Da qualche anno, grazie a pregevoli studi sui Padri della Chiesa, è possibile misurare il radicamento storico e terreno del dramma liturgico. Si percepisce meglio come la minima cerimonia contragga il tempo, come racchiuda in sé stessa la storia sacra: Genesi, Esodo e letteratura profetica, con il suo vertice nel mistero di Cristo; come anch’essa annunzi e realizzi il Regno nella sua fase compiuta, dove Dio sarà tutto in tutti.
Dalla lettura dei Padri, in specie di Clemente Alessandrino, di san Massimo il Confessore e di sant’Agostino, si può cogliere come la liturgia della Chiesa si accordi al ritmo dell’universo, esso stesso paragonabile a un tempo immenso dove si celebra una liturgia perenne. Questi grandi dottori non insegnavano dunque solo i dodici articoli del Credo, ma istruivano su come guardare il mondo alla luce della fede, come fosse un abito luminoso di Dio, e la successione dei giorni come si trattasse dello svolgimento di un’azione sacra.
Non c’è forse nel nostro universo come un abbozzo di liturgia, un misterioso teatro fatto di canti e segni che attende che l’uomo gli dia il suo vero e completo significato? Nell’attesa «drammatica» della creazione (expectatio naturae), nella quale san Paolo vede un parto doloroso destinato alla manifestazione gloriosa dei figli di Dio [Rm 8,18-22], non possiamo forse includere quell’incredibile abbondanza di forme e ritmi, la coesistenza di segni che la loro essenza gerarchizza, dalla base immersa nella materia fino al culmine dove siede lo spirito, e vedere in questo theatrum mundi un gigantesco coro in attesa del suo direttore? Per san Massimo il Confessore, l’universo appare come «una chiesa cosmica la cui navata sarebbe il mondo sensibile, e il coro il mondo spirituale». Sant’Agostino è difensore di quest’ampia visione. Il mondo gli appare come un immenso poema: «Universi saeculi pulchritudo velut magnum carmen ineffabilis modulatoris» («lo splendore dell’universo intero è paragonabile a un grande poema, opera di un artista ineffabile»), dice nel suo commento sui Salmi. Seguiamolo su questa via.
Una teologia dell’immagine
Il regno animale e vegetale, l’abbondanza delle sue forme, l’alternanza delle stagioni, il ritmo delle ore segnate dal sole, l’esatta rivoluzione degli astri, tutto compone una liturgia silenziosa in stato di attesa, un’immagine nella quale Dio si compiace perché vi è impresso il suo segno che è la luce del Verbo. Il mondo è riempito di vestigia e di similitudini di Dio; la creazione è un’immagine del creatore, immagine innocente, non offuscata, ma ancora integra nel suo stato di gloria. Come non vedervi che la luce del sole è anche ora nuova, oggi, come quando il mattino della creazione i suoi primi raggi illuminavano la superficie del globo, e l’atmosfera che respiriamo come il sorso d’aria pura ancora vergine inspirato dal primo uomo al suo primo risveglio?
Questa novità delle creature viste nella loro purezza originale è il grande miracolo dell’esistenza; pochi esseri umani sono sensibili a essa, e pertanto, dopo l’elevazione all’ordine soprannaturale, è la più alta espressione del divino nell’ordine del creato. Essa permette di considerare seriamente l’idea agostiniana del mondo come poema di Dio.
Nel prologo di san Giovanni abbiamo una frase che esprime molto bene il mistero di questa comunicazione di luce che Dio trasmette alla sua creatura, significato sottolineato anche dalla punteggiatura che sant’Agostino dà alla frase. Ecco il testo sacro come lo si trova sui messali: «Omnia per ipsum facta sunt: et sine ipso factum est nihil quod factum est: in ipso vita erat, et vita erat lux hominum» [«Tutto è stato fatto da Lui, e senza di Lui niente è stato fatto di quello che è fatto. In Lui era vita e la vita era la luce degli uomini»]. E ora la punteggiatura scelta dal vescovo d’Ippona (sappiamo che nel testo originale non ne era indicata alcuna): «Omnia per ipsum facta sunt, et sine ipso factum est nihil» (Punto). Poi inizia un’altra frase: «Quod factum est in ipso vita erat!». Traduciamo: «Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui niente non è stato fatto (Punto). Quello che è stato fatto in Lui era vita».
Nel commento di sant’Agostino a questo testo si trova un’idea davvero bella e nobile: ogni cosa è viva perché abita eternamente nel pensiero di Dio, indipendentemente dal suo abito terreno più o meno misero: «Per quanto posso, ecco come ve lo spiegherò. Un artigiano fabbrica un armadio (faber facit arcam). Inizia concependo l’idea di armadio (in arte). Solo che l’armadio non si trova, in quanto idea, nella stessa condizione nella quale appare allo sguardo. Come idea esiste invisibile; una volta realizzata, esisterà nel visibile. Ecco ora che l’armadio è stato eseguito: ha smesso pertanto di esistere come idea?... Dunque bisogna distinguere: l’armadio senza la realtà non è vita, ma come idea è vita, dato che l’anima dell’operaio è viva, la quale racchiude tutto questo nella sua idea prima di produrla al di fuori. Allo stesso modo, cari fratelli, la Sapienza di Dio, attraverso la quale tutto è stato fatto, contiene in sé l’idea di tutti gli esseri prima di crearli. Guarda la terra, c’è anche un’idea di terra; osserva il cielo, c’è anche un’idea di cielo; sole e luna, esistono anche come idea; se nella loro realtà esterna sono dei corpi, nel pensiero divino invece sono vita (in arte vita sunt)» (Commento al Vangelo di Giovanni 1,17).
Ricordiamo questa espressione: in arte. L’ars è il piano dell’esecuzione, l’idea ispiratrice. San Bonaventura è vicino al pensiero di sant’Agostino quando afferma che il Verbo è l’arte del Padre. Questo comporta che l’universo creato è pensiero in atto, firma, immagine concreta emanata dal Pensiero divino. È per questo che san Giovanni aggiunge nel suo prologo: «et vita erat lux hominum»; il legame scaturisce da Lui stesso che unisce vita e luce. Tutto ciò che è stato fatto in Lui era vita, e la vita era la luce degli uomini.
È come dire che noi siamo illuminati dalla stessa luce divina che proietta al di fuori il magnum carmen, «il poema della creazione, opera di un artista ineffabile». Questa luce ci parla di Dio: «In lumine tuo videbimus lumen». È in questa tua luce che vedremo la luce, canta il Salmo 35. «Alla tua Luce», cioè nella luce creatrice che Dionigi chiama Autokallopoios — produttrice essa stessa di ogni bellezza — e che sant’Agostino denomina Saggezza o Arte; nella Luce divina, e solo in essa, possiamo percepire la verità delle creature, il loro carattere sacro e che incanta, il mistero della loro vocazione!
Come non vedere in questa grande opera della creazione così nuova e armoniosa, una lode naturale, un canto, un’ovazione, per non dire un’immensa liturgia cosmica? Questa interpretazione, che si diffonderà più tardi grazie alla fortuna che ebbe la teologia francescana, sembra accordarsi a ciò che c’è di più essenziale nel cattolicesimo; trova il suo fondamento dottrinale nei Padri greci secondo i quali non c’è valore creato, anche naturale, che non debba essere concepito come rassomiglianza e partecipazione alla luce del Verbo. Mimesis et metexis sono i termini che ritornano spesso nei loro scritti.
È in questo spirito che bisogna leggere la mirabile Gerarchia celeste di Dionigi l’Areopagita, la cui dottrina può riassumersi in tre parole chiave: immagine, effusione, partecipazione. Secondo questo autore, ogni cosa giunge a noi grazie all’illuminazione proveniente dalla «luce principale» (Archiphôtos) che «discende con bontà e in diversi modi fino agli oggetti della sua provvidenza… per convertirci all’Uno e alla semplicità deificante dell’unico Padre». In questo movimento di discesa della luce e nel riflusso ascendente di esseri illuminati e gerarchizzati dal Verbo, splendore del Padre, l’universo ritorna al suo principio in una celebrazione grandiosa dove la creatura umana si trova anch’essa inserita: «Noi stessi — scrive Massimo il Confessore —, attraverso il cambiamento della nostra natura presente, dapprima generati come tutti gli animali della terra, divenuti figli, trasportati dalla giovinezza alle rughe dell’età matura, come un fiore che dura un istante, morente per passare a un’altra vita, veramente, noi meritiamo di essere chiamati al gioco di Dio» (Mistagogia). Ritroviamo la medesima idea anche in Clemente Alessandrino, per il quale il Verbo è essenzialmente colui che «ha ordinato tutto con misura, avendo sottomesso la dissonanza degli elementi alla disciplina dell’accordo per fare del mondo una sinfonia» (Protrettico).
Ma questa sinfonia, compromessa dal peccato e dalla caduta dell’uomo, sarà nuovamente ristabilita e purificata dalla grande corrente d’azione redentrice del Figlio di Dio. Il Verbo incarnato non è solo Re della nazioni; egli esercita una sovranità su tutto l’universo, e la creazione acquisisce una nuova dignità non solo dopo che la terra si è fatta sgabello dei suoi piedi — scabellum pedum tuorum — ma anche dopo che i rivoli di sangue, sgorgati dalle sue sacre membra, l’hanno lavata in un universale fiume d’amore. Un inno della Passione esprime tutto ciò in una celebre strofa: «Mite corpus perforatur, sanguis, unda profluit: Terra, Pontus, astra, mundus quo lavantur flumine!» [«È squarciato il mite corpo, sangue ed acqua ne sgorgò: terra, mare, cielo e mondo quale fiume vi lavò»: Inno delle Lodi della Domenica delle Palme].
Una liturgia in sintonia con l’universo
Alla luce di questa dottrina, non sorprenderà constatare che la celebrazione della liturgia, racchiusa all’interno dei nostri templi, ma accordata al ritmo dell’universo, ne riceve un soffio e un’energia tanto più intensi quanto il mondo che la circonda, luminoso e cieco, le fornisce gli elementi naturali della sua poesia e dei suoi sacramenti.
Il ciclo liturgico sposa l’alternanza delle stagioni che formano un cerchio o, come dice il Salmo 44, una corona benedetta offerta dalla regale bontà di Dio. Ed ecco che il tempo liturgico si accorda al ciclo delle stagioni: il Natale, è mistero della nascita regale del Figlio di Dio, corrispondente al solstizio d’inverno (25 dicembre), durante il quale il sole annuncia la sua marcia vittoriosa in un movimento progressivo crescente, dove le tenebre indietreggiano di fronte all’avanzare della luce, mentre la Pasqua corrisponde a una rinascita della vegetazione, com’è felicemente sottolineato dal canto Salve festa dies: «La grazia del mondo che rinasceva attesta che tutta la creazione ritorna alla vita con il suo Signore. Dopo il suo triste soggiorno agli inferi, in onore del Cristo trionfante, dappertutto i boschi si coprono di vegetazione e i prati di fiori».
In tal modo la Chiesa, erede dei primi tempi della storia, quando fu sigillato il patto dell’uomo con l’universo, non ha respinto i legami dell’antico paganesimo: questo gusto della terra e del sole non le è uscito di bocca, ma li ha solo purificati, come ha purificato la sua alleanza con Cerere e Demetra, dee dei raccolti e della fecondità della terra, attraverso l’utilizzo di pane, vino, olio, acqua e sale per i suoi sacramenti e per organizzare il suo Ufficio regolato secondo il corso del sole nel cielo.
Preghiera e poesia
Ogni giorno della settimana, ai Vespri, gli inni del breviario romano narrano una fase della storia della creazione, come gli inni delle lodi cantano la luce del giorno che dissipa la notte. Con arte sovrana, la liturgia ci fa passare dal piano della luce creata a quello della luce eterna: ogni mattina, l’alba scaccia l’oscurità come il Cristo, luce del mondo, cancella le tenebre del peccato. La poesia liturgica fa brillare la speranza sulla vita quotidiana degli uomini con un’invenzione di freschezza incredibile. Così è per un famoso inno delle domeniche d’inverno, chiamato «inno del gallo» poiché ogni strofa menziona il grido di questo animale:
Al canto del gallo, la speranza rinasce,
i malati riprendono il gusto della vita,
il marinaio prende coraggio nella tempesta,
il brigante nasconde la lama del suo pugnale.
Il canto dei Salmi, trama della preghiera liturgica, fa scorrere immagini formando un corpo di poesia dal dinamismo potente e primitivo del quale si cercherà vanamente altrove un equivalente. Ecco come i Salmi parlano di Dio:
«[Il Signore è] Rivestito di maestà e di splendore, avvolto di luce come di un manto (Sal 103,2). [Egli] tocca i monti ed essi fumano (Sal 143,5). Cammina sulle ali del vento. Si sveglia come un guerriero inebriato dal vino. [Davanti a Lui] I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne (Sal 97,8). I monti saltellarono come arieti, le colline come agnelli di un gregge (Sal 113,4)». Sempre un’immagine o un verbo forte.
Ma la liturgia cattolica accordata al tempo, riscatta il tempo; immersa gioiosamente nella marea di creature, alle quali presta un immenso materiale d’immagini, trasfigura l’ordine creato e lo prepara alla sua ultima trasformazione. Del vino, bevanda naturale che scalda il cuore dell’uomo, ne fa una porpora regale che avvolge il mondo, lo riabilita e lo consacra con una consacrazione più augusta di quella conosciuta nel suo primo giorno della creazione.
Ecco ciò che diceva lo scrittore Louis Veuillot, all’uscita di una cerimonia per la dedicazione di una chiesa: «L’olio, l’acqua, il vino, il fuoco, la cenere, il sale, la cera, l’issopo, l’oro, l’argento, la pietra, la sabbia, tutto appartiene alla Chiesa, lei usa ogni cosa come una sovrana. La Chiesa accoglie ogni elemento, lo salva, unisce tutto. Il peccato ha distrutto l’armonia tra Dio e l’uomo e tra l’uomo e la creazione». E così concludeva, non senza ragione: «Il paganesimo deteriorava la natura, il protestantesimo la rifiutava, la Chiesa la consacra» [Les parfums de Rome].
Il rito della consacrazione — o dedicazione — di un tempio è la più sontuosa fra le cerimonie della Chiesa; chi vi assiste è testimone di un continuo ininterrotto incanto dal più alto lirismo. Due orazioni esprimono splendidamente il mistero del mondo cosmico illuminato dalla presenza divina. Ecco la preghiera di benedizione della calce e della sabbia: «Dio onnipotente, Tu che conservi quello che esiste sulla sommità, come in basso della scala degli esseri, che rinchiudi ogni creatura penetrandone l’essenza, santifica e benedici questa calce e questa sabbia che hai creato». E il grande prefazio pronunciato al di fuori della chiesa in direzione della porta principale, canta magnificamente: «O Santa, o Beata Trinità che purifichi tutto, lavi tutto, abbellisci tutto. O Beata Maestà di Dio che riempi tutto, abbracci tutto, disponi tutto. O mano di Dio, Santa e beata, che santifichi tutto, benedici tutto, arricchisci ogni cosa!...».
La Chiesa non consacra il mondo se non per offrirlo a Dio; e offrendolo, lo santifica e lo divinizza. Da dove viene questo potere della liturgia sul nostro universo se non da una connivenza profonda con il mondo dei segni? L’arte suprema della liturgia realizza a modo suo la speranza che espresse Charles Péguy: «Bisogna che la santità salga dalla terra». Fa salire verso Dio il canto delle creature, porta in lei solo ciò che è necessario della terra per tradurre in immagine e in simbolo il tesoro di realtà celesti. Tra i gioielli offerti alla Sposa del Cristo per «il dolce regno della terra», c’è la poesia liturgica. Questa liturgia è in comune con il mondo profano, in analogia agli Ebrei che partirono per la Terra promessa, portando con loro le ricchezze dall’Egitto. Non è da trascurare il fatto che si sia portato con sé qualcosa delle bellezze del mondo, l’aver saputo cioè tradurre il gemito inenarrabile dello Spirito santo come fondamento di ogni preghiera, unita alle innumerevoli voci della creazione. Questo suono fatto d’arte e di poesia che la liturgia fa salire fino al trono di Dio, Charles Baudelaire l’ha celebrato in un famoso poema evocante la creazione artistica nel corso dei tempi, intitolato I Fari:
È un segno, Signore, che noi possiamo porre,
come testimonianza di vera dignità
questo singhiozzo ardente che tra epoche trascorre
per morire sulle rive della tua eternità.
[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La sainte liturgie, in Itinéraires, n. 247, novembre 1980, pp. 105-121 (qui pp. 106-114), poi in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome I, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 191-213 (qui pp. 192-202), trad. it. delle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo]
Il Tempio della Creazione