lunedì 3 gennaio 2011

Le radici dell’Europa sono monastiche

Se il richiamo alle radici religiose e cristiane dell’Europa costituisce un tema consueto del Magistero di Benedetto XVI – come già di quello del venerabile Giovanni Paolo II – a Parigi il Papa c’invita a fare un passo in più, che costituisce il tema specifico dell’intervento al Collège des Bernardins, da molti giudicato uno dei grandi discorsi del suo pontificato insieme a quello del 12 settembre 2006 all’Università di Ratisbona. Al Collège des Bernardins il Papa fa notare che le radici cristiane dell’Europa sono, più precisamente, radici monastiche, e che nei monasteri medievali le radici dell’Europa si confondono con le radici della teologia della Chiesa universale.
Le «radici della cultura europea» si trovano precisamente nei monasteri, i quali «nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi» non solo conservano «i tesori della vecchia cultura» ma insieme ne formano una nuova (Benedetto XVI, Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, Parigi, 12-9-2008). Per la verità, i monaci non avevano come scopo la cultura: «si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio» (ibid.). Non si trattava però di una ricerca senza bussole né di «una spedizione in un deserto senza strade» (ibid.). Al contrario, «Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso» e dato ai cercatori una via: «la sua Parola», consegnata agli uomini nelle Sacre Scritture (ibid.).
La cultura dei monaci era così necessariamente una «cultura della parola», e i monaci avevano bisogno di studiare le «scienze profane», a partire dalla grammatica, non perché coltivassero la scienza per la scienza ma perché per la loro ricerca di Dio avevano bisogno di comprendere la Scrittura, e questo non poteva avvenire senza le scienze. Benedetto XVI cita ripetutamente lo storico benedettino dom Jean Leclercq O.S.B. (1911-1993), per il quale nell’esperienza dei monaci del Medioevo désir de Dieu e amour des lettres procedevano necessariamente insieme. Così, ogni monastero aveva sempre una biblioteca e una scuola, perché senza questi strumenti era impossibile prepararsi e preparare a comprendere la Parola di Dio e quindi cercare Dio. Dunque, anche se lo scopo dei monaci non era creare la cultura europea – e insieme la teologia cattolica – di fatto essi furono condotti a crearla e a trasmetterla alle generazioni successive.
Ma di quale cultura si trattava? La cultura non è semplicemente l’insieme dei libri e delle biblioteche, ma «riguarda la comunità» (ibid.) e coinvolge anche i gesti e il corpo. «Come nella scuola rabbinica, così anche tra i monaci il leggere stesso compiuto dal singolo è al contempo un atto corporeo. “Se, tuttavia, legere e lectio vengono usati senza un attributo esplicativo, indicano per lo più un’attività che, come il cantare e lo scrivere, comprende l’intero corpo e l’intero spirito”, dice al riguardo Jean Leclercq» (ibid.). Leggere e cantare sono attività collegate, e sono attività essenziali in un rapporto con la Parola che è propriamente culturale ma che coinvolge insieme il corpo e lo spirito. «Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica» (ibid.). Del resto, «due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il Sanctus, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’immediata vicinanza di Dio» (ibid.). «Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo redento ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni”» (ibid.).
Il «criterio supremo» di questa cultura insieme della Parola e del corpo va ben al di là della bellezza di una melodia: si tratta «di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere. Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle [1090-1153], che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da sant’Agostino per giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine” – nella regio dissimilitudinis. Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione (cfr. Confess. VII, 10.16): l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo. È certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso. Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere» (ibid.).
Di qui, secondo il Papa – di cui è noto l’interesse per la musica classica – «è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata, in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo» (ibid.). I monaci non hanno come punto di riferimento un compositore che «inventa» una melodia, ma chi è capace di riconoscere nel mondo una musica che Dio vi ha immesso e che nel cosmo già vive.
Le radici della cultura europea – cultura dello spirito e del corpo, che comprende la riflessione filosofica e teologica, la letteratura, l’arte e la musica – scaturiscono dunque dalla ricerca da parte dei monaci di un accostamento adeguato alla Parola di Dio. Per così dire, i monaci trovano la cultura europea – che segna ancora oggi tutti noi – senza cercarla, mentre riflettono sul modo migliore per comprendere e insegnare la Bibbia. Si trattava di un compito arduo – ma di qui vengono appunto la profondità della riflessione e la ricchezza della cultura prodotta dai monaci – in quanto la Bibbia è stata composta «lungo più di un millennio», presenta al suo interno «tensioni visibili» e il suo «aspetto divino […] non è semplicemente ovvio. Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono, da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e l’umanità. Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale che, a prima vista, sembra sconcertante: “Littera gesta docet – quid credas allegoria…” (cfr. Augustinus de Dacia [O.P., ?-1282], Rotulus pugillaris, I). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologica e pneumatica [cioè riferita allo Spirito Santo, Pneuma]. Possiamo esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha bisogno dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta» (ibid.).
Parte da qui il brano del discorso del Collège des Bernardins dove Benedetto XVI spiega come le radici della cultura europea sono al tempo stesso le radici della teologia cattolica di tutta la Chiesa. È una teologia che, proprio sulla base della consapevolezza originaria secondo cui la Parola di Dio necessita d’interpretazione, «esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione» (ibid.).
Il richiamo alle radici permette di evitare due rischi, non solo uno. Se un rischio, infatti, è costituito dal fondamentalismo – il quale pretende che la Parola di Dio non abbia bisogno d’interpretazione, perché la semplice «letteralità del testo» sarebbe più che sufficiente – un altro rischio, simmetrico, consiste nell’interpretazione arbitraria fondata semplicemente su «la propria idea, la visione personale di chi interpreta» (ibid.). Per non essere fondamentalisti, oggi si rischia spesso di cadere nell’arbitrarietà e nel soggettivismo. In realtà, proprio studiando l’esperienza dei monaci da cui sono nate insieme la cultura occidentale e la teologia, scopriamo che dagli scritti di san Paolo essi traevano la convinzione che l’interpretazione non è mai un’avventura individuale ma è sempre un incontro con il Signore Gesù che avviene nel luogo in cui Egli ha voluto farsi incontrare nella storia, cioè nella Chiesa. Si pone così «un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo come la comunità» (ibid.). È una riflessione molto attuale oggi «di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione» (ibid.).
L’esame delle radici monastiche dell’Europa non sarebbe completo se non si considerasse che il motto dei monaci era ora et labora, dunque non solo «prega» ma anche «lavora». Per quanto Benedetto XVI sia attaccato al tema delle radici greche dell’Europa, qui nota che se la Grecia non avesse incontrato il cristianesimo avrebbe continuato a passare accanto, senza afferrarli, ad aspetti essenziali della cultura: il lavoro, l’economia, il rapporto con le cose. Per i greci, infatti, il lavoro non faceva parte della cultura: era una cosa da schiavi. «Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito. Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo» (ibid.).
Come spesso avviene, un diverso atteggiamento psicologico nasconde un problema dottrinale, legato addirittura a una diversa concezione di Dio. «Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata» (ibid.). Al contrario il Dio degli ebrei e dei cristiani è il creatore e «lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini» (ibid.). Se dunque «il lavoro manuale è parte costitutiva del monachesimo cristiano» (ibid.) non ci troviamo di fronte soltanto a una buona pedagogia di formazione all’impegno della volontà, ma a una nozione di cultura più ricca di quella greca, di cui fanno parte a pieno titolo anche le attività economiche e produttive: una nozione che sta tra l’altro a fondamento del grande sviluppo economico dell’Occidente, le cui radici sono anch’esse cristiane e monastiche.
Ma Benedetto XVI, tirando le somme di questo grande affresco delle radici monastiche della cultura europea, torna a ricordare che lo scopo dei monaci non era creare cultura ma quaerere Deum, cercare Dio. Non ci si può mettere a cercare Dio, come sapeva sant’Agostino, senza averlo in un certo senso già trovato. Legati com’erano all’esperienza di san Paolo, i monaci sapevano che all’Areopago – quando di fronte all’ara del Dio Ignoto, l’apostolo esclama: «Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio» (At 17, 23) – Paolo era partito dalla nozione (che è di ragione, non di fede) secondo cui «all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità ma la Ragione creativa» (Benedetto XVI, discorso cit.). E tuttavia san Paolo era consapevole che «malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1, 14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole» (ibid.).
«La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. Quaerere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi» (ibid.). In questo senso, la riflessione sulle radici monastiche della cultura europea costituisce un nuovo richiamo a riscoprire quel segreto dell’Europa, l’armonia tra fede e ragione, che già era al cuore del discorso di Benedetto XVI a Ratisbona.

[Massimo Introvigne, Tu sei Pietro. Benedetto XVI contro la dittatura del relativismo, Sugarco, Milano 2011, pp. 89-94]

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