[Il 28 febbraio 2018 ricorrerà il decimo anniversario della morte di Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero Sainte-Madeleine di
Le Barroux. Iniziamo a ricordarlo offrendo di seguito la prima parte di Regard sur la Chrétienté (Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1982, qui pp. 11-17), ripresa in libretto del dialogo dell’inverno 1982 fra Bernard-Romain-Marie Antony e Dom Gérard, originalmente pubblicato nei nn. 99, 100 e 101 del quotidiano Présent. Trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]
Perché
i monaci?
Essenzialmente
per la preghiera. La preghiera non è un’attività umana fra altre. Essa è l’attitudine
essenziale mediante la quale l’uomo esprime la sua adorazione, la sua
dipendenza, il suo amore, la sua azione di grazie per Colui che è la bontà
infinita. Mi sembra che si parli troppo poco della bontà di Dio. È tuttavia
questa bontà infinita a deliziare il monaco.
Guardate
san Bruno: quando ha raggiunto il deserto delle certose, si è girato verso
questi orizzonti straordinari, esclamando: “O Bonitas”. Vedeva, leggeva la
bontà di Dio attraverso la sua bellezza. Ma se la creazione è un vestigio della
bontà di Dio, che dire allora quando si guarda il Crocifisso?
Nella
vostra ultima Lettre aux Amis du Monastère, parlate di tre fedeltà: “Fedeltà
alla Regola, fedeltà alla liturgia, fedeltà inoltre a quella carità amichevole
di cui gli antichi avevano il segreto, senza la quale è impensabile rifare una cristianità”.
La vita moderna, che distrae i nostri contemporanei dalla contemplazione, ne offre
loro come la nostalgia, ma ciò che non comprendono affatto, è la necessità di
una regola.
Ciò
nonostante la regola è presente ovunque. Non vi è che da guardarsi attorno. La
bellezza dell’universo deriva dalla sottomissione alle leggi che ne regolano l’armonia.
Guardate gli animali: sono sottomessi alla regola inflessibile dell’istinto;
guardate il cielo stellato, che esempio sontuoso di obbedienza alla regola! Gli
esseri umani che vogliono vivere in società sono pure essi ben costretti a
sottomettersi a una legge.
La
Regola di san Benedetto apporta un rimedio al peccato originale. Salva l’uomo
dall’istinto selvaggio, lo sottrae al capriccio; è la condizione della sua
libertà. È un miracolo di equilibrio, sovranamente adattato al bene dell’anima,
alla vita consacrata, alla ricerca di Dio. Di una meravigliosa flessibilità,
essa si adatta altrettanto bene agli occidentali e agli uomini di colore. Me ne
sono accorto quando ci hanno inviato a fondare un monastero in Brasile. Scritta
nel secolo VI, essa sembra scritta per i tempi moderni; permette ancora oggi
all’uomo di convertirsi, cioè di volgersi a Dio, nell’ambito di una famiglia di
fratelli, sotto il paterno governo dell’Abate.
Se
i sacerdoti volessero ispirarsene, essa potrebbe essere il rimedio più
appropriato alla crisi attuale del clero.
Al
giorno d’oggi si ammette volentieri che la Regola di san Benedetto è stato un
fattore importante di civilizzazione. Come ve lo spiegate?
La
santa Regola è stata il codice di vita dei primi evangelizzatori dell’Europa. Ha
dunque modellato il nostro Occidente cristiano, non come lo farebbe una teoria,
ma in quanto metodo educativo. E come in ogni metodo educativo, quando se ne
stravolgono alcuni elementi, l’educazione non è più ricevuta. Occorre dunque
rispettare l’integrità della Regola. Credo che per noi questa è stata una
grazia, il fatto di volerla osservare alla lettera, perché essa si rivela
perfettamente adatta ai giovani d’oggi.
Da
noi i giovani non hanno mai contestato la santa Regola; al contrario, ammirano
a quale punto essa sia umana, dolce, familiare. Péguy diceva che le regole flessibili
sono più esigenti delle regole dure. Si potrebbe dire che la Regola di san
Benedetto è una regola flessibile, in quanto è temperata dalla carità ed è improntata
a un carattere propriamente paterno e familiare.
Dopo
la fedeltà alla Regola, c’è la vostra fedeltà alla liturgia. In quasi tutti i
monasteri la liturgia è stata profondamente alterata. Da voi, dom Gérard, è
rimasta intatta. Perché?
Potremmo
dire che è per le stesse ragioni: la santa liturgia è la regola della
preghiera, e questa regola di preghiera è ancora più venerabile della Regola
benedettina, poiché s’identifica con il cuore, l’anima e la vita della Chiesa.
Sono i salmi, il santo sacrificio della messa, il grande sacramentale dell’ufficio
divino, da Mattutino e le Lodi fino alla Compieta. Amiamo la santa liturgia
perché è una meravigliosa scuola di preghiera. Essa è, diceva dom Guéranger, “il
magistero della Chiesa pervenuto al suo grado più alto di splendore e solennità”;
permette di cogliere dalle labbra e dal cuore della Chiesa lo stesso pensiero
del suo Dio. Mette in azione l’uomo nella sua interezza, con il suo corpo, la
sua anima, il suo spirito, la sua intelligenza, la sua sensibilità.
I
salmi sono delle grida d’amore, di pentimento e ammirazione; una specie di
sfogo affettuoso verso Dio, anziché una meditazione discorsiva. La pietà degli
antichi monaci era molto più semplice, più affettuosa, più cordiale, più vicina
all’infanzia che al genere di meditazione analitica che è prevalso a partire
dal secolo XVII.
Qual
è la trama di fondo della pietà monastica?
Sono
i salmi! Il salterio è il pane quotidiano della pietà monastica. Per meglio
dire, è la manna del deserto. Perché i salmi parlano di Cristo e Cristo parla
attraverso i salmi. Grazie all’ufficio della salmodia, nuotiamo nel grande
fiume liturgico che ci penetra e ci trasforma un poco alla volta. E poi, i
salmi sono ispirati. La salmodia è Dio che parla a Dio, dettandoci le formule,
gli accenti e le cerimonie scelte da lui. È dunque la preghiera pubblica della
Chiesa, sposa di Cristo; e la voce della Sposa raggiunge il cuore dello Sposo.
Infine,
occorre dire che questa preghiera è fatta di uno splendido materiale, giacché
una grande poesia sacra accompagna tutte le cerimonie della Chiesa.
Sembra
d’altronde che la Chiesa di oggi, abbandonando la tradizione liturgica, abbia
rinunciato alla bellezza del culto. Non vi è confusione fra bruttezza e
povertà?
Esattamente.
Siamo in piena confusione. Vi era nei moderni una certa intuizione, che all’inizio
era buona: la bellezza non dipende da un’accumulazione di materiali, da una
deriva di ornamenti e di sovrappesi. Bene. Ma hanno fatto una confusione ben
più grave. Hanno creduto che la semplicità fosse una cosa facile.
Si
tratta di un errore. Il canto gregoriano, per esempio, è un’arte di una grande
semplicità di mezzi; ma è un’arte difficile. Semplicità non vuol dire
indigenza, è ascesi della bellezza. Credendo di semplificare, hanno mutilato,
hanno schematizzato, hanno soppresso la vita, hanno creato delle liturgie
astratte, asciutte, disseccanti, senza poesia, senza lirismo e senza
trascendenza, che cominciano a datare terribilmente.
Nelle
riforme uscite dal Concilio, all’inizio non c’era un desiderio legittimo di
volere riaccordare la liturgia alla sensibilità popolare?
Certamente.
C’era tutto un lavoro da svolgere, di rieducazione e nuovo radicamento. Ma sono
stati commessi due errori.
In
primo luogo, si è trattata con disprezzo l’anima popolare, scadendo nel
facilismo e nella volgarità; poi si è agito con empietà mettendo mano al tesoro
trasmesso dalla Tradizione. Supponete che si abbia cattivo gusto, supponete che
si sia confusa semplicità e indigenza; può succedere. In ogni caso, c’era un’empietà
flagrante nel porre mano su questi tesori che fanno parte del patrimonio dell’umanità,
che gli atei riveriscono, che i protestanti rispettano. Poiché quanti hanno un
po’ di senso umano sentono che ciò tocca i valori più elevati dell’anima. C’è là qualcosa d’incredibile nella storia della Chiesa.
Dunque,
non fosse altro che a titolo di riparazione, siamo rimasti fedeli alla liturgia
integrale. Poi ci siamo resi conto molto velocemente che eravamo i primi
beneficiari di questa grande Tradizione; è grazie all’influenza dolce e
regolare della liturgia che dom Innocent Lemasson ha potuto scrivere: “I nostri
chiostri sono accademie di pace, di silenzio e di libertà”. Poco alla volta la
liturgia trasforma la nostra anima, il nostro spirito, la nostra immaginazione,
anche il nostro corpo; perché il rito liturgico educa il corpo umano, lo
disciplina, lo purifica, poi mette sulle nostre labbra i cantici annunciatori
della vita eterna. Adesso capite perché la liturgia fa parte “usque ad mortem”
del nostro programma di fedeltà.