giovedì 30 giugno 2011

Un pellegrinaggio della Tradizione


Dall'11 al 13 giugno 2011 si è svolta la 29ma edizione del Pellegrinaggio di Pentecoste, che come vuole la tradizione ripresa da Charles Péguy (1873-1914) – riattivata, nel 1983, nello spirito dei fratelli Henri (1883-1975) e André Charlier (1895-1971) –, accompagna i pellegrini a piedi, dalla cattedrale Notre-Dame di Parigi alla cattedrale Notre-Dame di Chartres, per un totale di circa cento chilometri. A organizzare questo imponente pellegrinaggio è l'associazione Notre-Dame de Chrétienté, secondo una carta fondativa che vuole questa iniziativa – d'impronta mariana e liturgicamente vincolata alla forma straordinaria del Rito romano – posta sotto l'egida del motto Tradizione - Cristianità - Missione.
Quest'anno il tema del 29mo pellegrinaggio Parigi-Chartres è stato Il Vangelo della Vita, come espressione di adesione integrale alla tutela della vita in tutte le sue fasi – dal primo momento del concepimento fino alla morte naturale –, cioè il primo dei punti non negoziabili sui quali Papa Benedetto XVI, a partire dal discorso del 30 marzo 2006, è tornato a più riprese. In questo senso, le tre giornate del pellegrinaggio sono state poste rispettivamente sotto il patrocinio della beata Madre Teresa di Calcutta (1910-1997), santa Maria Goretti (1890-1902) e la Vergine di Guadalupe.
Alle tre faticose, ma gioiose e spiritualmente assai ricche giornate di pellegrinaggio, ha partecipato quest'anno una folla di quasi 10.000 persone, prevalentemente di età giovanile, oltre a centinaia di membri d'istituti di vita consacrata, che hanno accompagnato i pellegrini durante il loro percorso. Sul sito Internet dell'associazione Notre-Dame de Chrétienté è accessibile una pagina in cui sono visionabili circa 400 fotografie.
Anche l'Italia ha avuto quest'anno una sua piccola rappresentanza – auspicabilmente da replicare e intensificare negli anni a venire –, composta da una delegazione di giovani dell'associazione Alleanza Cattolica, i quali si sono recati al Pèlerinage de Pentecôte unendosi al Chapitre Sainte Madeleine, movimento cattolico giovanile legato spiritualmente all'abbazia benedettina di Le Barroux, il cui fondatore e primo abate, Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), pronunciò nel 1985, a Chartres, in conclusione di quell'edizione del pellegrinaggio, un'omelia che è considerata uno dei testi fondatori di quest'avventura spirituale e umana, e che Romualdica ha pubblicato in traduzione italiana con il titolo Chartres, 1985: "è un monaco che vi parla".
Conclusivamente, riproduciamo qui di seguito due video: il primo riguardante la partenza del pellegrinaggio, l'11 giugno 2011, dalla cattedrale Notre-Dame di Parigi; il secondo che racoglie estratti dell'arrivo alla cattedrale Notre-Dame di Chartres, il 13 giugno 2011.



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mercoledì 29 giugno 2011

Omaggio a Henri Charlier

«Essere pittore vuol dire trovare dei rapporti generali, cioè delle idee, là dove il resto degli uomini non percepisce che sensazioni. La superiorità di un ritratto su una descrizione mediante il linguaggio proviene dal fatto che per dare l’idea di uno spirito informante la materia, nessun linguaggio è così diretto e così delicato come quello delle arti plastiche».
(Henri Charlier, L’Art et la Pensée)

In passato ci siamo occupati a più riprese dell’educatore, moralista e scrittore cattolico francese André Charlier (1895-1971), traducendo in più puntate (si veda qui, qui, qui e qui) il suo articolo-appello del 1967 Ai monaci e alle monache dell’Ordine di San Benedetto, e ancora un articolo biografico e un discorso inedito rivolto a Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux.
Questa volta desideriamo rendere omaggio alla figura del fratello di André – come il fratello, anch’egli oblato benedettino –, il pittore e scultore Henri Charlier (1883-1975), il quale fu dalla conversione alla fede cattolica, nel 1913, un propagatore dell’eredità tradizionale della Chiesa, collaborando inoltre per lunghi anni alla rivista Itinéraires, per la quale assicurò durante un ventennio varie meditazioni spirituali di rara profondità sull’anno liturgico con lo pseudonimo D. Minimus, raccolte postume in due volumi (Les Propos de Minimus, Dominique Martin Morin, Jarzé 1994).
Henri Charlier fu uno strenuo difensore della forma straordinaria del Rito romano, e in particolar modo del canto gregoriano, tema al quale dedicò un’opera in collaborazione con il fratello (Le Chant grégorien, Dominique Martin Morin, Jarzé 1967).

Sacro Cuore in maestà (statua, 1936)
Henri Charlier (1883-1975)
L’occasione del presente omaggio ci deriva dalla recente pubblicazione, a opera delle edizioni TerraMare, di un magnifico libro di 232 pagine in grande formato – Henri Charlier. Peintre et Sculpteur. 1883-1975 (Parigi 2011) –, al contempo opera biografica e catalogo delle opere artistiche, il cui autore è il pronipote di Henri Charlier, ossia il monaco dell’abbazia di Le Barroux, Dom Henri Lapèze-Charlier O.S.B., che dedica in esordio il volume all’illustre artista e parente con le toccanti parole: «Dilectissimis parentibus meis decorisque inventoribus viæ pulchritudinis».
Lo stesso Papa Benedetto XVI ha voluto esprimere il suo apprezzamento per quest'opera, con un messaggio di cui riproduciamo l'estratto più significativo: «Possa la biografia di questo grande autore, del quale ripercorrete felicemente l'itinerario artistico e spirituale, incoraggiare gli artisti del nostro tempo a fare rivivere l'arte sacra. Affidandovi all'intercessione di Nostra Signora e di san Benedetto, il Santo Padre v'impartisce di tutto cuore la sua benedizione apostolica».
Le prefazioni al volume, abbondantemente illustrato con foto d’archivio e riproduzioni di opere del maestro, recano la firma di Hélène Rouvier, archivista onoraria del Museo Rodin, e Véronique Mattiussi, responsabile dei fondi storici, manoscritti e della biblioteca della medesima istituzione.
Al centro del libro, un appassionante excursus del percorso umano e artistico di Henri Charlier, in cui è dedicato uno spazio adeguato e opportuno alle problematiche teoriche ed estetiche del maestro francese, autore peraltro di monografie sul tema – da Culture, école, métier (Arthaud, Grenoble - Parigi 1942, 2a ed. Nouvelles éditions latines, Parigi 1959) a L’Art et la Pensée (Dominique Martin Morin, Jarzé 1972) –, che meriterebbero una traduzione e diffusione nel mercato editoriale italiano.
La questione liturgica, pure al centro delle preoccupazioni di Henri Charlier, non è tema sviluppato nell’opera, sebbene il ricco apparato iconografico che riproduce i suoi capolavori d’arte cristiana – sono oltre duecento le immagini a colori di alta qualità che accompagnano l'opera – ne sia un eloquente commento. Ecco comunque un estratto sull’argomento (p. 152):
«Durante l’estate 1972, egli lancia una piccola rivista intitolata Faits et gestes, che componeva egli stesso e stampava a sue spese. Rispondeva agli errori riguardanti la trasmissione della fede e alle deformazioni della liturgia, in una conversazione immaginaria fra tre giovani che non manca di puntiglio, come spiegherà in una lettera a Padre Bergeron: “Per venire a me, sono nel mio novantesimo anno d’età. Completo la mia ultima statua e metto in ordine i miei disegni e le mie carte. Ma ecco che il nostro vescovo – e la debolezza del nostro curato – ci ha imposto per la domenica Quasimodo una Messa dei giovani in dialetto e con musica ‘pop’. Giacché oggigiorno è impossibile dubitare che la nostra gerarchia sia perlomeno luterana, ho iniziato la battaglia, perché il popolo non è avvertito; è anzi imbrogliato da degli ipocriti che non credono più al loro sacerdozio e pendono per il comunismo. Quindi molta corrispondenza e occupazioni: stampa di volantini, conferenze, ecc. Beninteso non sono da solo (se non per la stesura)”».

L'enfant blessé (olio su tavola, 1911)

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martedì 28 giugno 2011

Il Tempio della Creazione

Da qualche anno, grazie a pregevoli studi sui Padri della Chiesa, è possibile misurare il radicamento storico e terreno del dramma liturgico. Si percepisce meglio come la minima cerimonia contragga il tempo, come racchiuda in sé stessa la storia sacra: Genesi, Esodo e letteratura profetica, con il suo vertice nel mistero di Cristo; come anch’essa annunzi e realizzi il Regno nella sua fase compiuta, dove Dio sarà tutto in tutti.
Dalla lettura dei Padri, in specie di Clemente Alessandrino, di san Massimo il Confessore e di sant’Agostino, si può cogliere come la liturgia della Chiesa si accordi al ritmo dell’universo, esso stesso paragonabile a un tempo immenso dove si celebra una liturgia perenne. Questi grandi dottori non insegnavano dunque solo i dodici articoli del Credo, ma istruivano su come guardare il mondo alla luce della fede, come fosse un abito luminoso di Dio, e la successione dei giorni come si trattasse dello svolgimento di un’azione sacra.
Non c’è forse nel nostro universo come un abbozzo di liturgia, un misterioso teatro fatto di canti e segni che attende che l’uomo gli dia il suo vero e completo significato? Nell’attesa «drammatica» della creazione (expectatio naturae), nella quale san Paolo vede un parto doloroso destinato alla manifestazione gloriosa dei figli di Dio [Rm 8,18-22], non possiamo forse includere quell’incredibile abbondanza di forme e ritmi, la coesistenza di segni che la loro essenza gerarchizza, dalla base immersa nella materia fino al culmine dove siede lo spirito, e vedere in questo theatrum mundi un gigantesco coro in attesa del suo direttore? Per san Massimo il Confessore, l’universo appare come «una chiesa cosmica la cui navata sarebbe il mondo sensibile, e il coro il mondo spirituale». Sant’Agostino è difensore di quest’ampia visione. Il mondo gli appare come un immenso poema: «Universi saeculi pulchritudo velut magnum carmen ineffabilis modulatoris» («lo splendore dell’universo intero è paragonabile a un grande poema, opera di un artista ineffabile»), dice nel suo commento sui Salmi. Seguiamolo su questa via.

Una teologia dell’immagine

Il regno animale e vegetale, l’abbondanza delle sue forme, l’alternanza delle stagioni, il ritmo delle ore segnate dal sole, l’esatta rivoluzione degli astri, tutto compone una liturgia silenziosa in stato di attesa, un’immagine nella quale Dio si compiace perché vi è impresso il suo segno che è la luce del Verbo. Il mondo è riempito di vestigia e di similitudini di Dio; la creazione è un’immagine del creatore, immagine innocente, non offuscata, ma ancora integra nel suo stato di gloria. Come non vedervi che la luce del sole è anche ora nuova, oggi, come quando il mattino della creazione i suoi primi raggi illuminavano la superficie del globo, e l’atmosfera che respiriamo come il sorso d’aria pura ancora vergine inspirato dal primo uomo al suo primo risveglio?
Questa novità delle creature viste nella loro purezza originale è il grande miracolo dell’esistenza; pochi esseri umani sono sensibili a essa, e pertanto, dopo l’elevazione all’ordine soprannaturale, è la più alta espressione del divino nell’ordine del creato. Essa permette di considerare seriamente l’idea agostiniana del mondo come poema di Dio.
Nel prologo di san Giovanni abbiamo una frase che esprime molto bene il mistero di questa comunicazione di luce che Dio trasmette alla sua creatura, significato sottolineato anche dalla punteggiatura che sant’Agostino dà alla frase. Ecco il testo sacro come lo si trova sui messali: «Omnia per ipsum facta sunt: et sine ipso factum est nihil quod factum est: in ipso vita erat, et vita erat lux hominum» [«Tutto è stato fatto da Lui, e senza di Lui niente è stato fatto di quello che è fatto. In Lui era vita e la vita era la luce degli uomini»]. E ora la punteggiatura scelta dal vescovo d’Ippona (sappiamo che nel testo originale non ne era indicata alcuna): «Omnia per ipsum facta sunt, et sine ipso factum est nihil» (Punto). Poi inizia un’altra frase: «Quod factum est in ipso vita erat!». Traduciamo: «Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui niente non è stato fatto (Punto). Quello che è stato fatto in Lui era vita».
Nel commento di sant’Agostino a questo testo si trova un’idea davvero bella e nobile: ogni cosa è viva perché abita eternamente nel pensiero di Dio, indipendentemente dal suo abito terreno più o meno misero: «Per quanto posso, ecco come ve lo spiegherò. Un artigiano fabbrica un armadio (faber facit arcam). Inizia concependo l’idea di armadio (in arte). Solo che l’armadio non si trova, in quanto idea, nella stessa condizione nella quale appare allo sguardo. Come idea esiste invisibile; una volta realizzata, esisterà nel visibile. Ecco ora che l’armadio è stato eseguito: ha smesso pertanto di esistere come idea?... Dunque bisogna distinguere: l’armadio senza la realtà non è vita, ma come idea è vita, dato che l’anima dell’operaio è viva, la quale racchiude tutto questo nella sua idea prima di produrla al di fuori. Allo stesso modo, cari fratelli, la Sapienza di Dio, attraverso la quale tutto è stato fatto, contiene in sé l’idea di tutti gli esseri prima di crearli. Guarda la terra, c’è anche un’idea di terra; osserva il cielo, c’è anche un’idea di cielo; sole e luna, esistono anche come idea; se nella loro realtà esterna sono dei corpi, nel pensiero divino invece sono vita (in arte vita sunt)» (Commento al Vangelo di Giovanni 1,17).
Ricordiamo questa espressione: in arte. L’ars è il piano dell’esecuzione, l’idea ispiratrice. San Bonaventura è vicino al pensiero di sant’Agostino quando afferma che il Verbo è l’arte del Padre. Questo comporta che l’universo creato è pensiero in atto, firma, immagine concreta emanata dal Pensiero divino. È per questo che san Giovanni aggiunge nel suo prologo: «et vita erat lux hominum»; il legame scaturisce da Lui stesso che unisce vita e luce. Tutto ciò che è stato fatto in Lui era vita, e la vita era la luce degli uomini.
È come dire che noi siamo illuminati dalla stessa luce divina che proietta al di fuori il magnum carmen, «il poema della creazione, opera di un artista ineffabile». Questa luce ci parla di Dio: «In lumine tuo videbimus lumen». È in questa tua luce che vedremo la luce, canta il Salmo 35. «Alla tua Luce», cioè nella luce creatrice che Dionigi chiama Autokallopoios — produttrice essa stessa di ogni bellezza — e che sant’Agostino denomina Saggezza o Arte; nella Luce divina, e solo in essa, possiamo percepire la verità delle creature, il loro carattere sacro e che incanta, il mistero della loro vocazione!
Come non vedere in questa grande opera della creazione così nuova e armoniosa, una lode naturale, un canto, un’ovazione, per non dire un’immensa liturgia cosmica? Questa interpretazione, che si diffonderà più tardi grazie alla fortuna che ebbe la teologia francescana, sembra accordarsi a ciò che c’è di più essenziale nel cattolicesimo; trova il suo fondamento dottrinale nei Padri greci secondo i quali non c’è valore creato, anche naturale, che non debba essere concepito come rassomiglianza e partecipazione alla luce del Verbo. Mimesis et metexis sono i termini che ritornano spesso nei loro scritti.
È in questo spirito che bisogna leggere la mirabile Gerarchia celeste di Dionigi l’Areopagita, la cui dottrina può riassumersi in tre parole chiave: immagine, effusione, partecipazione. Secondo questo autore, ogni cosa giunge a noi grazie all’illuminazione proveniente dalla «luce principale» (Archiphôtos) che «discende con bontà e in diversi modi fino agli oggetti della sua provvidenza… per convertirci all’Uno e alla semplicità deificante dell’unico Padre». In questo movimento di discesa della luce e nel riflusso ascendente di esseri illuminati e gerarchizzati dal Verbo, splendore del Padre, l’universo ritorna al suo principio in una celebrazione grandiosa dove la creatura umana si trova anch’essa inserita: «Noi stessi — scrive Massimo il Confessore —, attraverso il cambiamento della nostra natura presente, dapprima generati come tutti gli animali della terra, divenuti figli, trasportati dalla giovinezza alle rughe dell’età matura, come un fiore che dura un istante, morente per passare a un’altra vita, veramente, noi meritiamo di essere chiamati al gioco di Dio» (Mistagogia). Ritroviamo la medesima idea anche in Clemente Alessandrino, per il quale il Verbo è essenzialmente colui che «ha ordinato tutto con misura, avendo sottomesso la dissonanza degli elementi alla disciplina dell’accordo per fare del mondo una sinfonia» (Protrettico).
Ma questa sinfonia, compromessa dal peccato e dalla caduta dell’uomo, sarà nuovamente ristabilita e purificata dalla grande corrente d’azione redentrice del Figlio di Dio. Il Verbo incarnato non è solo Re della nazioni; egli esercita una sovranità su tutto l’universo, e la creazione acquisisce una nuova dignità non solo dopo che la terra si è fatta sgabello dei suoi piedi — scabellum pedum tuorum — ma anche dopo che i rivoli di sangue, sgorgati dalle sue sacre membra, l’hanno lavata in un universale fiume d’amore. Un inno della Passione esprime tutto ciò in una celebre strofa: «Mite corpus perforatur, sanguis, unda profluit: Terra, Pontus, astra, mundus quo lavantur flumine!» [«È squarciato il mite corpo, sangue ed acqua ne sgorgò: terra, mare, cielo e mondo quale fiume vi lavò»: Inno delle Lodi della Domenica delle Palme].

Una liturgia in sintonia con l’universo

Alla luce di questa dottrina, non sorprenderà constatare che la celebrazione della liturgia, racchiusa all’interno dei nostri templi, ma accordata al ritmo dell’universo, ne riceve un soffio e un’energia tanto più intensi quanto il mondo che la circonda, luminoso e cieco, le fornisce gli elementi naturali della sua poesia e dei suoi sacramenti.
Il ciclo liturgico sposa l’alternanza delle stagioni che formano un cerchio o, come dice il Salmo 44, una corona benedetta offerta dalla regale bontà di Dio. Ed ecco che il tempo liturgico si accorda al ciclo delle stagioni: il Natale, è mistero della nascita regale del Figlio di Dio, corrispondente al solstizio d’inverno (25 dicembre), durante il quale il sole annuncia la sua marcia vittoriosa in un movimento progressivo crescente, dove le tenebre indietreggiano di fronte all’avanzare della luce, mentre la Pasqua corrisponde a una rinascita della vegetazione, com’è felicemente sottolineato dal canto Salve festa dies: «La grazia del mondo che rinasceva attesta che tutta la creazione ritorna alla vita con il suo Signore. Dopo il suo triste soggiorno agli inferi, in onore del Cristo trionfante, dappertutto i boschi si coprono di vegetazione e i prati di fiori».
In tal modo la Chiesa, erede dei primi tempi della storia, quando fu sigillato il patto dell’uomo con l’universo, non ha respinto i legami dell’antico paganesimo: questo gusto della terra e del sole non le è uscito di bocca, ma li ha solo purificati, come ha purificato la sua alleanza con Cerere e Demetra, dee dei raccolti e della fecondità della terra, attraverso l’utilizzo di pane, vino, olio, acqua e sale per i suoi sacramenti e per organizzare il suo Ufficio regolato secondo il corso del sole nel cielo.

Preghiera e poesia

Ogni giorno della settimana, ai Vespri, gli inni del breviario romano narrano una fase della storia della creazione, come gli inni delle lodi cantano la luce del giorno che dissipa la notte. Con arte sovrana, la liturgia ci fa passare dal piano della luce creata a quello della luce eterna: ogni mattina, l’alba scaccia l’oscurità come il Cristo, luce del mondo, cancella le tenebre del peccato. La poesia liturgica fa brillare la speranza sulla vita quotidiana degli uomini con un’invenzione di freschezza incredibile. Così è per un famoso inno delle domeniche d’inverno, chiamato «inno del gallo» poiché ogni strofa menziona il grido di questo animale:

Al canto del gallo, la speranza rinasce,
i malati riprendono il gusto della vita,
il marinaio prende coraggio nella tempesta,
il brigante nasconde la lama del suo pugnale.

Il canto dei Salmi, trama della preghiera liturgica, fa scorrere immagini formando un corpo di poesia dal dinamismo potente e primitivo del quale si cercherà vanamente altrove un equivalente. Ecco come i Salmi parlano di Dio:
«[Il Signore è] Rivestito di maestà e di splendore, avvolto di luce come di un manto (Sal 103,2). [Egli] tocca i monti ed essi fumano (Sal 143,5). Cammina sulle ali del vento. Si sveglia come un guerriero inebriato dal vino. [Davanti a Lui] I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne (Sal 97,8). I monti saltellarono come arieti, le colline come agnelli di un gregge (Sal 113,4)». Sempre un’immagine o un verbo forte.
Ma la liturgia cattolica accordata al tempo, riscatta il tempo; immersa gioiosamente nella marea di creature, alle quali presta un immenso materiale d’immagini, trasfigura l’ordine creato e lo prepara alla sua ultima trasformazione. Del vino, bevanda naturale che scalda il cuore dell’uomo, ne fa una porpora regale che avvolge il mondo, lo riabilita e lo consacra con una consacrazione più augusta di quella conosciuta nel suo primo giorno della creazione.
Ecco ciò che diceva lo scrittore Louis Veuillot, all’uscita di una cerimonia per la dedicazione di una chiesa: «L’olio, l’acqua, il vino, il fuoco, la cenere, il sale, la cera, l’issopo, l’oro, l’argento, la pietra, la sabbia, tutto appartiene alla Chiesa, lei usa ogni cosa come una sovrana. La Chiesa accoglie ogni elemento, lo salva, unisce tutto. Il peccato ha distrutto l’armonia tra Dio e l’uomo e tra l’uomo e la creazione». E così concludeva, non senza ragione: «Il paganesimo deteriorava la natura, il protestantesimo la rifiutava, la Chiesa la consacra» [Les parfums de Rome].
Il rito della consacrazione — o dedicazione — di un tempio è la più sontuosa fra le cerimonie della Chiesa; chi vi assiste è testimone di un continuo ininterrotto incanto dal più alto lirismo. Due orazioni esprimono splendidamente il mistero del mondo cosmico illuminato dalla presenza divina. Ecco la preghiera di benedizione della calce e della sabbia: «Dio onnipotente, Tu che conservi quello che esiste sulla sommità, come in basso della scala degli esseri, che rinchiudi ogni creatura penetrandone l’essenza, santifica e benedici questa calce e questa sabbia che hai creato». E il grande prefazio pronunciato al di fuori della chiesa in direzione della porta principale, canta magnificamente: «O Santa, o Beata Trinità che purifichi tutto, lavi tutto, abbellisci tutto. O Beata Maestà di Dio che riempi tutto, abbracci tutto, disponi tutto. O mano di Dio, Santa e beata, che santifichi tutto, benedici tutto, arricchisci ogni cosa!...».
La Chiesa non consacra il mondo se non per offrirlo a Dio; e offrendolo, lo santifica e lo divinizza. Da dove viene questo potere della liturgia sul nostro universo se non da una connivenza profonda con il mondo dei segni? L’arte suprema della liturgia realizza a modo suo la speranza che espresse Charles Péguy: «Bisogna che la santità salga dalla terra». Fa salire verso Dio il canto delle creature, porta in lei solo ciò che è necessario della terra per tradurre in immagine e in simbolo il tesoro di realtà celesti. Tra i gioielli offerti alla Sposa del Cristo per «il dolce regno della terra», c’è la poesia liturgica. Questa liturgia è in comune con il mondo profano, in analogia agli Ebrei che partirono per la Terra promessa, portando con loro le ricchezze dall’Egitto. Non è da trascurare il fatto che si sia portato con sé qualcosa delle bellezze del mondo, l’aver saputo cioè tradurre il gemito inenarrabile dello Spirito santo come fondamento di ogni preghiera, unita alle innumerevoli voci della creazione. Questo suono fatto d’arte e di poesia che la liturgia fa salire fino al trono di Dio, Charles Baudelaire l’ha celebrato in un famoso poema evocante la creazione artistica nel corso dei tempi, intitolato I Fari:

È un segno, Signore, che noi possiamo porre,
come testimonianza di vera dignità
questo singhiozzo ardente che tra epoche trascorre
per morire sulle rive della tua eternità.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La sainte liturgie, in Itinéraires, n. 247, novembre 1980, pp. 105-121 (qui pp. 106-114), poi in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome I, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 191-213 (qui pp. 192-202), trad. it. delle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo]

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mercoledì 22 giugno 2011

Aspetti della spiritualità romualdina

Intendo illustrare tre aspetti che appaiono evidenti leggendo e meditando i documenti originali della spiritualità romualdina.
1. Il primo aspetto è la solitudine. Per S. Romualdo la solitudine interna ed esterna è condizione necessaria per vivere una vera vita contemplativa e “cercare Dio” e si concretizza nell’Eremo. S. Pier Damiani biografo di S. Romualdo scrive così di lui: “Ovunque in mezzo ai boschi avesse scorto qualche luogo ameno, sentiva accendersi nell’animo il desiderio della solitudine”.
S. Pier Damiani scrive “Alla vita solitaria sono particolarmente necessarie tre cose che debbono essere praticate con cura speciale e cioè: il ritiro in cella, il silenzio, il digiuno”.
S. Bruno Bonifacio, discepolo amatissimo di S. Romualdo, gli mette in bocca queste parole: «Stattene in cella come in paradiso! Gettati dietro le spalle il ricordo del mondo e sii attento ai pensieri come un buon pescatore ai pesci».
Il B. Paolo Giustiniani emulo di S. Romualdo e di S. Pier Damiani e riorganizzatore della vita eremitica camaldolese scrive pagine bellissime, quasi un inno alla solitudine e ne delinea l’assoluta necessità per i pellegrini dell’assoluto che sono i monaci.
2. Un secondo aspetto della spiritualità romualdina è questo: S. Romualdo tendeva a creare amicizie spirituali con i suoi discepoli. Il padre degli eremiti d’occidente, da vero figlio di S. Benedetto, si era formato sulle collazioni dei Padri del deserto, come consiglia il capitolo 73° della Regola, e, uomo di tradizione, mosso dallo Spirito del Signore, fra i suoi eremiti attuò la consuetudine antica che l’eremita anziano accogliesse nella sua cella il discepolo giovane. La vita esemplare dell’anziano era la prima e più importante lezione formativa per il giovane novizio. Accanto a ciò, S.Romualdo coltivava il colloquio spirituale tra padre e figlio oppure tra amici carissimi.
Questo aspetto della spiritualità romualdina, definito da uno storico laico “privilegium amoris” non è che l’attuazione perfetta del comando di Gesù: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”.
3. Un ultimo aspetto che emerge dalla figura di S. Romualdo è l’unione profonda e mistica con Dio, cercata e attuata con tenacia tra le bellezze silvestri dei monti, delle grotte e delle valli solitarie.
S. Romualdo e S. Pier Damiani con l’esasperata sete di penitenza, di solitudine, con il colloquio di anime con eccezionale potenza d’amore ed una inestinguibile sete di pianto giustificano la vita eremitica come vetta della perfezione monastica. Rimangono i figli legittimi di S. Benedetto.
Nelle esperienze vissute nel primo ambiente romualdino si vede con chiarezza che la contemplazione non è soltanto ispirazione intellettualistica e visione, ma carità ardente e commozione affettiva.
Concludendo, il fulcro della spiritualità romualdina è il primato dell’amore, questa è la meta dell’ascesi eremitica, questo ne è il frutto maturo. Il discepolo di S. Romualdo si apparta dal mondo per amore di Dio, stringe amicizie spirituali profonde per ricevere e comunicare l’amore di Dio, piange i suoi peccati e quelli dell’umanità per amore di Dio e ne è ricolmo di gioia.

[Estratto dall'articolo di Fra Mario Rusconi, fratello anziano della Comunità degli Eremiti della Beata Vergine del Soccorso, Aspetti della Spiritualità Romualdina, in L'Eco dell'Eremo, trimestrale curato dall'Eremo di Minucciano per la formazione degli Oblati, n. 9, settembre 1999, pp. 13-17]

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martedì 14 giugno 2011

Heiligenkreuz

Questa mattina si è svolta una conferenza stampa di presentazione del “Premio Ratzinger” istituito dalla “Fondazione Vaticana Joseph Ratzinger - Benedetto XVI”, che per la prima volta verrà conferito dal Santo Padre Benedetto XVI, il 30 giugno prossimo, a tre studiosi di teologia. Fra di essi – oltre al prof. Manlio Simonetti e al prof. Olegario González de Cardedal –, dom Maximilian Heim O.Cist., docente di Teologia fondamentale e dogmatica e da febbraio di quest’anno Abate del Monastero di Heiligenkreuz, in Austria, il più numeroso monastero cistercense d’Europa, considerato un bastione del “nuovo movimento liturgico”. Come recita il sito Internet del monastero, in esso “la liturgia viene divulgata dai monaci in modo mistico e devoto”.
Maximilian Heim O.Cist., è nato nel 1961 a Kronach, in Baviera. Entrato nel monastero cistercense di Heiligenkreuz in Austria nel 1983, fu ordinato sacerdote nel 1988. Lo stesso anno fu uno dei monaci fondatori del priorato tedesco di Bochum-Stiepel. Nel 1996 diventò maestro dei novizi a Heiligenkreuz, e poco dopo priore. Nel 2004 fu nominato priore a Bochum-Stiepel. Il 10 febbraio del 2011 è stato eletto Abate del monastero di Heiligenkreuz. Dal 1996 ha proseguito gli studi in vista del dottorato con il Prof. Dr. Bernhard Körner presso l’Istituto di Teologia morale e dogmatica dell’Università di Graz e si è laureato nel 2004 con una tesi sulla teologia di Joseph Ratzinger, intitolata Joseph Ratzinger - Esistenza ecclesiale e teologia esistenziale, orientamenti ecclesiologici fondamentali nel quadro delle richieste di “Lumen gentium” (Francoforte sul Meno 2004). Nel 2005 è uscita un’edizione riveduta e ampliata della tesi con una prefazione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, e nel 2007 fu pubblicata anche in inglese con il titolo Life in the Church and Living Theology. Dal 2007 è professore ordinario di teologia fondamentale e di dogmatica (ecclesiologia) all’Università di Heiligenkreuz. A Stiepel ha dato vita a una serie di conferenze accademiche chiamata “Auditorium”. Nel 2009 è stato chiamato a far parte del Consiglio Scientifico dell’Istituto Papa Benedetto XVI (a Ratisbona) e del Nuovo Circolo di allievi di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, e da allora accompagna come consulente la pubblicazione dell’Opera omnia di Joseph Ratzinger.
Qui di seguito il video con il canto del Veni Creator Spiritus nell’abbazia di Heiligenkreuz, durante i primi Vespri della Pentecoste, lo scorso 11 giugno 2011.


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giovedì 9 giugno 2011

Lo specchio del monaco

[I monaci eremiti di Minucciano, la cui comunità abbiamo già presentato in precedenza, hanno intrapreso la lodevole iniziativa della riproposizione di libri non più presenti nel circuito editoriale, creando con alcuni amici l’associazione non commerciale “Laboratorio della Fede”. Mentre è attualmente in fase di elaborazione un testo sulla liturgia, è appena stata pubblicata la riedizione (la prima trad. it. risale al 1943, per i tipi di Morcelliana) di un classico della spiritualità cristiana – Lo specchio del monaco, di dom Anselmo Stolz O.S.B. (1900-1942) –, in cui l’insigne autore – professore all'Anselmianum di Roma dal 1928 alla sua morte, noto per le sue opere L’ascesi cristiana e soprattutto Teologia della mistica, il cui insegnamento è segnato dall’importanza accordata alla spiritualità patristica e ai temi biblici utilizzati per esporla, nonché all’unità che egli mantiene tra Sacra Scrittura, liturgia, teologia, vita di preghiera e pratica dell'ascesi – unisce alla meditazione prolungata, tipicamente benedettina, della Parola di Dio, una profonda conoscenza della Tradizione monastico-patristica, il tutto distillato in una vita di continua ricerca di Dio. Ci accontentiamo di riprodurre un breve brano del libro, sollecitando i lettori di Romualdica a procurarsi copia del libro, per sé e i propri amici, che potrà essere richiesto allegando un’offerta, al seguente indirizzo: Eremo della Beata Vergine del Soccorso, 55043 Minucciano (Lucca)]

Una vita di preghiera personale basata sull’idea fondamentale della liturgia non è possibile senza una conoscenza profonda dello stato attuale, concreto, dell’umanità e del mondo sotto l’influsso del peccato. La mentalità nostra ha bisogno di essere formata a questo riguardo. Gli antichi asceti arrivavano a conseguirla per mezzo di una continua meditazione dei Libri sacri: sarà anche per noi la Sacra Scrittura il mezzo più adatto per introdurci nelle idee del mondo soprannaturale tanto necessarie per lo sviluppo della vita di preghiera. Ma la Sacra Scrittura potrà esercitare questo influsso soltanto se alimenta costantemente, giorno per giorno, la nostra anima, come il pane eucaristico.
Già gli antichi autori vedevano infatti una relazione intima tra l’Eucarestia e la Sacra Scrittura. Origene, per esempio, dice: «Voi che siete abituati ad assistere ai divini misteri, sapete bene come conservare il corpo di Nostro Signore che ricevete, con ogni cura e venerazione affinché nessuna particella si perda, affinché, niente del dono consacrato cada per terra… Pensate forse che sia minor delitto essere negligente nel trattamento della Parola di Dio che nel trattamento del suo corpo?» (In Exod. 13,3). La Sacra Scrittura dovrà essere certamente di una dignità speciale, se viene così paragonata con l’Eucarestia, se esige una simile riverenza, come il corpo del Nostro Signore. Una breve esposizione di alcuni pensieri dei Santi Padri farà meglio capire questa dignità della Sacra Scrittura, la necessità e l’utilità della sua lettura per la nostra vita interiore […]

[Dom Anselmo Stolz O.S.B., Lo specchio del monaco, trad. it., Laboratorio della Fede, Eremo della Beata Vergine del Soccorso di Minucciano (Lucca) 2011, p. 127]

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lunedì 6 giugno 2011

Continuitas

[Ci siamo occupati a più riprese del "filosofo contadino" Gustave Thibon (1903-2001), del quale abbiamo in varie occasioni tradotto su Romualdica alcuni scritti (fra cui, nel 2009 e in sei puntate, l’articolo L'equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola; nel 2010 un inedito; e nel 2011 l'in memoriam della rivista Cristianità). Una nuova occasione per offrire alcuni estratti dell'opera di Thibon ci è fornita dalla nascita del nuovo blog Continuitas, la cui visita raccomandiamo ai lettori, da cui traiamo il post Thibon: vera e falsa Tradizione]

Sinistra e destra nella Chiesa e la spiritualità: il progressista avanza senza tener conto dei parapetti e cade nell’abisso; l’integrista, per paura di cadere, si aggrappa ai parapetti e non avanza più…
(Gustave Thibon, L’illusion féconde, Fayard, Parigi 1995, p. 83)

La vera fedeltà non consiste [...] nell’impedire ogni cambiamento, ma più precisamente nell’impregnare ogni cambiamento di eterno.
(Gustave Thibon, Crisi moderna dell’amore, trad. it., Marietti, Torino 1957, p. 8)

Fedeltà e disponibilità — L’incapacità di legarsi a nuovi affetti appare ai vecchi amici come un pegno di fedeltà. Dovrebbero piuttosto dolersene, perché è quello un segno di esaurimento affettivo che non risparmia neppure il nostro attaccamento per essi. L’individuo impotente a creare nuovi vincoli non si trova in grado di mantenere vive le antiche affezioni e la sua fedeltà somiglia molto a quella dello scheletro per la bara o della pietra per il luogo ove giace. Cosi, una terra troppo esausta per dar vita a nuovo seme, non ha più neppur la forza di nutrire le piante che già regge. La grande illusione degli idolatri del passato sta nel disconoscere che il nostro potere di conservazione è rigorosamente proporzionato al nostro potere di rinnovamento e di creazione, sia nel campo della spirito che in quello del cuore. Quindi la loro fedeltà non è che saggezza e virtù da imbalsamatore.
(Gustave Thibon, Il pane di ogni giorno, trad. it., Morcelliana, Brescia 1949, pp. 16-17)

Lo spirito conservatore — Mi hanno dato del conservatore. «Eppure le conserve non mi piacciono proprio per niente», ho risposto. Preferisco consumare un cibo corruttibile a luogo e stagione e privarmene poi finché il ciclo dei giorni o i casi d’un viaggio me lo riportino sulla tavola piuttosto che averlo sempre a mia disposizione, artificialmente sottratto ai rischi della corruzione ed alle promesse della vita. Ma è pur giocoforza confessare che molte delle virtù conservatrici si richiamano a tecniche analoghe a quelle che presiedono alla fabbricazione dei prodotti conservati: l’impregnazione con lo zucchero, il sale o l’aceto (esistono virtù zuccherate e virtù acidule), e, più ancora, la sterilizzazione che uccide i germi vitali e l’imbottigliamento che sopprime gli scambi col mondo esteriore. Senza contare che non si tratta che di una fedeltà provvisoria, perché le conserve cosi ottenute finiscono sempre per alterarsi; la loro decomposizione infeconda e allora la peggiore di tutte… Non conosco che due forme sane dello spirito conservatore: la fedeltà viva che consiste nel prolungare il passato nel presente come le radici si prolungano nel fiori, e l’amore contemplativo che consiste nel proiettarlo nell’eternità: quella che fa rinascere le cose nel tempo e quella che le solleva al di sopra del tempo. Ma che importanza hanno le fedeltà senza rinnovamento, ed i sussulti che la morte accorda a moribondi che già possiede? E le virtù allo sciroppo, alla salamoia o al bagno-maria che uccidono la fecondità al fine di ritardare un poco la corruzione?
(Gustave Thibon, L’uomo maschera di Dio, trad. it., SEI, Torino 1971, p. 249)

La tradizione e l’avvenireLaudator temporis acti? — Che m’importa dunque il passato in quanto passato? Non vi accorgete che quando piango sulla rottura di una tradizione, è soprattutto all’avvenire che penso. Quando vedo marcire una radice, ho pietà dei fiori che seccheranno domani per mancanza di linfa.
(Gustave Thibon, L’uomo maschera di Dio, trad. it., SEI, Torino 1971, p. 258)

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mercoledì 1 giugno 2011

Il mistero pasquale continua

Augusto Mussini, detto fra' Paolo (1870-1918),
San Romualdo e cinque discepoli nella foresta
Durante la Notte pasquale, la santa Chiesa vi ha dato quel che ha di migliore: vi ha donato la caparra dell’eternità e voi ne avete ottenuto – alle due fonti del sacramento e della poesia – la sostanza. L’intero anno liturgico tende verso questo vertice, che è l’espressione cultuale dell’essenza del cristianesimo.
Ma il mistero pasquale non è un punto nello spazio. È una linea continua con la quale si deve identificare la linea della vostra vita: voi siete venuti in monastero per vivere il mistero pasquale, che consiste nel passare da questo mondo a Dio.
La Pasqua non finisce. La Pasqua è la transumanza dell’umanità redenta che passa dalla terra d’Egitto alla terra promessa, dalle tristezze del tempo alle gioie dell’eternità, dalla cella al cielo. Non si finisce mai di convertirsi.
Quando in forma di auspicio chiediamo ai nostri fratelli secolari di pregare per la nostra conversione, essi assumono uno sguardo confuso: «Se non siete convertiti voi, chi lo sarà?». Lo lasciamo dire, ma sapete che i nostri antichi, per significare l’ingresso in religione, impiegavano la formula «venire ad conversionem», «cominciare a rivolgersi a Dio». È un lavoro che dura tutta la vita e che ci assorbe interamente.
Nel Vangelo della terza domenica dopo Pasqua, leggiamo: «Un poco e non mi vedrete; un poco ancora e mi vedrete» (Gv 16,19). I Padri della Chiesa ci forniscono le «armoniche» di questa parola misteriosa, da cui consegue che il mistero pasquale si estende a tutta la vita, e che la vita è «un poco». Gesù allora scompare dai nostri occhi carnali: è il tempo della prova, la traversata del deserto, la notte della fede. Poi sarà la visione in cielo. Allora, prosegue Gesù, «la vostra tristezza si cambierà in gioia» (Gv 16,20). Già alla Pentecoste, lo Spirito Santo ci fa «gustare Gesù». Non è un modo saporito di vedere Gesù con gli occhi dell’anima? È la gioia nella fede.
«Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre» (Gv 13,1). Vedete che tutta la nostra vita, come quella di Gesù, consisterà nel passare da questo mondo a Dio. Notate tuttavia che per Gesù si trattava di una traiettoria tipica e sacrificale grazie alla quale ci preparava il sentiero, mentre per noi l’espressione passare da questo mondo a Dio indica più di un movimento locale, o anche semplicemente cultuale. Occorre passare strappandoci da questo mondo al quale una certa parte di noi rimane attaccata. Ecco ciò che assegna all’ascesi una parte essenziale nella spiritualità di Pasqua.
Osservate che san Paolo, nella Lettera ai Colossesi, dice che Dio ci ha strappati, rapiti, innalzati – come tradurre adeguatamente «eripuit nos»? –, «liberati dal potere delle tenebre» (Col 1,13) e che ci ha trasportati – «transtulit nos»: il verbo indica un’azione passata –, «trasferiti nel regno del Figlio del suo amore» (ibidem). Comprendete adesso il giubilo, direi quasi l’ubriacatura, della liturgia pasquale! Il termine non vi scandalizzi: si tratta della «sobria ebbrezza spirituale» di cui parla sant’Ambrogio
Il vocabolario mistico utilizza questa parola perché nello stato d’ubriacatura, l’uomo non si appartiene più.
Viviamo per Dio!
La liturgia pasquale riassume il mistero della Chiesa in ciò che essa ha di essenziale, di celeste, di permanente. La Pentecoste, l’Assunzione, Ognissanti: si tratta ancora del mistero pasquale. Ecco perché vi ho detto in altra occasione che, secondo san Paolo, noi siamo già passati al Regno. Lo stato di grazia suppone che la nostra anima bagni già nella luce dell’eternità. Ecco perché i cristiani sono della gente a parte. Sono delle persone diverse dalle altre. Esteriormente, certo, siamo degli esseri fragili e spesso ridicoli; abbiamo tutte le infermità della terra, talora addirittura le meno confessabili! Ma è sufficiente che il nostro sguardo s’innalzi e che diciamo «Padre nostro» per ricordarci che, in realtà, noi siamo una razza celeste.
Ebbene, la Regola benedettina non è altro che l’organizzazione di una vita in società in cui l’intera esistenza è una preparazione e – diciamo la parola – un’anticipazione della vita degli eletti in cielo. È una grande liturgia in cui tutti i gesti acquisiscono un valore sacrale, un valore di culto. Ecco un’esistenza del tutto ordinaria, ma trasfigurata dall’interno mediante la preghiera e i sacramenti, che si dispiega completamente in presenza di Dio con un profumo antico che ci proviene dal fondo delle epoche: come ai tempi di san Benedetto, noi conduciamo una vita semplice, contadina, familiare, dai ritmi lenti, senza lampi o colpi di scena; è la vita nascosta, come a Nazaret.
Ma è una vita esigente che domanda che si adottino dei costumi celesti.
Sarebbe davvero sconveniente, per non dire volgare, non fare caso a quel che ci regala la santa liturgia. Aprite i vostri messali, leggete le mirabili collette del Tempo pasquale e ditemi se non c’è in esse tutta una regola di vita, un metodo per dirci come vivere, come agire.
Colletta del Martedì di Pasqua: «concede famulis tuis ut sacramentum vivendo teneant quod fide perceperunt» («concedi ai tuoi servi di custodire nella loro vita quel sacramento che ricevettero mediante la fede»).
Ciò che abbiamo ricevuto con l’intelligenza della fede nella notte di Pasqua, si tratta ora di tenerlo nelle nostre mani per farne della vita!
Colletta del Venerdì di Pasqua: «quod professione celebramus, imitemur effectu» («riprodurre con le opere ciò che professiamo esternamente»).
Ecco cosa ci spinge nei nostri sogni! Non che ciò che abbiamo celebrato con una professione di fede così solenne durante la santa Notte sia un sogno (è anzi probabilmente, al contrario, la realtà suprema). Ma l’illusione nasce quando si pensa che sia sufficiente riferirvisi mentalmente. Con due parole energiche, la liturgia c’invita al più esigente realismo: imitemur effectu, riprodurre con le opere!
Tradurre in miele la luce caduta dalle corolle.
Quando trasformiamo in carità effettiva quello che traiamo dall’interno di questi testi, siamo veramente le api del buon Dio.
Vi ho detto che la santa liturgia ci dona la caparra dell’eternità. È rigorosamente vero. Il termine compare in san Paolo – «arrabon» (Ef 1,14) –, non solo il pegno, ma una garanzia reale (versare una caparra non consiste nel fare delle promesse, ma denaro contante!).
Il buon Dio ha sigillato l’unione nuziale del suo Figlio unigenito con la Chiesa concedendole una dote regale: i gioielli della sua liturgia e dei suoi sacramenti. Il fiume liturgico è una collana di perle. Ed è per suo tramite che ella ci parla dell’eternità.
Ella si comporta come fece Marco Polo al suo ritorno dalla Cina. L’episodio vi è noto: dopo ottant’anni di assenza eccolo sbarcare a Venezia con suo padre Nicola e suo zio Matteo. Tutti e tre indossano dei costumi asiatici, ma si dichiarano veneziani. Non si crede loro. Allora offrono un banchetto in città e poi, dopo la cena, si alzano in silenzio e in contemporanea si strappano i vestiti di dosso, lasciando cadere a terra rubini, zaffiri e smeraldi. Ecco, la santa Chiesa fa lo stesso: i diamanti della sua liturgia ci parlano dell’Altro Mondo!
Poi viene il Tempo dopo la Pentecoste, e la luce della Pasqua continuerà a diffondersi attraverso il Temporale e il Santorale; essa ci parla del cielo: approfittatene.
Sono contento perché uno di voi mi ha detto che gustava il pane quotidiano della liturgia, l’invisibile, l’elementare: quella strofa dell’inno, l’altro versetto del salmo, che recitiamo ogni giorno. Tutto è grande nella liturgia perché tutto viene da Dio e tutto risale a Lui con una sovrana efficacia.
Come dice dom Guéranger, «la preghiera della Chiesa è la più piacevole all’orecchio e al cuore di Dio, e perciò la più potente. Fortunato quindi colui che prega con la Chiesa, che associa i suoi voti particolari a quelli di questa Sposa cara allo Sposo e sempre esaudita».

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le mystère pascal continue, in Itinéraires, n. 244, giugno 1980, pp. 102-106, poi in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome I, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 185-190, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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