lunedì 26 aprile 2010

Monachesimo ed eucaristia

Sta scritto: "Come la cerva anela ai corsi d'acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio". Infatti, i cervi nel deserto divorano molti serpenti e, bruciati dal loro veleno, desiderano andare all'acqua viva per spegnere bevendo la febbre causata dal veleno dei serpenti. Così, i monaci che abitano nel deserto sono bruciati dal veleno dei demoni malvagi. Allora aspirano al sabato e alla domenica, in cui potranno andare alla fonte d'acqua viva, cioè al corpo e al sangue del Signore, per purificarsi dall'amarezza dei demoni.

[Apoftegma dell'abate Pastor, Vitae Patrum 5, 18, 17, in PL 73, col. 983 D]









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sabato 10 aprile 2010

Messa Abbaziale a Torino

In occasione del pellegrinaggio alla Santa Sindone dei monaci benedettini dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, lunedì 17 maggio 2010, alle ore 10:15, sarà celebrata a Torino una Messa Abbaziale nella forma straordinaria del Rito romano presso la chiesa dei Santi Martiri (Via Garibaldi 25), eretta dai gesuiti nel 1577 in onore dei più antichi patroni di Torino: Avventore, Ottavio e Solutore, appartenenti alla legione tebea e martirizzati nel III secolo.

Celebrerà solennemente il M.R.P. Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., abate di Le Barroux, accompagnato da oltre venti monaci, che canteranno il proprio della Messa “Sacratissimæ Sindonis Domini nostri Iesu Christi”.

La partecipazione dei fedeli è gradita, come pure la diffusione della notizia.








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venerdì 9 aprile 2010

Ai monaci e alle monache dell'Ordine di San Benedetto / ultima parte


Mi accorgo che questo vi disturba. Anche nella Chiesa, si sentono pronunciare delle proposte così sbalorditive sull'arte sacra che temete di trovarvi sorpassati. Vi percepite come un'antica vestigia medievale nel mezzo di una Chiesa che si concede a un distratto aggiornamento, che corre verso forme di preghiera, liturgia e arte alle quali è chiesto anzitutto di essere inedite, senza tenere conto delle prescrizioni conciliari e malgrado le sagge resistenze della gerarchia. In un mondo in perpetuo divenire, si vorrebbe che la Chiesa lo sposasse e facesse cambiare tali forme in funzione dell'evoluzione del mondo. Ma non è questo che le anime si attendono. Esse non hanno a che fare con l'evoluzione del mondo: ne soffrono, piuttosto che gioirne. Ciò di cui hanno sete è una "sorgente d'acqua che zampilla per la vita eterna" (Gv 4,14). Se da una parte la Chiesa non disconosce i bisogni del tempo, essa è tuttavia anzitutto la sposa dell'Eterno: ci strappa al Tempo per consegnarci all'Eternità. Così ci allontaneremo finalmente da quanti non sanno inserirsi che nel tempo, di cui diventano prigionieri, e ci dirigeremo sempre più verso voi la cui vita è un linguaggio che parla di Eternità. Fareste dunque un calcolo sbagliato riguardo il vostro posto nella Chiesa, abbandonando quello che occupate così nobilmente e nel quale nessuno vi può sostituire. Non abbiate paura di rimanere immobili o di avere l'aria di restare tali in un mondo divorato dalla velocità: voi avete scelto un Amore che è senza cambiamento, seppure veloce come un fulmine.
Noi proveremo, noi laici, a salvare la musica gregoriana ovunque lo potremo fare. I monaci e le monache possono salvarla ancor più di noi, perché si tratta del loro cibo quotidiano, e voglio credere che non ne sono sazi: è il loro respiro. Si potrà sempre ammirare il timpano e i capitelli di Vézelay; continueranno a ispirare santi pensieri agli uomini fino alla fine dei tempi, perché è sufficiente guardarli con animo aperto (trascuro il caso in cui la rabbia degli iconoclasti li riducesse in polvere). La musica, essa, dev'essere eseguita e ascoltata, senza di che è votata alla morte pura e semplice o alla morte delle biblioteche. Vi appartiene quindi di mantenere in vita il canto gregoriano: è un obbligo che dovete assolvere com'è, d'altro canto, un obbligo plurisecolare del vostro Ordine quello di salvare tutto ciò che costituisce una ricchezza per la cultura degli uomini. Se la Regola di san Benedetto non ne fa menzione, la storia lo riconosce come uno dei gioielli più belli della vostra corona. Che dirà la posterità se si accorgesse che voi - in passato, salvatori di così tante opere, anche pagane, che non avete lasciato perire perché costituivano un peso indubbio nella bilancia delle cose dello spirito - vi siete mostrati incapaci di salvare il vostro proprio tesoro?

[André Charlier (1895-1971), Aux moines et aux moniales de l'Ordre de saint Benoît, articolo-appello del 1967 comparso nel volume Le chant grégorien edito da Dominique Martin Morin (Bouère), di cui una prima versione risale al marzo 1965 (Itinéraires, n. 91), poi in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 78-84 (qui pp. 83-84), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 4 / fine]

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venerdì 2 aprile 2010

Un inedito di Gustave Thibon

Domani, festa di Pasqua. Commemorazione del mistero supremo del destino umano: Cristo è risorto e ci chiama con lui alla vita eterna. Da venti secoli, tanti commentari e sermoni, la cui banalità e ridondanza degradano questo mistero. Il verbalismo ha fatto seguito al Verbo, il chiacchiericcio alle lingue di fuoco che discesero sugli apostoli. Come osare ancora parlarne? Come restituire alle parole l'innocenza del loro significato originale?
I teologi parlano di mistero rivelato. La vera rivelazione si riconosce dal fatto che essa approfondisce in noi il mistero, anziché dissiparlo: Dio diventa per noi, al contempo, via via più interiore e più sconosciuto.
Qualcuno mi parlò un giorno di quel delirio antropocentrico che ci fa immaginare Dio, creatore di tutti i mondi, il quale si sarebbe abbassato fino a sposare la vita e la morte dell'uomo, granello di polvere perso nell'immensità del cosmo, schiavo della necessità per sua natura e vittima della sorte nel suo destino. Di fatto, mi diceva, noi siamo disperatamente soli in un universo indifferente. Ciò che mi ha ricordato i versi di un poeta del secolo XIX:
[...] che si preghi o si bestemmi
La Materia nella sua stupidità si muove,
L'orribile solitudine non è mai la stessa,
E l'uomo solo risponde all'uomo spaventato.
Ho risposto che Simone Weil ha osservato giustamente che "un ordine superiore entro un ordine inferiore si presenta sempre sotto forma di un infinitesimale". Alcuni esempi: cosa pesa la moltitudine degli esseri viventi in rapporto alla massa della materia inanimata?; oppure, quale posto occupa l'uomo - dotato di coscienza, specchio del mondo e di sé stesso - fra le migliaia di specie animali? Più ancora, la coscienza, questo tragico privilegio, ha per prezzo del riscatto la fragilità, la dipendenza nei confronti degli ordini inferiori: il pensiero è più minacciato della vita, e quella che noi chiamiamo la nostra anima è sottomessa a innumerevoli condizionamenti biologici; si può certamente respirare senza pensare, ma non si può pensare senza respirare. Confondendo la causa e la condizione, i "riduzionisti" di ogni marca non vedono nell'anima che il riflesso inetto dei giochi della materia. "Abbiate molta cura del vostro corpo - mi scriveva la stessa persona quand'ero malato - per conservare a lungo l'illusione di avere un'anima".
Tuttavia, denunciare un'illusione implica già il presentimento di una verità, e per ridurre tutto alla materia bisogna essere al di là della materia. Argomento irrefutabile di Aristotele: "Non vi è nulla nello spirito che non sia stato anzitutto nei sensi, se non lo spirito lui stesso". La filosofia dell'assurdo e il pessimismo che ne deriva recano in sé stessi la propria confutazione. "Dire che la vita non vale nulla - scriveva Simone Weil - e offrire quale prova il male è assurdo, perché se non vale nulla, di cosa la priverebbe il male?".
Il sentimento di privazione attesta l'esistenza del bene di cui siamo privati. Morire di sete non prova nulla contro la realtà dell'acqua. O la sete essenziale dell'uomo è quella di un Bene illimitato e senza rovescio, sconosciuto quaggiù. Il mistero della risurrezione di Cristo risponde a questo appello del finito all'infinito, dell'imperfetto all'impossibile. Alla luce di questo mistero scompare l'insolubile problema del male: come può permettere il male un Essere infinitamente buono e infinitamente potente? Gesù risorto ha fatto del male uno strumento del Bene superiore, irriducibile al bene smarrito. Ciò che la liturgia traduce in termini inammissibili sul piano strettamente teologico: "Felice colpa! Davvero era necessario il peccato di Adamo". E ancora: "Tu che hai creato meravigliosamente la natura umana, e che l'hai riparata più meravigliosamente ancora". Rimedio che deriva dalla metamorfosi più che dalla rimessa a nuovo. Se l'uomo si è sfigurato con il peccato, è trasfigurato dalla grazia. Creato nell'Eden, rinascerà in Cielo. La sua caduta è il preludio della sua ascensione. Dice un Padre della Chiesa: "Ritornare a Dio è più divino che essere usciti da Dio". Questo ritorno a Dio passa dalla sofferenza e dalla morte; il Venerdì Santo precede il mattino di Pasqua. Ad Deum per crucem. Ma le tracce del peccato restano così vive nelle nostre anime che la nostalgia dell'Eden vela la speranza del Cielo. Tutte le mitologie del progresso poggiano sul postulato di un miglioramento indefinito della specie umana che permetterà la riapertura di quei "luoghi di delizia" da cui furono cacciati i nostri progenitori. Ma le promesse divine non sono date, nella loro pienezza, che al di là del tempo e della morte. Tale è la prova della virtù della speranza. Come già diceva Eraclito: "Colui che non spera non incontrerà l'insperato". Altresì, è il grido dell'apostolo: "Saldo nella speranza contro ogni speranza" (Rm 4,18).

[Gustave Thibon (1903-2001), testo inedito del 1996 riprodotto in Les amis du monastère, n. 98, 1° maggio 2001, pp. 1-2, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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