martedì 18 gennaio 2022

Note a margine del motu proprio “Traditionis Custodes”

Il 16 luglio 2021, nella memoria liturgica di Nostra Signora del Monte Carmelo, è stata pubblicata la Lettera Apostolica in forma di motu proprio “Traditionis Custodes” del Sommo Pontefice Francesco sull’uso della Liturgia Romana anteriore alla Riforma del 1970, che – come scrive il card. Gerhard Ludwig Müller, prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina della fede, nelle sue considerazioni pubblicate sull’ultimo numero di Cristianità – “è stata drasticamente limitata. Il chiaro intento è quello di condannare la forma straordinaria all’estinzione”.

Alla scuola di Alleanza Cattolica, collochiamo il quadro della situazione nella cornice appropriata.

Dom Prosper Guéranger O.S.B.: “La liturgia è la Tradizione stessa nel suo più alto grado di potenza e di solennità”.

La sentenza lex orandi, lex credendi, traducibile con “la legge della preghiera è la legge del credere”, si riferisce alla relazione tra il culto e la fede. In un’epoca in cui non esistevano ancora formule di fede o promemoria di fede quali saranno i dogmi, e ancora non era stato fissato il canone biblico, la regola di fede erano gli annunci presenti nelle asserzioni della liturgia, il cui valore “probante” cresceva con l’uniformità tra le Chiese sparse nei territori in cui avevano predicato gli apostoli. Il principio lex orandi, lex credendi, anche se non formalmente formulato, era in pratica la principale fonte per fissare i contenuti della fede. La formulazione di questo principio della teologia cristiana appare in Prospero di Aquitania (V secolo), il quale nell’ottavo libro dell’opera De gratia Dei et libero arbitrium scrive: “obsecrationum quoque sacerdotalium sacramenta respiciamus, quae ab apostolis tradita, in toto mundo atque in omni catholica Ecclesia uniformiter celebrantur, ut legem credendi lex statuat supplicandi” (“Noi vediamo anche nelle preghiere sacerdotali quelle cose che, tramandate dagli apostoli, in tutto il mondo e in ogni chiesa cattolica sono uniformemente celebrate come se la legge del credere fosse stabilita dalla legge del pregare”). Questo principio nella teologia cattolica gode di un grande prestigio perché permette di esplorare quale fosse il credo delle prime comunità cristiane. Riflesso di questa considerazione si nota anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che al n. 1124 afferma: “La fede della Chiesa precede la fede del credente, che è invitato ad aderirvi. Quando la Chiesa celebra i sacramenti, confessa la fede ricevuta dagli Apostoli. Da qui l’antico adagio: ‘Lex orandi, lex credendi’ (oppure: ‘Legem credendi lex statuat supplicandi’, secondo Prospero di Aquitania). La legge della preghiera è la legge della fede, la Chiesa crede come prega. La liturgia è un elemento costitutivo della santa e vivente Tradizione”.

Dal punto di vista liturgico, la Chiesa latina utilizza sostanzialmente senza variazioni dal 1570 – ma le radici affondano almeno a san Gregorio Magno, nel VI secolo – il Messale romano emanato con la bolla Quo primum tempore dal Papa san Pio V, che così facendo approvò l’edizione del Messale Romano in esecuzione dei decreti del Concilio di Trento (Missale Romanum, ex decreto sacrosancti Concilii Tridentini restitutum, Pii Quinti Pontificis Maximi iussu editum). Tant’è vero che fino all’edizione del 1962 emanata da san Giovanni XXIII – ultima versione della Messa di san Pio V –, in ogni edizione del Messale veniva stampato il testo della Quo primum tempore insieme a quello dei documenti dei successori in cui si autorizzavano le alterazioni.

Riforma di Paolo VI entrata in vigore nel 1970: difficoltà nella ricezione. Come ricorda la Istruzione del 2011 della Pontificia Commissione Ecclesia Dei sull’applicazione del motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI: “Diversi fedeli, formati allo spirito delle forme liturgiche precedenti al Concilio Vaticano II, hanno espresso il vivo desiderio di conservare la tradizione antica. Per questo motivo, Papa Giovanni Paolo II con lo speciale Indulto Quattuor abhinc annos, emanato nel 1984 dalla Sacra Congregazione per il Culto Divino, concesse a determinate condizioni la facoltà di riprendere l’uso del Messale Romano promulgato dal Beato Papa Giovanni XXIII. Inoltre, Papa Giovanni Paolo II, con il Motu Proprio Ecclesia Dei del 1988, esortò i Vescovi perché fossero generosi nel concedere tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedevano. Nella medesima linea si pone Papa Benedetto XVI con il Motu Proprio Summorum Pontificum”.

In effetti, al termine del percorso appena delineato, il 7 luglio 2007 Papa Benedetto XVI, con il motu proprio Summorum Pontificum, compie un passaggio decisivo, intuibile sin dal primo articolo della lettera apostolica, che recita: “Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della ‘lex orandi’ (‘legge della preghiera’) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da S. Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa ‘lex orandi’ e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della ‘lex orandi’ della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella ‘lex credendi’ (‘legge della fede’) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano. Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa. […]”.

Summorum Pontificum come inveramento del Discorso di Benedetto XVI alla Curia romana del 22 dicembre 2005, nel quale il Papa emerito ricordava che “i problemi della recezione [del Concilio] sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare ‘ermeneutica della discontinuità e della rottura’; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’‘ermeneutica della riforma’, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa”. Possiamo leggere proprio in quest’ottica la pubblicazione del motu proprio Summorum Pontificum, per esempio ricollegandoci alle parole di Benedetto XVI nella Lettera ai Vescovi in occasione della pubblicazione del testo, quando dice: “Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso”.

Frutti del Summorum Pontificum. Secondo alcuni dati presentati in un convegno internazionale nel 2017, in dieci anni il numero dei luoghi di culto tradizionali “autorizzati” è raddoppiato in tutto il mondo: negli Stati Uniti 480 luoghi di culto tradizionali nel 2017, contro i circa 230 del 2007; in Germania 153 contro 54; in Polonia 40 contro 5; in Inghilterra e Galles 147 contro 26; in Francia 221 contro 104. Per quanto riguarda l’Italia, nel 2018 si valutava la diffusione di celebrazioni di Messe nella forma extraordinaria in circa 123 unità, e secondo una stima attendibile questa cifra era superiore del 270% al periodo precedente la pubblicazione del motu proprio Summorum Pontificum. Questi numeri, di per sé eloquenti, nulla dicono però di un dato soggiacente e di genere più schiettamente qualitativo. Mi riferisco alla crescita esponenziale che la liberalizzazione del Messale tradizionale ha operato nel numero delle vocazioni delle comunità sacerdotali e religiose legate all’antica liturgia, al numero crescente di parroci e semplici sacerdoti che hanno trovato il modo di fare convivere le due liturgie nell’ambito delle comunità loro affidate (secondo dati aggiornati al 2019, si tratta di circa 4.800 sacerdoti in 88 nazioni), quindi al numero di fedeli laici, famiglie cattoliche e movimenti e associazioni che hanno trovato in questa pacificazione liturgica lo sprone per la loro santificazione e la grazia necessaria per l’animazione temporale della società loro affidata: si pensi, solo per fare un esempio, al ruolo del tutto cruciale che rivestono in Francia – ma si potrebbe fare un discorso analogo almeno per la Polonia e gli Stati Uniti – i gruppi di fedeli legati alla Messa di san Pio V, al centro di tutte le battaglie per la vita, la famiglia e la presenza qualificante della Chiesa nella società (dalla Manif pour tous all’imponente pellegrinaggio Parigi-Chartres, che si svolge da oltre trent’anni in occasione della Pentecoste e che raduna ormai oltre 15.000 pellegrini, in prevalenza giovani e giovanissimi). Ovvero, il Summorum Pontificum non solo ha liberalizzato la Messa tradizionale, ma ha aperto spazi di libertà nella Chiesa a un popolo per il quale il connubio lex orandi, lex credendi è vissuto in maniera tale da veicolare una cultura cristiana improntata al senso della Tradizione. Sia chiaro, e senza alcun malinteso: stiamo parlando di un mondo immacolato, privo di peccato, non portatore di un tasso di vischiosità, errori e ambiguità talora da censurare? Ma nemmeno lontanamente: “perché se il giusto cade sette volte, egli si rialza, ma i malvagi soccombono nella sventura” (Pr 24,16). Tuttavia, senza il bisogno di scomodare il comportamento dei figli di Noè che coprirono la nudità del padre con il loro mantello (Gen 9,18-23), è lecito considerare un aspetto – vorrei dire sociologico – che giustifica almeno in parte le esitazioni e gli errori che contraddistinguono anche questo mondo, ovvero il suo essere da oltre mezzo secolo, oltre che assolutamente minoritario e in quanto tale più debole, “ultimo”, pressoché costantemente bistrattato, marginalizzato, ostracizzato, deriso, incompreso, non accolto, e finalmente: non cristianamente amato.

Significato di Traditionis Custodes. Per quanto risulti doloroso ripercorrerne i contenuti, riassumiamo i punti salienti del motu proprio di Papa Francesco: “nella costante ricerca della comunione ecclesiale […] ho ritenuto opportuno stabilire quanto segue: Art. 1. I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano. […] Art. 3. Il vescovo, nelle diocesi in cui finora vi è la presenza di uno o più gruppi che celebrano secondo il Messale antecedente alla riforma del 1970: […] § 2. indichi, uno o più luoghi dove i fedeli aderenti a questi gruppi possano radunarsi per la celebrazione eucaristica (non però nelle chiese parrocchiali e senza erigere nuove parrocchie personali) […] § 5. […] nelle parrocchie personali canonicamente erette […] valuti se mantenerle o meno. § 6. avrà cura di non autorizzare la costituzione di nuovi gruppi. Art. 4. I presbiteri ordinati dopo la pubblicazione del presente Motu proprio, che intendono celebrare con il Missale Romanum del 1962, devono inoltrare formale richiesta al Vescovo diocesano il quale prima di concedere l’autorizzazione consulterà la Sede Apostolica. Art. 5. I presbiteri i quali già celebrano secondo il Missale Romanum del 1962, richiederanno al Vescovo diocesano l’autorizzazione per continuare ad avvalersi della facoltà. […] Art. 8. Le norme, istruzioni, concessioni e consuetudini precedenti, che risultino non conformi con quanto disposto dal presente Motu Proprio, sono abrogate”.

Mi mancano le parole per esprimere tutto il dolore che queste disposizioni suscitano, tanto più a fronte delle motivazioni che ne costituirebbero la ratio, che Papa Francesco articola nella sua Lettera ai vescovi di tutto il mondo, che accompagna il motu proprio: “Un’ultima ragione voglio aggiungere a fondamento della mia scelta: è sempre più evidente nelle parole e negli atteggiamenti di molti la stretta relazione tra la scelta delle celebrazioni secondo i libri liturgici precedenti al Concilio Vaticano II e il rifiuto della Chiesa e delle sue istituzioni in nome di quella che essi giudicano la ‘vera Chiesa’”. Parole dure e amare, ma solo parzialmente vere. Come scrive il card. Müller: “Papa Francesco cerca di spiegare i motivi che lo hanno indotto, in quanto insignito della suprema autorità della Chiesa, a limitare la liturgia nella forma straordinaria. Al di là della presentazione delle sue reazioni soggettive, però, sarebbe stata opportuna anche un’argomentazione teologica stringente e logicamente comprensibile. Perché l’autorità papale non consiste nell’esigere superficialmente dai fedeli una mera obbedienza, cioè una sottomissione formale della volontà, ma, molto più essenzialmente, nel permettere ai fedeli di essere convinti anche con il consenso della mente. Come disse san Paolo, garbato verso i suoi Corinzi spesso piuttosto indisciplinati, ‘ma in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, che diecimila parole con il dono delle lingue’ (1 Cor 14,19)”.

Conseguenze di Traditionis Custodes. È difficile fare un inventario delle conseguenze del motu proprio Traditionis Custodes, a nemmeno quattro mesi dalla sua pubblicazione. Né si tratta qui di voler disubbidire o resistere esternamente alla decisione di chi ha il primato di giurisdizione nella Chiesa (Concilio Ecumenico Vaticano I, Costituzione dogmatica Pastor Aeternus, III), ma di esprimere le difficoltà che s’incontrano. Tuttavia, se da un lato è possibile dire che il motu proprio ha indubbiamente segnato un limes, una linea di demarcazione, rispetto all’orizzonte tracciato dal precedente magistero – almeno a partire da san Giovanni Paolo II, e in particolare di Benedetto XVI –, rimane attualmente complicato scrutare quale sarà l’avvenire della libertà concessa a un messale che – ricordiamolo – è stato solennemente definito come “mai abrogato”. Certo, come ci ricorda il card. Müller nelle considerazioni pubblicate su Cristianità, “le disposizioni di Traditionis Custodes sono di natura disciplinare, non dogmatica e possono essere nuovamente modificate da qualsiasi Pontefice futuro”. Tuttavia, nell’attuale clima d’incertezza, quel che possiamo fare, per esempio, è almeno un iniziale censimento delle reazioni degli episcopati alla pubblicazione del motu proprio di Papa Francesco. Da questo punto di vista, sebbene manchi un quadro dettagliato, una prima esplorazione ci permette di descrivere la situazione di 243 diocesi in 27 nazioni. In 25 di queste 243 diocesi (poco più del 10%) sono state soppresse tutte le Messe nella forma extraordinaria; in 36 diocesi (quasi il 15%) sono state soppresse alcune delle Messe sin qui celebrate; e in altre 182 diocesi (circa il 75%) non è stata sin qui soppressa alcuna celebrazione. La mia personale percezione – sebbene approfondita e informata – è che questo dato statistico nasconda una dinamica in atto che renderà nel divenire più rara la facoltà concessa alle celebrazioni della Messa nella forma extraordinaria. Tuttavia, poiché come si usa dire, “il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi”, vanno accolti con ottimismo i segnali che giungono da alcuni episcopati – penso in particolare a quello statunitense, dove l’accesso all’usus antiquior ha un’ampia diffusione e si caratterizza per un’apparente assenza di ideologizzazione che non di rado caratterizza questo stile liturgico –, i quali non di rado stanno dispensando dalle disposizioni di Traditionis Custodes mediante il richiamo al canone 87, §1 del Codice di diritto canonico, ove si afferma: “Il Vescovo diocesano può dispensare validamente i fedeli, ogniqualvolta egli giudichi che ciò giovi al loro bene spirituale, dalle leggi disciplinari sia universali sia particolari date dalla suprema autorità della Chiesa per il suo territorio o per i suoi sudditi”. A titolo meramente esemplificativo, così si è comportato S.E. mons. Glen John Provost, vescovo di Lake Charles, in Louisiana, in un decreto del 1° novembre, accompagnato da una lettera alla diocesi nella quale il prelato afferma: “Non conosco nessuno in questa comunità che abbia espresso opposizione al Concilio Vaticano II, tanto meno ne abbia negato la legittimità. Inoltre, coloro che hanno scelto di discutere con me la loro devozione all’usus antiquior hanno insistito sulla validità della liturgia riformata. Con questo in mente, sarei gravemente negligente, se non insensibile, nell’applicare qualsiasi legge restrittiva ignorando allo stesso tempo queste realtà”. Un’analoga preoccupazione deve attraversare l’episcopato polacco, poiché – come ci hanno informato a fine ottobre le fonti di stampa del Paese dell’Est – al rientro dalla visita ad limina apostolorum in Vaticano, il card. Kazimierz Nycz, arcivescovo metropolita di Varsavia, ha riferito dell’incontro presso la Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, affermando che è stato affrontato il tema del motu proprio Traditionis Custodes, sicché il porporato ha dichiarato che: “la Congregazione ha ammesso che la questione è stata risolta in modo troppo duro, e invece di servire l’unità, nei singoli casi, potrebbe portare qualcuno a lasciare la Chiesa perché i suoi bisogni non sono stati soddisfatti”. Il cardinale ha aggiunto che “si è espressa la volontà d’interpretare in senso ampio il motu proprio, più nello spirito che nella lettera della legge emanata. Stiamo aspettando le linee guida promesse su questo argomento”.

Come laici, siamo chiamati a guardare con speranza questi timidi segnali; una speranza cristiana che non sia ingenuo ottimismo. Lo dobbiamo fare perché abbiamo a cuore l’importanza della questione liturgica. Anzitutto per la nostra santificazione, giacché, come ricorda la Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium del Concilio Vaticano II: “la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia. Il lavoro apostolico, infatti, è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore. […] Dalla liturgia, dunque, e particolarmente dall’eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli uomini nel Cristo e quella glorificazione di Dio, alla quale tendono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa”.

Quali mezzi a disposizione abbiamo a tal fine? Non siamo forse anche noi, “noi pochi. Noi felici, pochi. Noi manipolo di fratelli”, come mette sulle labbra del re Enrico V nella vigilia della memoria liturgica dei santi Crispino e Crispiano il drammaturgo William Shakespeare, nel discorso ai suoi uomini prima della battaglia di Agincourt (1415)? Come a quei pochi – ma felici, pochi –, abbiamo a disposizione il potente mezzo della preghiera, che come ultimi e piccini innalziamo con fiducia e speranza a Maria:

O Vergine Maria,

Voi che la pietà e l’amore dei vostri figli invocano nel mondo intero come colei che scioglie i nodi, accordateci la grazia di sciogliere tutti i nodi che il motu proprio “Traditionis Custodes” ha creato nel mondo.

Nella vostra tenerezza, guardate con favore il nostro Santo Padre il Papa e i Vescovi, e concedete loro la prudenza e la saggezza che hanno animato Benedetto XVI per ristabilire la pace e l’unità della Chiesa.

Fate che tutti i cristiani possano partecipare liberamente alla grazia del vostro Figlio divino, Nostro Signore Gesù Cristo, nella celebrazione della Messa tradizionale e nella ricezione del Santissimo Sacramento dell’Eucaristia.

Così sia.

PierLuigi Zoccatelli

[Il testo, sotto forma di appunti, costituisce la traccia di un intervento svolto a Torino il 7 novembre 2021, nel corso di un ritiro spirituale di Alleanza Cattolica. La riproduzione non è autorizzata, salvo espressa autorizzazione dell’autore e menzione completa della fonte]


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martedì 11 gennaio 2022

Pur stando così le cose, si comunicarono l’un l’altro

Fu sollevata in quel tempo una questione non indifferente, perché le diocesi di tutta l’Asia pensarono, in base ad una tradizione più antica, che si dovesse osservare per la festa della Pasqua del Salvatore il quattordicesimo giorno della luna, nel quale venne ordinato agli Ebrei di sacrificare l’agnello, e che in esso fosse assolutamente necessario porre fine al digiuno, qualunque fosse il giorno della settimana. Nelle Chiese di tutto il resto del mondo, invece, non v’era l’abitudine di celebrare in questo modo, poiché rifacendosi alla tradizione apostolica, esse mantennero l’usanza, conservatasi fino ad oggi, secondo cui non è giusto terminare il digiuno in un giorno diverso da quello della risurrezione del Salvatore.
A questo proposito si tennero numerosi sinodi ed assemblee di vescovi, e tutti all’unanimità formularono per lettera una regola ecclesiastica, per i fedeli di ogni nazione, in base alla quale il mistero della risurrezione del Signore non si sarebbe celebrato in altro giorno che in domenica, e in questa soltanto avremmo osservato la fine del digiuno pasquale.
Possediamo ancor oggi una lettera di quanti si riunirono allora in Palestina sotto la presidenza di Teofilo, vescovo della diocesi di Cesarea, e di Narciso, vescovo di Gerusalemme; e similmente ve n’è un’altra di quanti si riunirono a Roma per la stessa questione, che indica Vittore quale vescovo; e una dei vescovi del Ponto, presieduti da Palmas in qualità di più anziano; e una delle diocesi della Gallia, di cui era vescovo Ireneo;
e inoltre una dei vescovi dell’Osroene e delle città di quella regione; e specialmente quella di Bacchillo, vescovo della Chiesa di Corinto, e poi quelle di moltissimi altri che espressero una sola e identica opinione e decisione, e diedero lo stesso voto.
E una sola fu la determinazione dei suddetti: quella già riferita. Ma i vescovi dell’Asia, guidati da Policrate, continuarono a sostenere che era necessario mantenere l’usanza che era stata loro tramandata dall’antichità. Policrate stesso, nella lettera che scrisse a Vittore e alla Chiesa di Roma, espone in questi termini la tradizione pervenutagli:
“Celebriamo quindi scrupolosamente quel giorno, senza aggiungere né togliere niente. Grandi luminari riposano infatti in Asia. Essi risorgeranno il giorno della venuta del Signore, quando scenderà in gloria dai cieli a richiamare tutti i santi:
Filippo, uno dei dodici apostoli, è sepolto a Hierapolis con due sue figlie che si serbarono vergini tutta la vita, mentre la terza, vissuta nello Spirito Santo, riposa ad Efeso; e anche Giovanni, colui che si abbandonò sul petto del Signore, che fu sacerdote e portò il petalon, martire e maestro, giace ad Efeso;
e inoltre, a Smirne, Policarpo, vescovo e martire; e anche Trasea, vescovo e martire di Eumenia, riposa a Smirne.
Ed è necessario che parli di Sagari, vescovo e martire, sepolto a Laodicea, e del beato Papirio, e dell’eunuco Melitone, che visse sempre nello Spirito Santo, e giace a Sardi nell’attesa della visita dai cieli, nella quale risusciterà dai morti?
Tutti questi osservarono il quattordicesimo giorno della Pasqua in conformità col Vangelo, senza discostarsene, ma seguendo la regola della fede. E anch’io, Policrate, il più piccolo di tutti voi, vivo secondo la tradizione dei miei fratelli, di alcuni dei quali sono successore. Sette, infatti, sono stati vescovi, e io sono l’ottavo; e i miei fratelli hanno sempre celebrato il giorno in cui il popolo si astiene dal pane lievitato.
Perciò io, fratelli, che ho sessantacinque anni nel Signore e ho avvicinato i fratelli di tutto il mondo e ho letto tutta la santa Scrittura, non mi lascio intimorire da chi cerca di spaventarmi, perché questi uomini più grandi di me hanno detto: bisogna obbedire a Dio anziché agli uomini”.
Continua poi così dicendo a proposito dei vescovi che erano con lui quando scriveva e condividevano la sua opinione: “Potrei ricordare i vescovi che sono qui con me, che avete chiesto fossero da me convocati e che io ho convocato: i loro nomi, se li scrivessi, sarebbero un bel numero. Pur conoscendo la mia pochezza di uomo, essi hanno approvato la mia lettera, consapevoli che non porto invano i capelli bianchi, ma che ho vissuto sempre in Cristo Gesù”.
Allora Vittore, che presiedeva alla Chiesa di Roma, cercò immediatamente di escludere in massa dall’unità comune le diocesi di tutta l’Asia insieme con le Chiese vicine, in quanto eterodosse, e stigmatizzò con lettere tutti i fratelli indistintamente là riuniti, dichiarandoli scomunicati.
Ma questo dispiacque a tutti i vescovi, che a loro volta lo esortarono a pensare alla pace, all’unione e all’amore per il prossimo; e possediamo ancora le parole con cui essi rimproverarono piuttosto aspramente Vittore.
Tra loro anche Ireneo, scrivendo in nome dei fratelli cui era preposto in Gallia, raccomanda di celebrare soltanto di domenica il mistero della risurrezione del Signore, ma esorta poi opportunamente Vittore a non escludere intere Chiese di Dio perché mantengono una tradizione di antica consuetudine, e continua quindi dicendo:
“La controversia non è solamente sul giorno, ma anche sulla forma stessa del digiuno. Alcuni, infatti, ritengono di dover digiunare un solo giorno, altri due, altri più giorni ancora; certi, infine, calcolano il loro giorno di quaranta ore, tra diurne e notturne.
E una tale variazione nell’osservanza del digiuno non è sorta ai nostri giorni, ma molto prima, al tempo dei nostri predecessori, che, a quanto sembra, confermarono senza troppa precisione questa consuetudine basata su semplicità e preferenza personale, e la stabilirono per il futuro; ma nessuno visse mai meno in pace, e anche noi viviamo ora in pace gli uni con gli altri, e la differenza del digiuno conferma la concordia della fede”.
Ireneo aggiunge poi un’osservazione che mi pare appropriato riferire, ed è di questo tenore: “Tra loro vi furono anche i presbiteri anteriori a Sotero che presiedettero la Chiesa che tu governi ora, cioè Aniceto, Pio, Igino, Telesforo e Sisto, che non osservarono essi stessi il quattordicesimo giorno, né imposero la sua osservanza a quanti li seguirono, ma pur non osservandolo essi stessi, non furono affatto meno in pace con quanti giungevano tra loro dalle diocesi in cui esso veniva osservato. Eppure l’osservarlo era un contrasto ancora maggiore per coloro che non l’osservavano.
E nessuno fu mai respinto per questa ragione, ma anzi quegli stessi che non l’osservavano, cioè i presbiteri che ti hanno preceduto, inviarono l’Eucaristia a quelli delle diocesi che l’osservavano.
E quando il beato Policarpo soggiornò a Roma al tempo di Aniceto, pur avendo avuto l’uno con l’altro piccole divergenze su altre questioni, si rappacificarono subito, non desiderando essere in disaccordo su questo argomento. Aniceto non riuscì infatti a persuadere Policarpo a non osservare il quattordicesimo giorno, come aveva sempre fatto con Giovanni, discepolo del Signore nostro, e con gli altri apostoli con cui era vissuto; né Policarpo persuase Aniceto ad osservarlo, poiché quest’ultimo diceva che bisognava mantenere la consuetudine dei presbiteri a lui anteriori.
E pur stando così le cose, si comunicarono l’un l’altro, e nella Chiesa Aniceto concesse l’Eucaristia a Policarpo, evidentemente per riguardo, e si separarono l’uno dall’altro in pace, poiché tanto gli osservanti quanto i non osservanti avevano pace nell’intera Chiesa”.
E Ireneo fu degno del nome che portava, essendo paciere di nome e di fatto, ed esortò ed intercedette per la pace delle Chiese, poiché in merito alla questione sollevata discusse per lettera non solo con Vittore, ma anche, uno dopo l’altro, con numerosi altri capi di Chiese.

[Eusebio di Cesarea (260/265-339/340), Storia ecclesiastica, V 23-24]

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