[Grazie alla cortese autorizzazione di Christophe Geffroy, direttore del mensile La Nef, riproduciamo in trad. it. a nostra cura l'intervista al Padre Abate dell'abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, Dom Louis-Marie Geyer d'Orth O.S.B., condotta dal medesimo Geffroy, comparsa in La Nef, n. 293, giugno 2017]
Anzitutto,
potete dirci una parola sulla situazione della vostra abbazia e della vostra
fondazione a La Garde?
La nostra abbazia, fondata nel 1970 da Dom Gérard,
conta attualmente 52 monaci professi e due postulanti. Sainte-Marie de la
Garde, fondata nel 2002, conta 14 monaci professi e due postulanti che
vestiranno il santo abito il prossimo 24 giugno prima dell’ufficio di Compieta.
L’età media è di circa 50 anni. Consacriamo le nostre giornate al Signore con
la preghiera liturgica sin dalla notte, con il lavoro – agricoltura,
giardinaggio, frantoio, panificio e pasticceria, vita della casa e vendita per
corrispondenza – e mediante un apostolato monastico che include confessioni,
predicazioni, cappellania di scout e dei capitoli Sainte-Madeleine,
Saint-Lazare e altri. Abbiamo inoltre la cura della direzione e della
cappellania dell’Istituto Saint-Louis, un collegio di circa 80 ragazzi. Infine
assicuriamo l’abituale ministero monastico nei confronti delle persone che
fanno un soggiorno presso di noi. Sono davvero felice di vedere che Sainte-Marie de la Garde offre a un certo numero di
sacerdoti la possibilità di riposarsi, profittando della santa liturgia.
Avete
sempre e con regolarità nuove vocazioni? Il loro profilo è cambiato nel corso
del tempo? E come analizzate quella che viene definita “crisi delle vocazioni”?
Sì, abbiamo regolarmente delle vocazioni. Il Signore
chiama sempre delle anime alla vita consacrata, a una vita nascosta in Dio,
alla ricerca solo del buon piacere nel chiostro, alla vita di preghiera nella
liturgia solenne. Il profilo dei candidati cambia, sicuramente, ma non la
natura umana che è fatta per Dio. I giovani hanno sete d’identità e di una
certa sicurezza che non è data dal mondo attuale, in perpetuo cambiamento. Mi
sembra molto importante offrire un accompagnamento personalizzato ai nostri
giovani in formazione, affinché si possano radicare umanamente. La crisi delle
vocazioni ha molteplici cause che si collegano a un tronco comune: lo
sradicamento. Da qui una concezione diffusa di libertà, che si definisce come
possibilità di cambiare, una certa immaturità dei temperamenti dovuta alle
numerose e continue gratificazioni della tecnologia, una struttura mentale
danneggiata dai cattivi metodi d’apprendimento, un’immagine alquanto
secolarizzata e addirittura sporcata del sacerdozio. Ma tutto questo non
resiste alla chiamata di Dio. Prova ne è il fatto che le comunità che
mantengono il senso del sacro continuano a reclutare.
Adesso
l’abbazia produce anche un vino di qualità e aiuta i produttori locali in tal
senso: potete parlarcene in poche parole?
Da qualche anno, i fratelli cercavano di trarre il
meglio dalla vigna e dal territorio. Le Côtes du Ventoux possono produrre un
vino eccellente se i produttori s’impegnano. La zona ha una storia ricca in
connessione con il papato e delle eccellenti condizioni climatiche. Il nostro
fratello responsabile ha sviluppato i terrazzamenti dei vigneti, che danno un
vino più elegante. L’anno scorso abbiamo dunque piantato quasi 10.000 piedi di
terrazze al di sopra dell’abbazia delle monache, con le quali lavoriamo
fraternamente. Lo sforzo perseverante dei nostri fratelli vignaioli, da una
decina d’anni, per una produzione di qualità, è stata ricompensata, visto che
qualche cuvée ha meritato delle medaglie al Salone dell’Agricoltura. Per
iniziativa del fratello Odon e dei vignaioli della regione, abbiamo creato
una cuvée speciale di alta qualità che abbiamo chiamato Caritas. Il suo nome è
rivelatore dello spirito d’impresa che esiste fra i viticoltori e i monaci.
I vostri
monaci assicurano la Messa e le confessioni alle monache dell’abbazia Notre-Dame
de l’Annonciation, vicina a voi: quali sono precisamente i vostri legami e come
distinguereste la vocazione delle monache rispetto a quella dei monaci?
È un aspetto tradizionale che i benedettini abbiano
spesso avuto delle sorelle benedettine vicino ai propri monasteri. Con
l’abbazia Notre-Dame de l’Annonciation abbiamo il medesimo patrimonio
dottrinale, spirituale e liturgico, con un attaccamento risoluto ai nostri
fondatori, Padre Muard, Dom Romain Banquet, Madre Marie Cronier, e Dom Gérard.
Siamo come fratelli e sorelle, ciascuno al proprio posto. Noi portiamo loro
anzitutto il servizio sacerdotale con la Messa quotidiana, le confessioni
settimanali, alcune conferenze e qualche direzione spirituale. Collaboriamo
particolarmente al lavoro manuale nel vigneto, ma anche nella preparazione del
torrone. Le monache hanno una vocazione esclusivamente contemplativa, con la
clausura papale, mentre i monaci di Sainte-Madeleine hanno una parte di
ministero monastico ereditato da Padre Muard e legato al sacerdozio.
Quale
sguardo portate sulla situazione della Chiesa di oggi? Come analizzate il
pontificato di Papa Francesco, e in particolare la controversia sollevata dalla
questione dei divorziati risposati?
Confesso di fare fatica ad analizzare l’attuale
pontificato. Molti cattolici praticanti sono molto a disagio in ragione della
forma e del fondo della sua pastorale e, soprattutto, delle espressioni
spontanee e brusche del Santo Padre, per esempio sull’islam. Credo tuttavia che
possiamo meglio comprendere la sua linea attraverso un principio che ritorna
spesso nelle sue parole: il tempo è superiore allo spazio, un principio
estraneo alla filosofia metafisica. Penso che il Santo Padre insista molto sul
fatto che non dobbiamo bloccare le persone in categorie – lo spazio, con tutto
ciò che suppone –, ma andare a cercare le persone là dove sono per condurle
pazientemente verso il Vangelo senza spegnere il lucignolo fumigante. San
Gregorio Magno diceva che l’arte delle arti è di tenere in una mano i princìpi
e nell’altra ogni persona. Credo che Papa Francesco insista soprattutto sulle
persone.
Il nostro padre Basile ha svolto uno studio
approfondito di Amoris
Lætitia, pubblicato sulla Revue
Thomiste, nel quale mostra che la dottrina non è mutata. Ma occorre riconoscere
una grande confusione, perché sono molto rari gli spiriti capaci di fare una
giusta interpretazione in un ambito estremamente complesso. Mi è stato detto
recentemente che una Madre Abbadessa invita ormai a comunicarsi tutti i
divorziati risposati che assistono alla Messa nel suo monastero, senza
discernimento e senza avere alcuna autorità in materia. Senza dubbio occorre
sottolineare che la misura permessa dal Papa in alcuni casi non può che essere
temporanea nel percorso dei divorziati risposati che s’impegnano a rimediare
alla loro situazione, ciò potrà aiutare a mettere in opera questa esortazione
con maggiore rispetto per i sacramenti del matrimonio, della penitenza e
dell’eucaristia.
A luglio festeggeremo i dieci anni del motu proprio Summorum
Pontificum. Cosa v’ispira questo anniversario, quale bilancio ne traete?
Mi sembra
che il motu proprio sia riuscito a fare cadere una specie di “muro di Berlino”
liturgico e storico. Lo statuto d’eccezione del rito antico comportava l’idea
di rottura fra il prima e il dopo Concilio Vaticano II. Il fine di Benedetto
XVI, mi sembra, era di diffondere la forma extraordinaria al fine di aiutare a
meglio celebrare la forma ordinaria, dando nuovamente una dimensione sacra alla
liturgia. Senza il motu proprio numerosi preti non avrebbero mai avuto l’idea o
il coraggio di celebrare la forma extraordinaria. Ormai abbiamo regolarmente
domande di sacerdoti diocesani per apprendere a celebrarla. Ma è un’azione che
chiederà del tempo e un’umile perseveranza, perché il senso del sacro è ciò che
vi è di più importante per ogni uomo e per la società. Come lottare contro la
cultura dello scarto se non cominciando con l’adorare Colui che è adorabile?
E d’altro
canto, il motu proprio ha come sgonfiato il palloncino liturgico.
Focalizzandosi sulla battaglia per la Messa tradizionale, abbiamo forse
dimenticato altre battaglie più interiori, a cominciare con l’umiltà,
l’obbedienza, la vita spirituale personale.
In una maniera più generale, come analizzate la situazione
della galassia “Ecclesia Dei” circa trent’anni dopo il motu proprio dallo
stesso nome di Giovanni Paolo II? Cosa v’ispirano le informazioni di un accordo
prossimamente possibile fra Roma e la Fraternità San Pio X?
La
creazione della Commissione Ecclesia Dei era necessaria e buona nel 1988 per
aiutare i fedeli e le comunità tradizionali a rimanere attaccate a Roma. E mi
sembra che essa sia ancora utile per aiutare altre comunità ad adottare la
forma extraordinaria, come hanno fatto recentemente dei benedettini irlandesi.
La
commissione è molto fedele all’orientamento datole da san Giovanni Paolo II e
Benedetto XVI, e noi ci sentiamo dunque in sicurezza, più che se avessimo a
trattare con alcuni altri organismi romani. Ma la ragione principale della
commissione è la relazione della Fraternità San Pio X con Roma, e per questo
soprattutto essa è attualmente insostituibile.
Ritengo
tuttavia che il suo ruolo non possa che essere temporaneo, perché sarebbe più
che naturale che noi potessimo trattare direttamente con le diverse
congregazioni romane per ciò che rileva del loro ambito. Attualmente, noi
trattiamo solo con la Ecclesia Dei. Il che alimenta lo spirito da riserva
d’indiani.
Per quanto
riguarda le relazioni fra Roma e la Fraternità San Pio X, noi preghiamo
affinché si possa raggiungere un accordo. Sarebbe una grazia ecclesiale per la
Fraternità, che potrebbe così avere una visione più giusta della realtà della
Chiesa, e anche per la Chiesa, che ha certo bisogno di operai per la messe. Da
un punto di vista umano, questo sembra impossibile e comporterà certo delle
difficoltà, soprattutto per i vescovi, ma occorre fare tutto il possibile e
tutto sperare, affinché si realizzi la preghiera di Gesù per l’unità della sua
Chiesa. E quale sollievo per le famiglie divise dal tempo delle consacrazioni!
Sebbene siate in clausura, le cose del mondo non vi sono
indifferenti. Ci sono degli argomenti che vi preoccupano particolarmente in
questo momento? […]
La grande angoscia del
presente è l’ascesa del totalitarismo: quello del denaro così evidente,
dell’ateismo, del relativismo. Le istituzioni sono via via più gigantesche e
tecniche, senz’anima. Percepisco un piano studiato che mira ad abolire tutti i
corpi intermedi, in particolare quello della famiglia, volontariamente
schiacciata da ogni genere di misura. Durante il
Concilio Vaticano II, il cardinale Karol Wojtyla disse che bisognava capire il
nostro tempo sotto la visuale della solitudine. Noi stiamo passando da una
società cristiana basata sulla dignità della persona e la sua dimensione
essenzialmente sociale, a una società individualista ed edonista. Basta
guardare la situazione della famiglia nelle grandi città; penso a Parigi, che
secondo un ecclesiastico di grandi responsabilità, è diventata Sodoma e
Gomorra. […]
Nel nostro mondo europeo secolarizzato e via via più
materialista, l’ascesa dell’islam è un’occasione o un pericolo? E cosa pensate
dei dibattiti suscitati dall’islam, percepite in particolare un rischio
nell’ascesa di un “cattolicesimo identitario”?
L’ascesa
dell’islam non può essere un’occasione in sé per la Francia. Dom Gérard diceva
che la Provvidenza poteva servirsene, ma un po’ come una sfida, o addirittura
una prova. L’islam è onnipresente e, nell’insieme, per nulla integrato, e a mio
avviso non integrabile, per due ragioni di fondo. Il Corano non invita alla
riflessione, piuttosto alla sottomissione: è un tessuto d’affermazioni
categoriche e non una storia come nella Bibbia, che esige un’interpretazione.
L’islam non conosce né la distinzione fra lo spirituale e il temporale, né la
giusta libertà religiosa.
L’islam
progredisce sul fondo di una dialettica di fatto fra – da una parte – i
sostenitori del terrorismo e, dall’altra, i sostenitori di un islam irenico che
investono lo sport, la moda, l’alimentazione e la finanza. Confesso di essere
rimasto spaventato in occasione di un passaggio a Parigi, nel vedere molti
giovani indossare la maglietta di una squadra di calcio con le insegne degli
emirati. Mi sono detto che questi giovani erano pronti per la moschea. Certo,
gli occidentali hanno una grave responsabilità nel disordine che regna in
Oriente. I nostri interventi in Iraq, in Libia e altrove sono degli errori
politici gravi.
Certamente,
c’è il rischio di un cattolicesimo identitario, che si serve della religione
come di un mezzo politico, ma il vero pericolo attuale è l’ignoranza, il
relativismo e la pigrizia intellettuale di un gran numero di responsabili
politici e religiosi. La vera sfortuna della cristianità è di avere perso la
propria identità. Ma provvidenzialmente, secondo la grande legge di tutta la
storia della salvezza, questa grave sfida può essere l’occasione di un ritorno
al Signore, della conversione del cuore, della gloria del martirio, e – occorre
non dimenticarlo – vi sono i buoni semi sparsi da Benedetto XVI nel suo
discorso a Ratisbona, e recentemente al Cairo da Papa Francesco. Cristo è morto
e risorto, non dimentichiamolo: è la nostra forza e la nostra speranza.
Nulla resiste alla chiamata di Dio