dodicesima domanda
Perché il carattere sacrificale della messa, come si sostiene, sarebbe meno chiaramente espresso quando il prete è girato verso il popolo?
Rovesciamo
la domanda: poiché nell’ambiente degli specialisti è perfettamente noto che spingendo
per “l’altare verso il popolo” non ci si può richiamare a una pratica della
Chiesa primitiva, perché non se ne trae la conseguenza che s’impone, perché non
si sopprimono le “mense della cena” erette con una sorprendente unanimità nel
mondo intero?
Molto
probabilmente perché esse corrispondono meglio, rispetto alla pratica antica, alla
nuova concezione della messa e dell’eucaristia.
È
molto chiaro che al giorno d’oggi si vorrebbe evitare di dare l’impressione che
la “santa tavola” (come viene chiamato l’altare in Oriente) possa essere un
altare per il sacrificio. Senza dubbio è la stessa ragione per cui, quasi
dappertutto, si pone sull’altare un mazzo di fiori (uno solo), come sulla
tavola di un pranzo di festa in famiglia, insieme a due o tre ceri. Questi ultimi
quasi sempre a sinistra della tavola, mentre il vaso di fiori occupa l’altro lato.
L’assenza
di simmetria è voluta: non bisogna creare dei punti di riferimento centrali,
come quando si mettevano i candelieri alla destra e alla sinistra della croce,
che stava in mezzo; qui si tratta solo di una tavola da pranzo.
Ci
si mette davanti l’altare del sacrificio. Non si rimane dietro. Si faceva già
così al tempo del sacrificatore pagano. Nel santuario, il suo sguardo era
diretto verso la rappresentazione della divinità cui era offerto il sacrificio.
Si faceva così anche nel Tempio di Gerusalemme, dove il sacerdote incaricato di
offrire la vittima stava davanti alla “tavola del Signore” (Ml 1, 12), come si chiamava il grande
altare dell’olocausto nel cortile del Tempio, di fronte al tempio interno che custodiva
l’Arca dell’Alleanza, nel Santo dei Santi, il luogo in cui dimorava l’Altissimo.
Un
pasto si consuma sotto la presidenza del padre di famiglia, nel mezzo della
cerchia famigliare; in tutte le religioni, invece, è un liturgo designato a
tale scopo che compie il sacrificio, all’interno o davanti a un santuario (che
può essere anche un albero sacro). Il liturgo è separato dalla folla e sta
davanti a essa, di fronte all’altare, rivolto alla divinità. In ogni tempo, gli
uomini che hanno offerto un sacrificio si sono sempre rivolti verso colui al
quale il sacrificio era destinato, e non verso i partecipanti alla cerimonia.
Nel
suo commento al libro dei Numeri (10, 27), Origene si fa interprete della
concezione della Chiesa primitiva: “Colui che si pone davanti all’altare dimostra
con ciò di svolgere le funzioni sacerdotali. Ora, la funzione del prete
consiste nell’intercedere per i peccati del popolo”. Ai giorni nostri, in cui
il senso del peccato sparisce sempre più, la concezione espressa da Origene
sembra essersi largamente perduta.
Lutero,
è noto, ha negato il carattere sacrificale della messa: egli non vedeva in essa
altro che la proclamazione della parola di Dio, seguita da una celebrazione
della Cena. Da qui la sua preoccupazione di vedere il liturgo rivolgersi verso
l’assemblea.
Alcuni
teologi cattolici moderni non negano direttamente il carattere sacrificale
della messa, ma preferirebbero che questo passasse in secondo piano, onde potere
meglio sottolineare il carattere di pasto della celebrazione. Il più delle volte
ciò accade a causa di considerazioni ecumeniche in favore dei protestanti,
dimenticando però che per le Chiese orientali ortodosse il carattere
sacrificale della divina liturgia è un fatto indiscutibile.
Solo
l’eliminazione della tavola da pranzo e il ritorno alla celebrazione all’“altare
maggiore” potranno condurre a un cambiamento nella concezione della messa e
dell’eucaristia, e cioè alla messa intesa come atto d’adorazione e di
venerazione di Dio, come atto d’azione di grazia per i suoi benefici, per la
nostra salvezza e la nostra vocazione al regno celeste, e come rappresentazione
mistica del sacrificio della croce del Signore.
Ciò
non esclude, tuttavia, come abbiamo visto, che la liturgia della Parola sia
celebrata non all’altare, ma dal seggio o dall’ambone, com’era un tempo durante
la messa episcopale. Ma le preghiere devono essere tutte recitate in direzione
dell’Oriente, e cioè in direzione dell’immagine di Cristo nell’abside e della
croce sull’altare.
Poiché
durante il nostro pellegrinaggio terreno non ci è possibile contemplare tutta
la grandezza del mistero celebrato, e ancor meno lo stesso Cristo, né l’“assemblea
celeste”, non basta parlare ininterrottamente di ciò che il sacrificio della
messa ha di sublime, bisogna invece fare di tutto per mettere in evidenza, agli
occhi degli uomini, la grandezza di questo sacrificio, per mezzo della stessa
celebrazione e della sistemazione artistica della casa del Signore, in
particolar modo dell’altare.
Si
può applicare allo svolgimento della liturgia e alle immagini, ciò che dice dei
“veli sacri” lo Pseudo-Dionigi l’Areopagita, nella sua opera sui nomi divini
(1, 4): questi veli “che [ancora adesso] nascondono lo spirituale nell’universo
sensibile, e il sovra terreno nel terreno, che conferiscono forma e immagine a
ciò che non ha né forma né immagine… Ma verrà il giorno in cui, essendo
divenuti incorruttibili e immortali e avendo raggiunto la pace beata accanto a
Cristo, noi saremo, come dice la Scrittura, presso il Signore (cfr. 1 Ts 4, 17), riempiti della
contemplazione della sua apparizione visibile”.
[Klaus Gamber, “L’autel face au peuple.
Questions et réponses”, in Tournés vers le Seigneur!, Éditions
Sainte-Madeleine, Le Barroux 1993, pp. 19-55 (pp. 52-55) / 10 - fine]
L’altare verso il popolo. Domande e risposte / 10 (ultima parte)