Non ho né il tempo né la forza, e nemmeno — ahimé — l’esperienza sufficiente per commentare degnamente la Regola del santo patriarca. Vi apporto tuttalpiù alcune riflessioni sparse, uscite da una rilettura attenta del grande testo di san Benedetto, e questa testimonianza di un uomo del secolo XX — talora accusato di non essere abbastanza del suo tempo, ma che a suo avviso lo è sin troppo — dev’essere intesa come un omaggio lontano e nostalgico a tutto ciò che nella Regola risponde ai bisogni profondi dell’uomo eterno e, singolarmente, dell’uomo d’oggi.
Sono consapevole di parlare di ciò che mi manca. Poco importa, posto che ciò che manca sia riconosciuto e provato come tale. La ferita di un’assenza è ancora una presenza. E il contrasto con ciò che siamo affina, se rifiutiamo di mentire a noi stessi, la percezione di ciò che dovremmo essere. Un Balzac, un Hugo, dei quali è nota la vita avventurosa, non hanno forse sentito come nessun altro il prezzo della castità che tradivano con la loro condotta? «La verginità, madre di grandi cose, tiene nelle sue mani bianche la chiave dei mondi superiori», scrive il primo. E il secondo canta:
Hélas ! Faux désirs, fausses flammes ;
L’esprit par la chair se corrompt.
Quand nous n’aurons plus que des âmes
Comme les âmes s’aimeront !
O è necessario evocare Nietzsche — filosofo dell’esplosione e «frantumatore delle antiche tavole» —, che spinge il paradosso fino a questa confessione: «farsi avvocati della regola, sarà domani l’ultima forma di grandezza». La profezia si è compiuta: questo domani è il nostro oggi, e le servitù senza nome e senza numero che sono nate dalla sregolatezza ci fanno sospirare verso la regola come al vertice della libertà.
[Gustave Thibon (1903-2001), L'équilibre dans l'altitude. Méditations sur la Règle, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 71-77 (qui pp. 71-72), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 1 / segue]