Ogni volta che cerco di parlare del
silenzio mi trovo inadeguata; mi accorgo che lo descrivo in modo sempre un po’
diverso, come cercando di avvicinarmi a esso per approssimazione, volendo
esprimere attraverso nuove immagini altre sfumature di questa realtà
indicibile, eppure eloquentissima. Non si riesce a “dire” il silenzio se non
vivendolo, facendone l’esperienza interiore. Del silenzio bisognerebbe, dunque,
parlare tacendo.
C’è in proposito un significativo detto dei Padri del deserto,
quegli antichi monaci che, vivendo davvero il silenzio, lo irradiavano attorno
a sé: «Tre padri avevano costume di andare ogni anno dal beato Antonio; due di
loro lo interrogavano sui pensieri e sulla salvezza dell’anima; il terzo invece
sempre taceva e non chiedeva nulla. Dopo lungo tempo, il padre Antonio gli
disse: “È tanto tempo ormai che vieni qui e non mi chiedi nulla”. Gli rispose:
“A me, padre, basta il solo vederti”» (n. 27; in Patrologia Graeca 65,84).
Ed è vero: c’è un modo di accostare gli altri, di accoglierli con lo
sguardo, con il sorriso, con il cuore, che comunica molto più del discorso vocale.
Tuttavia, è vero che nell’esistenza ordinaria anche il discorso sul silenzio ha
una sua importanza. Esso, in certo modo, prepara la strada per arrivare a quel
punto di pace e di grazia che è l’autentico silenzio interiore. Infatti per
l’uomo ferito dal peccato, in balìa delle sue passioni e per di più immerso in
una società rumorosa come la nostra, il silenzio non è più il “naturale”
respiro dell’anima: occorre conquistarlo o, meglio, lasciarsene conquistare;
occorre avvicinarsi a esso come Mosè al roveto ardente (Es 3-4).
[Anna Maria Cànopi O.S.B., in Luoghi dell'Infinito, n. 178, novembre 2013]