Domani, festa di Pasqua. Commemorazione del mistero supremo del destino umano: Cristo è risorto e ci chiama con lui alla vita eterna. Da venti secoli, tanti commentari e sermoni, la cui banalità e ridondanza degradano questo mistero. Il verbalismo ha fatto seguito al Verbo, il chiacchiericcio alle lingue di fuoco che discesero sugli apostoli. Come osare ancora parlarne? Come restituire alle parole l'innocenza del loro significato originale?
I teologi parlano di mistero rivelato. La vera rivelazione si riconosce dal fatto che essa approfondisce in noi il mistero, anziché dissiparlo: Dio diventa per noi, al contempo, via via più interiore e più sconosciuto.
Qualcuno mi parlò un giorno di quel delirio antropocentrico che ci fa immaginare Dio, creatore di tutti i mondi, il quale si sarebbe abbassato fino a sposare la vita e la morte dell'uomo, granello di polvere perso nell'immensità del cosmo, schiavo della necessità per sua natura e vittima della sorte nel suo destino. Di fatto, mi diceva, noi siamo disperatamente soli in un universo indifferente. Ciò che mi ha ricordato i versi di un poeta del secolo XIX:
[...] che si preghi o si bestemmi
La Materia nella sua stupidità si muove,
L'orribile solitudine non è mai la stessa,
E l'uomo solo risponde all'uomo spaventato.
Ho risposto che Simone Weil ha osservato giustamente che "un ordine superiore entro un ordine inferiore si presenta sempre sotto forma di un infinitesimale". Alcuni esempi: cosa pesa la moltitudine degli esseri viventi in rapporto alla massa della materia inanimata?; oppure, quale posto occupa l'uomo - dotato di coscienza, specchio del mondo e di sé stesso - fra le migliaia di specie animali? Più ancora, la coscienza, questo tragico privilegio, ha per prezzo del riscatto la fragilità, la dipendenza nei confronti degli ordini inferiori: il pensiero è più minacciato della vita, e quella che noi chiamiamo la nostra anima è sottomessa a innumerevoli condizionamenti biologici; si può certamente respirare senza pensare, ma non si può pensare senza respirare. Confondendo la causa e la condizione, i "riduzionisti" di ogni marca non vedono nell'anima che il riflesso inetto dei giochi della materia. "Abbiate molta cura del vostro corpo - mi scriveva la stessa persona quand'ero malato - per conservare a lungo l'illusione di avere un'anima".
Tuttavia, denunciare un'illusione implica già il presentimento di una verità, e per ridurre tutto alla materia bisogna essere al di là della materia. Argomento irrefutabile di Aristotele: "Non vi è nulla nello spirito che non sia stato anzitutto nei sensi, se non lo spirito lui stesso". La filosofia dell'assurdo e il pessimismo che ne deriva recano in sé stessi la propria confutazione. "Dire che la vita non vale nulla - scriveva Simone Weil - e offrire quale prova il male è assurdo, perché se non vale nulla, di cosa la priverebbe il male?".
Il sentimento di privazione attesta l'esistenza del bene di cui siamo privati. Morire di sete non prova nulla contro la realtà dell'acqua. O la sete essenziale dell'uomo è quella di un Bene illimitato e senza rovescio, sconosciuto quaggiù. Il mistero della risurrezione di Cristo risponde a questo appello del finito all'infinito, dell'imperfetto all'impossibile. Alla luce di questo mistero scompare l'insolubile problema del male: come può permettere il male un Essere infinitamente buono e infinitamente potente? Gesù risorto ha fatto del male uno strumento del Bene superiore, irriducibile al bene smarrito. Ciò che la liturgia traduce in termini inammissibili sul piano strettamente teologico: "Felice colpa! Davvero era necessario il peccato di Adamo". E ancora: "Tu che hai creato meravigliosamente la natura umana, e che l'hai riparata più meravigliosamente ancora". Rimedio che deriva dalla metamorfosi più che dalla rimessa a nuovo. Se l'uomo si è sfigurato con il peccato, è trasfigurato dalla grazia. Creato nell'Eden, rinascerà in Cielo. La sua caduta è il preludio della sua ascensione. Dice un Padre della Chiesa: "Ritornare a Dio è più divino che essere usciti da Dio". Questo ritorno a Dio passa dalla sofferenza e dalla morte; il Venerdì Santo precede il mattino di Pasqua. Ad Deum per crucem. Ma le tracce del peccato restano così vive nelle nostre anime che la nostalgia dell'Eden vela la speranza del Cielo. Tutte le mitologie del progresso poggiano sul postulato di un miglioramento indefinito della specie umana che permetterà la riapertura di quei "luoghi di delizia" da cui furono cacciati i nostri progenitori. Ma le promesse divine non sono date, nella loro pienezza, che al di là del tempo e della morte. Tale è la prova della virtù della speranza. Come già diceva Eraclito: "Colui che non spera non incontrerà l'insperato". Altresì, è il grido dell'apostolo: "Saldo nella speranza contro ogni speranza" (Rm 4,18).
[Gustave Thibon (1903-2001), testo inedito del 1996 riprodotto in Les amis du monastère, n. 98, 1° maggio 2001, pp. 1-2, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]