martedì 4 gennaio 2011

Una liturgia continua in presenza di Dio

Volgiamoci a sottolineare un altro tratto derivante dall’antichità cristiana: il gusto della bellezza, inseparabile, a nostro avviso, dallo zelo per la verità dottrinale. La bellezza determina il vero. Si tradisce più spesso la verità dei dogmi per l’affievolirsi del gusto, piuttosto che per puri errori dello spirito. È una delle conseguenze della nostra condizione umana, dotata di una sensibilità con radici nel mondo visibile. Platone ha detto che il bello è lo splendore del vero; per un suo recupero la bellezza si fa guardiana dell’ordine da cui essa proviene. È per questo che i nostri padri l’hanno amata [1]. D’altronde come meravigliarsi che gli scrittori sacri dell’Antico e del Nuovo Testamento abbiano riversato nel loro pensiero espressioni dense di così grande bellezza, a cominciare dal Signore stesso. Si pensi anche ai Padri della Chiesa e agli scrittori mistici; tutti i testi liturgici obbediscono a questa grande legge, perché è la legge della Creazione, il linguaggio stesso di Dio, il libro dove Egli si lascia decifrare, il suo abito di luce: «Deus amictus lumine sicut vestimento» [2].
Posando il suo sguardo su ciò che è bello, l’uomo è in grado di leggerne la provenienza divina. Così osservava il filosofo Henri Bergson in Pensiero e movimento: «Per chi contempla l’universo con occhi d’artista, è la Grazia che si lega attraverso la Bellezza, ed è la Bontà che traspare sotto la grazia. Ogni cosa manifesta, nell’evoluzione che registra la sua forma, la generosità infinita di un principio che si dona. E non a torto si chiama con lo stesso termine il fascino che si vede proveniente dal movimento e l’atto di liberalità che è la caratteristica della bontà divina».
Nel libro dell’Ecclesiaste si trova un elogio di coloro che hanno presieduto ai destini del popolo eletto. Ecco cosa vi si legge: «Facciamo ora l’elogio degli uomini illustri, dei padri nostri nelle loro generazioni. […] Inventori di melodie musicali e compositori di canti poetici […] che vivevano in pace nelle loro dimore» (Sir 44,1-6), «pulchritudinis studium habentes, pacificantes in domibus suis».
In questo testo, letto per il primo notturno delle vigilie dell’Ufficio benedettino del 13 novembre, festa di tutti i santi dell’Ordine, i discepoli di san Benedetto hanno riconosciuto i loro padri; hanno percepito che la bellezza delle preghiere della Chiesa li obbligava a vivere a un certo livello.
Un giorno abbiamo sentito un giovane professo confessare al suo Padre Priore che senza lo splendore dell’Ufficio divino, che gli si faceva scoprire nel corso del suo noviziato, non avrebbe perseverato. L’influenza dolce e regolare della liturgia sullo svolgersi delle giornate, crea un’atmosfera nella quale una certa compostezza dell’anima e del corpo, una sorridente gravità, un senso armonioso del minimo gesto, un certo modo di vestire, di parlare, d’inchinarsi, finiscono per fare di ogni esistenza una liturgia continua in presenza di Dio. Paul Claudel, fedele alla sua oblazione benedettina, ha saputo tradurre questo sentimento in una pagina mirabile: «Come sarebbe bello se tutti gli uomini avessero coscienza di ciò che fanno insieme, sotto lo sguardo di qualcuno che li scruta attentamente, dell’aiuto che si danno vicendevolmente, della cerimonia alla quale cooperano, dell’immensa offerta che costituisce la sola elevazione dei loro sguardi verso il cielo, della comunicazione amorevole che hanno tra loro! C’è qualcosa di tutto questo nella vita benedettina. La vita del monaco non è solo la salmodia in coro, il dedicare ogni porzione di tempo alla lode al Creatore; è la vita stessa, banale e quotidiana, lo svegliarsi, il giardino, il lavoro, il pasto in comune quasi altrettanto solenne quanto la Messa; la pulizia degli abiti, l’accendere una lampada, sono grandi simboli; il malato che si cura, il visitatore che suona alla porta. Se gli uomini avessero un po’ più di coscienza di ciò che fanno tutti, ciascuno e insieme, sentirebbero di essere come in chiesa, di non potere mancare al coro. Come si amano tutti senza saperlo e come sarebbe bello se lo sapessero! Ciò che fanno senza sapere, vorrei che lo facessero sapendolo. Così non esisterebbe più niente di profano, tutto sarebbe santo, tutto sarebbe consacrato a Dio» [3].

[1] «Non bisogna illudersi che la verità possa comunicarsi con frutto, senza lo splendore che le è connaturale e che chiamiamo il bello; senza che siano affermate, almeno nell’arte dello scrivere e dell’esporre il pensiero, questa libertà e questa novità delle anime alle quali Dio confida, per mezzo della sua grazia, il seguito della sua azione in questo mondo temporale. Di conseguenza il bello è inseparabile dal vero. Ne è lo splendore, il fiore sensibile e intellettuale del bene. È la chiarezza dell’essere. Per un cristiano non può essere un gioco, un divertimento. Se si distingue dal vero e dal bene, è come un raggio che si distingue dal faro che lo invia» (Henri Charlier, L’art et la pensée, p. 38 e p. 89).
[2] «Il Signore» è «avvolto di luce come di un manto» (Sal 103,2).
[3] Paul Claudel, Conversations dans le Loir et Cher, p. 102.


[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le goût de la beauté, in Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome I, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 247-250, trad. it. delle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo]

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