mercoledì 14 ottobre 2009

L’equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola / quarta parte

In un senso ancor più profondo, la Regola c’insegna l’uso armonioso del tempo, cosa pressoché completamente dimenticata dal nostro mondo d’idolatria del temporale.
Il tempo, riflesso del movimento circolare degli astri, «immagine mobile dell’eternità immobile», ha per essenza il ritmo; è continuo e irreversibile, ma riconduce senza fine i medesimi fenomeni — giorni e stagioni, ascese e declini, vita e morte, ecc. — nella sua gravitazione attorno al medesimo centro. «Il ritmo è la palpitazione dell’eterno nella durata», afferma un romanticista tedesco. De-ritmare il tempo — sia stiracchiandolo per l’ozio e la noia, sia colpendolo con il trambusto e il superlavoro — è commettere un peccato contro l’eterno, di cui è immagine e percorso. E perdere il proprio tempo è già perdere la propria anima.
In questo la Regola è un capolavoro d’adattamento del tempo dell’uomo al tempo di Dio. Per essa ogni ora è l’ora del Signore. Come diceva Simone Weil, essa ha per effetto «di rendere più sensibile il carattere circolare del tempo», cioè d’impregnare senza fine il presente d’eternità, ogni punto della circonferenza rimanendo ugualmente sottomesso all’attrazione del centro. Il monaco perfetto vive nella redenzione perpetua dell’effimero da parte dell’eterno.
Monotonia, uniformità, diranno le menti viziate dalla febbre del secolo, per la quale l’immagine del cerchio evoca quella della prigione. Ciò significa dimenticare che il ritmo non assume mai l’identico, ma il simile, che è zampillio permanente e non ripetizione meccanica. Vi è uniformità nel volo circolare dell’aquila, nell’ondulazione delle onde del mare, nel fruscio delle foglie al vento, nella successione delle primavere? Nulla in natura è la riproduzione assoluta di quanto lo ha preceduto; tutto assomiglia a ciò che è stato e tutto è «ciò che mai si vedrà due volte». Non vi è monotonia in Dio né nell’opera di Dio. Ciò che è monotono, rimasticato, che gira in tondo — ma non nello stesso cerchio: in quello di una gravitazione senza stella — è il prurito della novità a ogni costo, è la moda che dipinge sui muri del tempo, vissuti come una prigione, delle false finestre per un’evasione illusoria.
Ma il tempo non è solo l’immagine dell’eterno: ne è anche la prova. San Benedetto sottolinea il fatto tragico che noi non abbiamo se non questa vita per realizzare la nostra salvezza, e ognuno dei nostri passi sulla terra lascia un’impronta indelebile nel mondo in cui nulla cambia: «finche c’è tempo e siamo in questo corpo e abbiamo la possibilità di compiere tutte queste buone azioni, dobbiamo correre e operare adesso quanto ci sarà utile per l’eternità». In altre parole, tutto ciò che non è semente d’eternità è una perdita di tempo. Di fronte alla cronolatria moderna che altro non è se non la prostituzione del tempo a sé stessa, è possibile dare al tempo un più profondo omaggio che scorgervi, a seconda dell’impiego che ne facciamo, l’ostetrica o l’abortista di un’anima immortale?
[Gustave Thibon (1903-2001), L'équilibre dans l'altitude. Méditations sur la Règle, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 71-77 (qui pp. 73-75), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 4 / segue]

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