Fra Mario Rusconi, fratello anziano della Comunità degli Eremiti della Beata Vergine del Soccorso |
Naturalmente questa pratica di vita dei cenobiti
ed eremiti egiziani, che pregano incessantemente senza Ore di ufficio, viene
considerato un rigore eccessivo ed inimitabile da monaci delle generazioni
successive e anche da monaci contemporanei in altre zone geografiche. In ogni
caso anche questi altri monaci tengano presente che il “Pregate incessantemente”
deve essere il movente ispiratore dell’ufficio, anche là dove si celebra
mediante le Ore, e che le Ore non sono altro che una sorta di pilone di ponte
che passa dalla debolezza umana al compimento dell’invito di Cristo alla
preghiera continua.
Abbiamo capito che nella tradizione monastica
questo modo di concepire l’invito di Cristo e di tradurlo in atto è tipicamente
della cultura monastica, non è qualcosa che sia corrente tra i cristiani laici,
fuori dell’area dei monaci. Invece nell’ultima Cena, quando Cristo ha offerto
la propria carne e il proprio sangue e dice: “Fate questo in memoria di me” – cioè, continuerete a mangiare
questo pane e bere questo vino nei secoli, e lo farete in memoria di me –
questo suo invito viene in qualche modo assorbito e inglobato nella
celebrazione eucaristica all’interno della Chiesa, e ha assunto un aspetto
istituzionale per tutti i cristiani. La preghiera delle Ore rimane qualcosa che
riguarda la cultura monastica e coloro che vogliono avvicinarsi a questa
cultura, ma all’inizio non era mai gestita, almeno come i monaci l’hanno
intesa, dalla Chiesa.
La preghiera monastica è quindi qualcosa di
profondamente privato, particolare e carismatico; e per me è un punto
importante, perché il mio interesse personale per la spiritualità monastica
rappresenta la ricerca di un modo per vivere il rapporto personale con Dio, che
sia mio rapporto personale, oppure quello di un’altra persona, il che
corrisponde alla tradizione monastica. Il senso dell’ufficio divino è che è il
suo spirito originale sostiene la spiritualità anche del singolo laico che vive
nel mondo, perché dà la possibilità di un rapporto più personale con Dio,
essendo semplicemente un modo per rispondere all’invito di Cristo. Da una parte
abbiamo in chiesa la celebrazione di un culto pubblico, e dall’altra ci sono
degli uomini e delle donne consacrati a Dio, i monaci e le monache, i quali
attraverso un loro sistema comunitario, una educazione in funzione di Dio, per
la quale giorno per giorno scoprono come rispondere all’invito di Cristo. Parliamo
ancora del monachesimo primitivo, perché è ciò che sta dietro alla Regola di San Benedetto, tuttavia, la
situazione durante i secoli successivi si è molto evoluta.
I monaci di San Benedetto, coloro che per primi
osservano la Regola , sono
soprattutto persone che cercano di pregare senza sosta attraverso l’ufficio
divino, e questo nel mondo monastico non ha di per sé un’opposizione con le
altre attività; i monaci pregano in determinate ore, ma in realtà il monaco non
è diviso nel suo tempo tra un’attività e l’altra, tra l’ufficio divino e il
lavoro, tra l’ufficio e il pasto, tra l’ufficio e lo studio, perché il mondo in
cui egli vive è profondamente omogeneo. Durante l’ufficio celebra Dio
attraverso i salmi e la propria preghiera, e i salmi e la Sacra Scrittura in
generale sono l’oggetto del suo studio durante la lectio divina, sono anche la lettura che egli ascolta durante i
pasti, e ciò che pensa e medita durante il lavoro. In realtà, quindi, queste
ore di ufficio sono i momenti alti di un’attività legata alla Scrittura che
dura per tutta la giornata, e che occupa tutto il suo tempo. Essa collega le
attività della giornata senza interruzione e discontinuità. Tutto il tempo è
preghiera, e tutto il tempo del monaco è dedicato a Dio attraverso la sua
parola.
C’è anche un antico costume monastico dell’Egitto,
patria più prestigiosa della grande cultura ascetica, un costume che non valeva
più ai tempi di San Benedetto, di pregare e lavorare in modo più integrato di
quanto la Regola di San Benedetto e le altre regole
monastiche contemporanee e successive prevedano: il monaco lavorava, in genere
intrecciando canestri, un lavoro abbastanza semplice, e poteva pregare
ininterrottamente, e quando andava in chiesa per le veglie notturne, poteva
continuare a lavorare. Era un modo di fare forse tipicamente orientale, che poi
in occidente, per motivi culturali e anche per i nostri limiti culturali, non
era possibile praticare; ma nel mondo primitivo del deserto, relativamente
semplice, aperto al massimo delle possibilità, i monaci durante le ore di
preghiera notturna potevano pregare, recitare i salmi e intanto lavorare, in
chiesa, oppure fuori all’aperto. C’era una specie di simbiosi a più livelli per
questi uomini estremamente purificati spiritualmente in tutte le loro attività.
Tuttavia questa è un’età aurea che si spezza, e
non è poi una visione delle cose condivisa da tutti. Per esempio Agostino negli
stessi anni, quando è vescovo d’Ippona all’alba del V secolo, ai suoi monaci
proibisce assolutamente di lavorare, perché teme le contaminazioni mondane
dentro la Chiesa ,
e vuole dare a tutto l’ufficio un aspetto molto più sacro e ieratico,
influenzato da una visione più clericale e meno monastico e ascetico rispetto
agli egiziani.
Se abbiamo parlato fino adesso del senso
spirituale anteriore dell’ufficio, senso ancora forte nel Maestro e in
Benedetto, veniamo ora a parlare in particolare della salmodia. In che cosa
consiste la salmodia? Anticamente l’ufficio era composto da salmi che venivano
alternati ad orazioni. L’ufficio non era soltanto la recita vocale di salmi, ma
dopo ogni salmo si fermava, si rispettava un attimo di silenzio e si pregava
interiormente, ciascuno rispondendo dentro di sé alla parola di Dio. Non era
una semplice recitazione ininterrotta dei salmi.
A cominciare da Cassiano si parla e si scrive
esplicitamente di questo momento di silenzio dopo la recita di ciascun salmo;
il Maestro, Cesario di Arles, un contemporaneo di San Benedetto, e anche un suo
successore, il monaco irlandese Colombano, prescrivono ai loro monaci di
rispettare questo momento di silenzio dopo ogni salmo. È una tradizione
esistente, avvalorata, nel mondo monastico; San Benedetto, quando enumera i
salmi da recitare nelle diverse occasioni, non ne parla, però è importante. Non
possiamo scollegarlo dal discorso sulla preghiera incessante che abbiamo fatto:
se l’ufficio delle Ore rispecchia l’invito di Cristo alla preghiera incessante,
l’ufficio divino è articolato sulle due basi, sulla recita del salmo e anche
sulla silenziosa risposta al salmo. E questo, perché abbiamo sottolineato che
la preghiera monastica è qualcosa di personale, di carismatico, qualcosa che
viene dall’io profondo, che non può essere semplicemente la gestione di una
pratica, di un rito che viene ingiunto dall’esterno ma dev’essere un’espressione
corale, composta, di qualcosa che scaturisce dall’interno, qualcosa di libero,
di personale, che traccia il rapporto personale con Dio.
Intorno alla terza generazione della tradizione
di regole monastiche, al periodo di San Benedetto e dei suoi contemporanei,
questa orazione comincia a scomparire dai testi, un fatto sorprendente, data la
sua importanza; tuttavia i motivi per questa scomparsa possono essere molti.
Secondo l’interpretazione del padre de Vogüé, uno dei massimi studiosi della Regola di San Benedetto e delle antiche
regole monastiche, il breve Capitolo 20 della RB sulla riverenza nella preghiera si riferisce piuttosto alla
preghiera personale del monaco, che San Benedetto ricorda deve esistere, anche
se non la inserisce esplicitamente all’interno del suo trattamento dell’ufficio.
Dice San Benedetto:
“Quando ci rivolgiamo a persone autorevoli per ottenere qualcosa, osiamo
farlo soltanto con atteggiamento umile e rispettoso. A maggior ragione non
dobbiamo forse elevare con tutta umiltà e sincera devozione la nostra supplica
a Dio, Signore dell’universo? E rendiamoci inoltre ben consapevoli che non
saremo da lui esauditi per le nostre molte parole, ma per la purezza del nostro
cuore e la compunzione fino alla lacrime. Breve e pura sia dunque la nostra
preghiera, a meno che, sotto l’ispirazione della grazia divina, un particolare
fervore ne sostenga la durata. La preghiera fatta comunitariamente però sia
assolutamente breve, e, al segno di chi presiede, i fratelli si alzino tutti insieme”
(RB 20).
[Da una conferenza del 13 novembre 2000 della dr.ssa Mariella Carpinello; testo tratto dal sito Internet della Conferenza Italiana Monastica Benedettine (CIMB) www.benedettineitaliane.org / 2 - continua]