martedì 11 gennaio 2011

Quel che dobbiamo a san Benedetto / prima parte

Si è detto che i Padri del deserto, i nostri antichi nella vita monastica, erano uomini ubriachi di Dio. In un certo senso è possibile dire questo, a condizione di purificare il termine da ogni romanticismo. È vero che avevano fame e sete di assoluto. Essi furono soprattutto dei cristiani generosi e integri. Quando hanno visto che il cristianesimo, grazie alla conversione dell’imperatore Costantino, diventava la religione ufficiale e che non era più pericoloso essere cristiani, addirittura che diventava facile se non vantaggioso appartenere alla religione dell’imperatore, questi uomini – che nulla poteva trattenere, abituati com’erano a respirare il caldo odore dei martiri – si volsero ai deserti d’Egitto e della Tebaide per dedicarsi a una vita eroica fatta di preghiera, digiuno e penitenza.
Lo slancio irresistibile di questi uomini del desiderio, partiti alla ricerca di un Dio che sfugge alla vita facile, è l’avvenimento fondatore della vita monastica. Se sono scappati alla città terrestre, ciò non significa affatto che fossero nemici dei loro fratelli, ma aspiravano alla vita ardente della Chiesa primitiva che era loro offerta, in tutta la sua purezza, dal Vangelo, con la sua felicità, la sua speranza del Cielo, il suo spirito d’infanzia, la sua precarietà. Tutto questo lo ritrovavano nell’asprezza del combattimento spirituale, alla ricerca di un volto che si affaccia nell’oscurità della notte, la cui bellezza inesprimibile fa impallidire tutte le bellezze terrestri.
Non possiamo pensare a questi avventurieri di Dio senza nutrire nei loro confronti un sentimento di gratitudine: furono le nostre prime guide nella traversata del deserto; il loro candore nascondeva il loro eroismo e sotto il loro umorismo si celava una profonda sapienza. Leggendo gli apophtegmi ci si accorge di quanto la loro semplicità esorcizzi le nostre complicazioni e ce li renda vicini. Ma questa vita religiosa nell’infanzia non ebbe che un tempo: l’infanzia, come l’eroismo, non è fatta per durare. Le illusioni, l’individualismo, l’assenza di Regola, offrirono agli asceti un percorso disseminato di trappole in cui molti caddero.

La sete di Dio

Duecento anni più tardi, Dio suscitò san Benedetto da Norcia. Quel che anzitutto dobbiamo al nostro grande Patriarca è di averci trasmesso l’eredità di quegli eccellenti uomini che furono i Padri del deserto. Prima di essere il sapiente che compone una Regola, san Benedetto è stato l’eremita assetato desiderante di piacere a Dio soltanto. Per gli innumerevoli discepoli che lo seguiranno fino alla fine dei tempi, san Benedetto ha assunto in sé stesso lo slancio verso Dio dei primi anacoreti, ma ne ha disciplinato la sete, ordinato il cammino, interiorizzato l’ascesi. Senza di lui, l’esperienza dei primi monaci si sarebbe persa nelle sabbie. Egli ha separato il grano dalla zizzania, trattenuto ciò che è meglio e lo ha salvato mediante l’eccellenza della Regola. Noi gli siamo debitori di avere trasmesso la suprema sapienza di quei candidi eroi – «quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero?» – e di avercene consegnato il segreto con dolcezza, come un padre divide i suoi beni tra i suoi figli. Profondo conoscitore del cuore umano, scorgendo per intuizione che la sete di Dio sarà il motivo profondo di ogni tentativo religioso fino alla fine dei tempi, san Benedetto andò a farne il criterio essenziale mediante il quale si certifica una vocazione: si vedrà, dice, se il postulante cerca veramente Dio, si revera Deum quaerit. Si potrebbe altrimenti dire: si avrà cura di vedere se è davvero Dio che egli cerca, o se non sia qualcos’altro, come un’idea personale, un’evasione o una fuga. Vi è una tale riserva di vanità nel cuore umano, una tale propensione all’errore!
Sin da Platone, ma ben prima di lui, un quesito immenso attraversa la storia umana: «Esiste, al di là delle apparenze, una vita vera e una vera felicità?». Il destino degli esseri non è comprensibile se non sappiamo che l’uomo è stato creato in uno stato di tensione e di desiderio verso il suo fine. La bellezza assoluta attrae e fugge dallo sguardo degli uomini, una pienezza intuita, percepita, mai raggiunta, ci avverte che la terra è un luogo di passaggio, che il tempo è incapace di darci altro – con l’aiuto di Dio – che il pane quotidiano. Noi siamo condannati per sempre all’esilio, lontani dalla Patria, abbandonati ai poveri amori di quaggiù. E questi spinti al limite, sappiamo che sfociano sempre in una follia omicida.
«Cercare Dio», nello spirito di san Benedetto, significa quindi al contempo entrare nello spessore delle volontà divine e gettarsi in un oceano di felicità piena di alleluia, perché la felicità dell’uomo è la stessa cosa che la sua legge, la sua verità, il suo fine. Il genio del nostro grande santo fu di avere spinto l’uomo nella direzione di ciò che egli desidera nel più profondo di sé stesso senza saperlo e di avergli rivelato il significato delle sue aspirazioni. Cercare Dio, non come i ciechi sul bordo di un precipizio, ma come dei bambini che cercano al tatto il volto di un Padre amato che lo splendore delle cose terrestri rivela loro e a loro dissimula. Ecco perché questa domanda interviene d’un tratto nel prologo della Regola: «Chi è l’uomo che vuole la vita e arde dal desiderio di vedere giorni felici?».

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Ce que nous devons à saint Benoît, in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome II, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2010, pp. 527-541 (qui pp. 527-530), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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