conferenze e degli Istituti di Cassiano (don Berlière, L'Ascèse Bénédectine, osserva: «L'ascetismo cattolico moderno è in diretta relazione e in perfetta conformità con quello dei monaci d'Oriente». Egli si riferisce ai padri del deserto). [...]
Fu compito di San Benedetto, nel sesto secolo, trasformare il monachesimo in una vita che gli uomini normali potessero sopportare. Invece di lasciare che gli uomini si inaridissero nell'adorazione di se stessi tentando di diventare eroi di resistenza fisica, San Benedetto trasferì nell'intimo l'essenza dell'ascetismo, lo spostò dalla carne alla volontà. I suoi monaci avevano da mangiare a sufficienza e potevano dormire quanto bastava. Egli ridusse di circa due terzi gli uffici corali degli egiziani e mandò la comunità a lavorare nei campi per sette, otto ore al giorno. Le mortificazioni straordinarie furono proibite o sconsigliate. La virtù consisteva nel non attirare l'attenzione più che nel fare cose di grande rilievo. I sacrifici, che realmente gli stavano a cuore, erano quelli che segretamente sgorgavano dalle vene più profonde dell'essere. In tali sacrifici la vanità non poteva trovare posto; essi infatti distruggevano alla base l'egoismo e l'autolatria. Uno degli intimi scopi di San Benedetto fu di purificare i cuori degli uomini mediante atti apparentemente semplici, ordinari, insignificanti: il destino comune, il lavoro giornaliero, il piccolo sacrificio di andare d'accordo con gli altri.
Contemporaneamente San Benedetto sviluppò un misticismo cattolico di grazia che è ad un tempo semplice, largo e pratico. Le mortificazioni imposte per obbedienza, l'umiltà, la vita in comune non sono fine a se stesse: esse ci vengono imposte solo per aprire i nostri occhi alla luce deificante («Apertis oculis ad deificum lumen», RB, prologo) che Dio vuole riversare su di noi, per farci pronti alla Sua azione in noi, così che in ogni cosa i monaci possano vedere e lodare Dio. Ogni loro azione sarà più opera Sua che loro e risplenderà del fulgore della Sua pace. Essi gioiranno della Sua presenza e Lo ringrazieranno con le loro lodi. «Operantem in se Dominum magnificant» (ibid.).
Il vero contributo di San Benedetto alla civiltà europea non si vede nel fatto che i suoi monaci furono pionieri, costruttori, insegnanti, conservatori della cultura classica: attività da considerarsi soltanto quali insignificanti sottoprodotti della vita in comune, meravigliosamente semplice e cristiana, che veniva condotta nei primi monasteri benedettini. L'influenza e l'esempio di tale vita giovarono, più di ogni altra cosa, all'Europa che era stata invasa da successive ondate di tribù barbariche. Questa influenza e questo esempio tennero viva la fiamma della pace e dell'unità fra gli uomini in un mondo che sembrava lottare con il gelo della morte.
[Dom M. Louis (Thomas) Merton O.C.S.O. (1915-1968), Le acque di Siloe, trad. it., Garzanti, Milano 2001, pp. 37-41]