[L’ultimo numero della rivista internazionale 30Giorni dedica un reportage di quindici pagine (anno XXIX, n. 11,
dicembre 2011, pp. 31-45) ‒ a firma di Giovanni
Ricciardi, e con un ampio servizio fotografico di Massimo Quattrucci ‒ all’abbazia benedettina Sainte-Madeleine di Le Barroux, che trascriviamo
integralmente]
All'alba, i monaci di Le Barroux cantano l'Ufficio delle Lodi (fotografia di Massimo Quattrucci) |
«La liturgia tradizionale è più ricca di segni che ci ricordano da dove
proviene la fede, e ci insegna che noi non siamo più grandi dei nostri Padri,
ma trasmettiamo solamente ciò che abbiamo ricevuto».
A
Le Barroux, vicino Avignone, da quarant’anni la comunità benedettina fondata da
dom Gérard Calvet fiorisce nel segno della stretta osservanza della Regola e
dell’amore all’antica tradizione liturgica della Chiesa
Dalle finestre del monastero di Le Barroux il cielo di Provenza è una
bandiera celeste tesa al vento. Il mistral lo batte a volte con
violenza: in certe giornate d’inverno sulle montagne vicine può soffiare fino a
trecento chilometri all’ora. Gli ulivi e le vigne non sembrano soffrirne, ma la
vegetazione è per lo più bassa, macchia mediterranea, si direbbe, a parte i
cipressi, messi ad arte a ricordare che da queste mura si guarda verso l’alto.
Sotto il cielo, come un cono regolare, si erge la massa scura del Mont Ventoux.
È qui che il Venerdì Santo del 1336 Francesco Petrarca compì col fratello
Gherardo la sua celebre “ascesa”, descritta in una lettera all’amico
agostiniano Dionigi di Borgo San Sepolcro, che lo aveva iniziato alla lettura
delle Confessioni. Al termine della scalata, il poeta lesse a caso al
fratello un passo del libro X, in cui Agostino scrive: «Vanno gli uomini ad
ammirare le vette dei monti, le grandi onde del mare e le vaste correnti dei
fiumi, il circolo dell’oceano e le orbite degli astri, e non si curano di sé
stessi».
Petrarca, nella sua continua lotta fra l’amore delle cose terrene e la
nostalgia di quelle del cielo, invidiava a Gherardo, che era frate, quel
distacco, quella libertà che gli aveva permesso di salire in cima al monte
rapido e leggero, senza il peso che tratteneva in basso il poeta.
Una storia di fedeltà alla Tradizione
Proprio qui, quaranta anni fa, il 22 agosto del 1970, un altro Gherardo,
per l’esattezza Gérard Calvet, benedettino francese, giungeva in sella a un
motorino, con il suo corredo nel portapacchi, la benedizione dell’abate del
monastero da cui proveniva, e si stabiliva nella piccola cappella di Bédoin,
consacrata a santa Maria Maddalena. Negli anni turbolenti del postconcilio,
desiderava unicamente continuare la sua vita monastica senza dover sottostare a
quegli “esperimenti” di rinnovamento dottrinale o liturgico che gli sembravano
molto più poveri rispetto alla ricchezza «antica e sempre nuova» della
tradizione: preghiera, silenzio, lavoro manuale, funzioni in latino, liturgia
tradizionale.
Una scelta di solitudine, la sua, che durò pochissimo. Tre giorni dopo il
suo arrivo, a Bédoin si presentò un giovane per chiedere di essere accolto come
novizio. Dom Gérard, sorpreso e incerto sul da farsi, rispose che non avrebbe
saputo come accoglierlo, ma l’insistenza dell’altro ebbe la meglio. In capo a
otto anni si costituì una comunità di 11 monaci: la cappellina, col suo piccolo
priorato in rovina, prontamente restaurato, divenne perciò troppo angusta per
il nuovo cenobio. Ma la crescita della fondazione, favorita dall’abate di dom
Gérard, andava avanti.
L’attaccamento alla liturgia tradizionale in quegli anni si coniugò con una
naturale simpatia per le posizioni di monsignor Lefebvre, che nel luglio del
1974 procedette a celebrare le prime ordinazioni dei monaci. Questo fatto
suscitò la reazione dell’abate che inizialmente aveva favorito la scelta di dom
Gérard, ma che in quel momento gli ordinò di chiudere la sua esperienza
monastica. La comunità fu esclusa perciò dalla Congregazione dei Benedettini di
Subiaco.
Di fronte a questo aut aut, dom Gérard scelse la via spinosa di
continuare la fondazione, addolorato per lo strappo, ma persuaso in cuor suo
che l’amore alla secolare tradizione liturgica della Chiesa non potesse
trovarsi in contrasto col cuore della fede, con la fedeltà al Papa, e che Dio
avrebbe trovato una via per risolvere una situazione canonica divenuta
irregolare. Nel 1980 fu dato l’addio a Bédoin e venne posta la prima pietra del
nuovo monastero, nel comune di Le Barroux, tra il Mont Ventoux e le “Dentelles”
di Montmirail, una costruzione in stile neoromanico, nuda ed essenziale, che fu
completata in poco più di un decennio.
Nel frattempo, la frattura tra Lefebvre e la Chiesa si approfondiva, benché
dom Gérard continuasse a sperare in una ricomposizione. E così, quando nel 1988
Giovanni Paolo II con il motu proprio Ecclesia Dei venne incontro alle
richieste dei cattolici “tradizionalisti”, concedendo loro, sia pure a certe
condizioni, di celebrare secondo il rito preconciliare, per il monastero di Le
Barroux fu un giorno di festa. Ai suoi monaci dom Gérard aveva sempre detto che
se non avessero sofferto per la situazione canonicamente irrisolta del
monastero, voleva dire che non amavano davvero la Chiesa. E allorché monsignor
Lefebvre, non fidandosi delle offerte di Roma, procedette in quello stesso anno
a ordinare alcuni vescovi senza il consenso del Papa, inaugurando di fatto lo
scisma, il monastero scelse senza tentennamenti la fedeltà a Roma e la rottura
col movimento dell’arcivescovo francese. Dom Gérard pagò quest’attaccamento
alla Chiesa vedendosi rifiutato dalla fondazione monastica che nel frattempo Le
Barroux aveva avviato in Brasile, la quale preferì restare fedele alla “linea
dura” di Lefebvre.
L’anno seguente, il 2 ottobre del 1989, il cardinal Gagnon, accompagnato
dal vescovo di Avignone, consacrò solennemente la chiesa del monastero appena
terminata. Con questo gesto pubblico, si rendeva visibile la piena unità
dell’esperienza di Le Barroux con la Chiesa cattolica.
La vita quotidiana
Nella luce della campagna provenzale oggi il monastero sembra vivere una
vita lontana dai fragori delle lotte ecclesiali e delle cronache di quegli
anni. Le sue campane accompagnano la vita di un paese che nei primi tempi aveva
accolto con diffidenza e sospetto i nuovi venuti. I monaci si alzano nel cuore
della notte per recitare in coro il Mattutino, precedono l’alba nelle loro
celle per meditare la Scrittura e i testi dei Padri, si ritrovano alle sei
nella chiesa del monastero per il canto delle Lodi, poi quelli che tra loro
hanno ricevuto l’ordine sacro celebrano agli altari laterali la messa “letta”
in latino secondo il Messale romano promulgato nel 1962 da Giovanni XXIII.
Qualche fedele entra sfidando il freddo del mattino e s’inginocchia per seguire
la celebrazione nel più assoluto silenzio. Poi, tutti si avviano alle opere
della giornata.
Il monastero è praticamente autosufficiente. I 52 monaci (alcuni dei quali
molto giovani, l’età media è di 46 anni) che oggi costituiscono la comunità
(più altri 13 che ne hanno fondata una nuova nel sud-ovest della Francia) vivono
unicamente del proprio lavoro, secondo la tradizione benedettina. La terra del
monastero produce olio e vino, una panetteria assicura il fabbisogno della
comunità e vende biscotti, baguette e dolci alla gente del posto o ai
turisti. Da qualche anno il monastero ha aperto anche un frantoio che offre
alla comunità rurale il servizio di molitura delle olive, usando due mole di
pietra fatte venire appositamente dalla Toscana e mosse da macchine moderne.
Anche la tipografia lavora a pieno regime, non solo per stampare i messali con
il rito romano tradizionale, ma anche per soddisfare alle esigenze della
piccola casa editrice fondata da dom Gérard. La preghiera del Benedicite
apre i pasti, vegetariani e consumati in silenzio, con gli ospiti al centro del
refettorio, accolti solennemente dall’abate che li saluta lavando loro le mani
in segno di accoglienza. Un’accoglienza che prevede anche un ricovero notturno
per chi da queste parti non ha un tetto sotto il quale dormire. Nel tempo del
pranzo o della cena un monaco legge una lettura spirituale o a volte anche un
testo di storia o di carattere più genericamente culturale.
Non siamo più grandi dei nostri Padri
«La liturgia tradizionale è più ricca di segni che ci ricordano da dove
proviene la fede, e ci insegna che noi non siamo più grandi dei nostri Padri,
ma trasmettiamo solamente ciò che abbiamo ricevuto». Non c’è polemica nelle
parole del padre abate Louis-Marie, amico e discepolo di dom Gérard, che gli
lasciò il pastorale della comunità nel 2003 dimettendosi cinque anni prima
della propria morte. Del resto, l’esperienza della bellezza che proviene da
quella liturgia non è esclusivo appannaggio di questo monastero. Altri cenobi
adottano oggi in Francia questa forma di preghiera. Spiega ancora l’abate:
«Nella Francia secolarizzata, mi disse una volta un vescovo ucraino, sembra di
vedere un grande deserto spirituale, ma in questo deserto ci sono delle oasi
molto belle». Non soltanto a Le Barroux. Qualcosa si muove, senza più la
rigidità degli schemi di vent’anni fa. Il rapporto tra il monastero e la
diocesi di Avignone, in cui si trova la fondazione di dom Gérard, non è più
teso come un tempo. Il padre abate va ogni anno a concelebrare col vescovo la
messa crismale del Giovedì Santo, e molti sacerdoti della diocesi si sono
aperti a questa esperienza monastica favorendo dei ponti di comunicazione con
la Chiesa francese. Più in generale, ci dice padre Louis-Marie, «la gente
sembra attratta qui non solo ed esclusivamente perché vi si celebra secondo il
rito romano anteriore al Concilio, ma semplicemente per la bellezza della
preghiera monastica, per il canto gregoriano che qui viene eseguito, perché qui
la preghiera è vissuta e sentita nella profondità del silenzio, rivolti a Dio».
Ogni anno un centinaio di sacerdoti provenienti per lo più dalla Francia,
dall’Italia, dalla Germania, dalla Gran Bretagna e dall’Olanda, trascorrono a
Le Barroux alcuni giorni di ritiro, per parlare coi monaci o per imparare a
celebrare la messa secondo l’antico rituale. Il monastero conta circa trecento
oblati fra sacerdoti, laici e famiglie che fanno riferimento alla spiritualità
benedettina.
Le vocazioni che arrivano a Le Barroux, oggi al ritmo di due o tre
all’anno, hanno origini le più disparate. C’è un giovane monaco che proviene
dalla carriera militare, un altro che era ingegnere in Cina e ha conosciuto Le
Barroux attraverso il sito internet del monastero, un terzo che ha chiesto il
battesimo a vent’anni a un prete di Marsiglia e ha poi tentato la via della
vocazione in un ordine religioso che però gli era apparso poco “esigente”. E
allora quello stesso prete lo ha portato qui «perché uno degli aspetti che
attirano le persone in un posto come questo», spiega l’abate, «è una scelta
libera di radicalità evangelica». Libero e radicale sono i due aggettivi che
risuonano di più fra queste mura. Alcuni lefebvriani, non molti per la verità,
si accostano all’esperienza di Le Barroux come a un ponte per un ritorno alla
piena comunione con la Chiesa, ma anche perché, osserva l’abate, «nella Fraternità
San Pio X sentono di respirare a volte un’aria pesante, caratterizzata da ciò
che secondo loro si potrebbe chiamare un certo autoritarismo clericale».
È come se qui si componesse un equilibrio diverso, non fondato sul
compromesso, né sulla contrapposizione con altre realtà ecclesiali, ma
semplicemente sul ritorno alla Regola di san Benedetto come via per avvicinare
il cuore della vita cristiana. «In questi anni», aggiunge il padre abate,
«abbiamo potuto constatare che i monasteri che si sono presi la briga di
innovare e di rivoluzionare le forme della vita religiosa sono oggi quelli che
hanno meno vocazioni in Francia. Io credo che oltre al dinamismo e alla
vitalità che vedono in questa comunità giovane, un dono che abbiamo ereditato
dal nostro fondatore, i giovani siano attratti a Le Barroux proprio dalla
radicalità della scelta per Dio, oltre che dalla bellezza della liturgia che si
celebra qui. Ma non è tutto, in fondo non è questo l’essenziale. Io stesso
quando sono arrivato qui, e mi sono innamorato di questo luogo, a partire dal
suono delle campane, fino alla cura con cui è celebrato l’Ufficio divino, mi
sono subito reso conto che la vita monastica altro non è che un olocausto, un’offerta
totale di sé a Dio».
A sera, il suono delle campane richiama tutti al Vespro, il momento forse
più intimo e insieme solenne della liturgia comunitaria. Mentre la voce della
preghiera si diffonde nell’ora del crepuscolo, e l’ombra del crocifisso sopra
l’altare si allunga sulla parete di pietra nuda dell’abside, tutto appare
improvvisamente più chiaro. E si intendono le parole con cui l’abate conclude
questa sua riflessione sul fascino che esercita questo luogo: «Le cose che ho
detto sono reali, ma secondarie. L’attrattiva ultima di una vocazione è
semplicemente il buon Dio. È per questo che la vocazione, ogni vocazione resta
fondamentalmente un mistero».
[Invitiamo i lettori a dare uno sguardo al reportage impaginato e riccamente illustrato direttamente sul sito della rivista, dov’è inoltre possibile scaricare l’intero numero]