giovedì 5 novembre 2009

L’equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola / ultima parte

Senza dubbio vi sono degli elementi caduci nella Regola. Talune cortecce cadono, la linfa rimane…
Il giovane citato in precedenza si è mostrato scioccato dalle prescrizioni riguardanti le punizioni corporali. Ho concesso che non siamo più nel secolo VI e che immagino a fatica l’uso delle discipline in un monastero contemporaneo.
Ma si può parlare senza arrossire — o senza ridere — di un autentico addolcimento dei costumi? La nostra epoca — quella dei figli viziati, dell’assistenza generalizzata, della «comprensione» ammorbidita della giustizia penale, ecc. — non è anche quella degli aborti in serie, dei genocidi di massa, dei campi di concentramento e di morte, del terrorismo politico, della tortura scientifica? Che peso hanno le povere vergini di san Benedetto comparate a un tale diluvio di orrori? Un po’ di pudore non guasterebbe. La peggior forma d’ipocrisia è usare la trave nel nostro occhio come una lente d’ingrandimento per esagerare le dimensioni delle pagliuzze che offuscavano lo sguardo dei nostri antenati. Riflesso infantile d’autodifesa e d’autogiustificazione tramite il quale il nostro tempo si dà una buona coscienza conciliando, al prezzo di una menzogna, la propria fede nel progresso e la propria regressione verso la barbarie…
L’equilibrio in altitudine. Più il fine dell’ascesa è elevato, più va prestata attenzione alle leggi della pesantezza. Il pericolo di caduta è diversamente grave per l’alpinista e per il camminatore di pianura.
Le minuzie della Regola assicurano questo equilibrio, senza il quale ci si espone al rischio di cadere ai primi gradini, o a non salire che in sogno. Un tempo ho detto che solo l’infinito ci dà la chiave della misura. Si può girare la proposizione e affermare che la misura ci dà la chiave dell’infinito. La regola emana dal confluire di queste due evidenze: essa ci vaccina contro la tentazione della dismisura, quel falso infinito odiato dei Greci che Maurras qualificava come osceno, e che tradisce sia la terra sia il cielo.
Il termine del viaggio è in cielo; la rotta è sulla terra e l’uomo vi sale con tutto il suo peso. La Regola traccia e consolida la via stretta che conduce alla Patria senza frontiere. Essa non sopprime la pesantezza: ne previene gli effetti negativi legandola all’attrazione dell’imponderabile divino.
È per questo capolavoro di armonia fra le leggi della natura e il mistero della grazia che san Benedetto rimane, al di là e all’interno di tutti i secoli, una delle guide supreme dell’umanità in cammino verso la salvezza.
Nel quinto centenario della sua nascita e in un mondo già raggiunto e minacciato nel suo insieme da una nuova barbarie più impietosa di quella dell’Alto Medioevo, l’immagine tutelare del Patriarca e del suo gregge emerge come la visione dell’Arca sulle acque del diluvio. Mi tornano alla mente i versi che gli dedicava all’inizio del secolo XX il poeta Le Cardonnel:

Tu regardes les flots échappés de ton urne
Aux horizons lointains de l’esapce et du temps
Miséricordieux, sévère et taciturne.

Orizzonti dove lo spazio confina con l’infinito e il tempo con l’eternità.

[Gustave Thibon (1903-2001), L'équilibre dans l'altitude. Méditations sur la Règle, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 71-77 (qui pp. 76-77), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 6 / fine]


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