giovedì 27 maggio 2010

Amico degli uomini

Signore Dio onnipotente, Dio benedetto, accordaci di portare a termine quest’opera che abbiamo iniziato io e i miei fratelli, affinché siamo degni di te, affinché tu possa abitare nei nostri corpi, nelle nostre anime e nei nostri spiriti, affinché siamo perfetti nell’amore, sempre, camminando alla tua presenza, secondo la tua volontà, affinché non pecchiamo contro di te, né provochiamo il tuo Spirito santo nel nome del quale siamo stati segnati, ma al contrario, siamo puri e immacolati davanti a te per tutti i giorni della nostra vita e meritiamo così il tuo regno celeste ed eterno grazie alla tua misericordia, o amico degli uomini.

[Sancti Pachomii vita bohairice scripta, ed. L. Th. Lefort, Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium 89, Lovanio 1925, 101, p. 270]

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martedì 25 maggio 2010

La croce, il libro e l'aratro

[Da 28 anni si svolge in Francia il Pellegrinaggio di Pentecoste “Notre-Dame de Chrétienté”, che raduna migliaia di pellegrini i quali si recano a piedi dalla cattedrale Notre-Dame di Parigi alla cattedrale Notre-Dame di Chartres, e che si conclude il Lunedì di Pentecoste con una Messa solenne nella forma straordinaria del Rito romano. Il 16 maggio 2005 la Messa di chiusura del pellegrinaggio fu celebrata da Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux. Riproduciamo di seguito una nostra traduzione dell’omelia pronunciata dall’abate in quell’occasione]

L’ultimo giorno del pellegrinaggio Gesù, ritto in piedi, avanzò tra la folla dei pellegrini e gridò loro a voce alta: “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva” [Gv 7,37-38]. Gesù parlava dello Spirito Santo che dovevano ricevere quanti credevano in lui. Quest’acqua viva la si è vista sgorgare durante questo intero pellegrinaggio, nella vostra gioia che è manifesta malgrado la fatica, la pioggia, e tutte le prove che conoscete. Si tratta della gioia cristiana, una gioia che non è di questo mondo, che sgorga dalla croce e sale verso il Cielo; la gioia cristiana – come ci dice sant’Ambrogio – è la sobria ebrezza dello Spirito: ebrezza per la pienezza di vita spirituale che eleva le anime a Dio nella fede, la speranza e la carità; e sobrietà perché la gioia dello Spirito non è un’esaltazione entusiasta, ma il frutto del sacrificio.
San Benedetto ha coltivato questa sobria ebrezza dello spirito. Ha considerato tutta la misura dell’ostilità e del pericolo che rappresentava la decadenza della società romana, la quale si trovava in punto di morte in un’esplosione di risa. Egli ha saputo costruire un bastione entro il quale fu possibile vivere l’autentica gioia cristiana, una piccola città cristiana dove infine regnasse il Vangelo. Sono queste piccole città che hanno dato le radici cristiane all’Europa, e che hanno reso san Benedetto il patrono del nostro continente. Se vi affacciate all’interno di una clausura monastica potrete percepire il segreto di questa gioia che ha fecondato l’Europa di spirito cristiano: vedrete una croce, un libro e un aratro. Poiché la vita monastica costituisce il cuore della vita cristiana, mi permetto di proporveli come punti di riferimento e fonti di gioia, a voi tutti che siete battezzati. Anche voi, in questi ultimi bastioni che sono le famiglie e le scuole, potete fare scorrere – ancora e sempre – queste fonti d’acqua viva.
La prima fonte della gioia cristiana è la croce, la croce che si trova al centro dei nostri altari e delle nostre chiese. Essa ci richiama il primato assoluto del culto divino su ogni altra attività umana; è una protesta contro il materialismo esacerbato della nostra società che finisce per svuotare la vita del suo significato. Al contrario, la liturgia dà alla vita il suo pieno significato, il senso della trascendenza assoluta di Dio sulle creature e sugli uomini. Ecco perché san Benedetto ha voluto regolarne tutti i dettagli, affinché Dio sia glorificato in ogni cosa. D’altro canto, la liturgia in san Benedetto è soprattutto il grande mezzo per giungere all’unione intima dell’anima con Dio e alla vita eterna. Per questo fa ritornare instancabilmente i suoi monaci nell’oratorio. San Benedetto ha dato alla preghiera la parte migliore del tempo, il momento migliore della giornata: non ha avuto paura di “rifiutare” tutto questo tempo per piacere a Dio solo. Non abbiate paura di prendervi del tempo per la preghiera. Non vi lasciate rubare il tempo dal mondo. Fate come san Benedetto, stabilitevi una regola di vita. Sono in gioco la gloria di Dio e la vita delle vostre anime. Non vi lasciate respingere dalle difficoltà. Ma che la vostra preghiera sia alla misura di quel Dio che vi ama, che è morto per voi sulla croce, affinché possiate vivere nell’eternità in sua presenza e nell’amore. Misurate la vostra preghiera sul vostro destino eterno, che è di diventare un alleluia vivente davanti all’Eterno.
La seconda fonte di gioia che troverete in un monastero è il libro, il libro che simboleggia la cultura. San Benedetto ha salvato la cultura antica e l’ha sviluppata esigendo dai suoi monaci che leggessero varie ore al giorno: ha così restaurato il culto del sapere e l’amore della verità. Ciò che non si fa senza difficoltà né senza lavoro, ma altrettanto non si fa senza ricompensa e senza gioia. Al giorno d’oggi è diventata una questione di vita o di morte per le anime e per la società. Perché gli spiriti hanno sempre più bisogno di questa maturità che la cultura rappresenta, per non essere trasportati da tutti i venti di dottrina che soffiano come una tempesta. Non si può che rimanere storditi dal successo mondiale di libri come Il Codice Da Vinci. Ma vi è una posta in gioco ben più terribile a più o meno lungo termine. Quella della pace. La cultura, in effetti, è una condizione indispensabile affinché gli uomini possano vivere insieme nella pace. La società nella quale viviamo è una cultura di morte. Una cultura che veicola in sé e che distilla nelle anime il suo veleno. Tale veleno è l’amore di sé fino al disprezzo di Dio e del più debole, è la ragione del più forte. Ecco perché dovete avere nelle vostre famiglie, nelle vostre scuole, nei vostri movimenti il culto del sapere e il culto della verità. Occorre inoltre che abbiate il genio di promuovere un’autentica cultura completamente penetrata dallo spirito cristiano. Leggete, quindi! Prendete il libro e leggete! Leggete la Sacra Scrittura, il Vangelo, leggete i Padri della Chiesa, sant’Agostino, san Gregorio Magno e tutti gli altri; conoscete la storia del vostro Paese, i poeti, i maestri spirituali e i pensatori. Solo se appollaiati sulle spalle di questi giganti che ci sono stati dati dalla Provvidenza, arriverete a vincere il principe di questo mondo e la sua cultura di morte, e a stabilire la civiltà dell’amore.
La terza fonte di gioia che scorre da un monastero è l’aratro con il quale i benedettini hanno dissodato le terre incolte per trasformarle in giardini fertili. Ciò significa che mediante il lavoro, il senso di dovere e di responsabilità, noi possiamo cambiare il mondo. Il segno più inquietante del decadimento è la perdita di speranza e del significato del bene comune. Non abbiate paura di lasciarvi coinvolgere completamente e di darvi totalmente a Cristo e alla sua Chiesa. Vi chiederà delle rinunce e molta fatica. Ma è solo perdendo la vostra anima in maniera disinteressata che la potrete trovare. L’uomo è fatto per l’aratro, è fatto per consacrarsi e lavorare a una causa che lo oltrepassa. Dom Gérard diceva in Demain la Chrétienté che per mettere in luce un po’ di cristianità occorre lo sguardo di Dio e secoli di sforzi e di virtù naturali. Siate ricolmi di speranza, mettete mano all’aratro.
Per concludere vorrei darvi un esempio di un uomo gioioso, molto gioioso, di quella sobria ebrezza dello Spirito e che vive della croce, del libro e dell’aratro. Si chiama Benedetto XVI. Lo si è presentato come un uomo autoritario e freddo. La verità è che egli è il servitore della gioia. Conosciamo il suo amore per la grande liturgia, la sua immensa cultura e il suo ardore nel lavoro. Con questi tre strumenti si è messo al servizio della gioia, la vera gioia del mondo e la gioia di Dio. Nella sua prima omelia, in piazza San Pietro, ci ha ricordato che siamo il frutto del pensiero di Dio e che non c’è nulla di più bello che lasciarsi raggiungere da Cristo. Che non c’è niente di più bello che conoscere e comunicare agli altri l’amicizia con lui. Ci ha ricordato che è un compito arduo e penoso, ma bello e grande perché in definitiva è un servizio reso alla gioia, alla gioia di Dio che vuole fare il suo ingresso nel mondo.

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venerdì 14 maggio 2010

Il Rosario - Istruzioni ai novizi / ultima parte

La meditazione dei misteri

I misteri del Rosario sono dei quadri di storia nei quali si riflette e si contempla la vita di Cristo e di sua Madre. Ciascuno contiene una virtù guaritrice, un'immagine che s'imprime - seguendo il ritmo dei Pater e delle Ave - nella nostra immaginazione, nella nostra sensibilità e nel profondo dell'anima. Le scene della vita di Cristo e di sua Madre diventano un poco alla volta la nostra propria storia: siamo noi che, con Maria, cerchiamo e ritroviamo il piccolo Gesù che insegna al Tempio; siamo noi a ricevere i primi raggi della gloria della sua risurrezione; siamo noi ad ascendere con lui al Cielo; e noi a ricevere, con Maria, in mezzo agli apostoli, le lingue di fuoco della Pentecoste.
Meditazione è un termine ingannatore. Si tratterà meno di un discorso intellettuale a proposito delle scene della vita di Gesù, piuttosto che di uno sforzo d'imitazione e di comunione alla realtà dei misteri. Ascoltate cosa dice il grande cardinale [Pierre] de Bérulle [1575-1629]: "Sono al passato quanto all'esecuzione, ma sono al presente quanto alla virtù; e la loro virtù non ha mai fine, né l'amore - per mezzo dei quali sono stati operati - avrà mai fine, lo stato interiore del mistero esteriore, l'efficacia e la virtù che rende tale mistero vivo e operoso in noi; anche il gusto attuale, la disposizione viva con la quale Gesù ha operato questo mistero, è sempre vivo, attuale e presente a Gesù. Questo ci obbliga a trattare le cose e i misteri di Gesù non come delle cose passate ed estinte, ma come cose vive e presenti, addirittura eterne, e di cui dobbiamo raccogliere un frutto presente ed eterno".
Gli atti della vita di Cristo avendo tutti un valore redentore, ogni scena - nel dispiegarsi delle Ave Maria - purifica la nostra anima e le comunica una virtù corrispondente al mistero contemplato. Metodo semplice, quantunque ricco e sapiente, il Rosario deposita nella nostra anima, a vari livelli di profondità e secondo i bisogni, una grazia d'unione e di similitudine a Gesù. A un tempo di soggettivismo, il Rosario oppone il primato dell'oggetto (ob jacet), ciò che sta davanti. Frutto di una pietà oggettiva e teocentrica - quella del secolo XIII, che innalza la facciata di Notre Dame di Parigi -, il Rosario fa anzitutto l'onore a Dio e alla sua Madre di dire e di proclamare che esistono: oh santa realtà, voi siete! Anzitutto, che io mi interessi di voi senza interruzione. Voi siete, voi esistete al di fuori di me, prima di me, superiori a me. Così, contemplandovi, io lodo e scompaio! L'umile recitazione della corona mi obbliga a uscire dal piccolo mondo umano - nel quale non mi trovo così a mio agio, se non perché vi avete lasciato una traccia di voi -, ma questa storia narrata dal Rosario finisce per interessarmi più delle mie misere disgrazie: man mano che la ripetizione prosegue, il mio sguardo si adatta al mistero, si eleva e prende posto nell'ufficio di lode.

Preghiera potente

Dai tempi di Lepanto, la Chiesa non cessa di fare l'esperienza della potenza del Rosario; i Papi non terminano di raccomandarne la recita, e Leone XIII ha scritto non meno di undici encicliche sul soggetto. Una di esse osserva che le tre serie di misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi, corrisponde ai tre mali più diffusi nell'umanità: il disgusto per la santificazione del dovere di stato quotidiano, l'avversione per la sofferenza e l'oblio delle gioie future dell'eternità.
Voi stessi che siete novizi nell'arte della preghiera (ma lo siamo tutti, per tutta la nostra vita!) avete spesso notato la potenza del santo Rosario. La corona meditata trae la sua virtù dall'influsso esercitato sui sensi: mediante queste specie di quadri viventi, l'anima è condotta nella solitudine del faccia a faccia con "corde d'amore" (Osea 11,4). Meraviglioso equilibrio del Rosario, che ci solleva senza frantumarci e non offre nulla di troppo sublime ai terrestri che siamo: semplici pagine del Vangelo alla portata del più piccolo fra noi. Nulla di troppo terrestre, peraltro, giacché le sue immagini sono icone di Dio: ciascuna è una porta del Cielo che apre sulla storia della salvezza. Potente orchestrazione dei misteri, dei quali ciascuno è come il contrappunto di una o più delle sette domande del Padre nostro. Per esempio: l'Annunciazione esprime e illustra la terza domanda (fiat voluntas tua); la Natività è una realizzazione della seconda domanda (adveniat regnum tuum); la Pentecoste manifesta la santità del Nome divino (sanctificetur nomen tuum). Si nota così meglio la centralità del Padre nostro, contenente in lui tutte le armoniche che la meditazione sviluppa. Ma salutare Maria piena di grazia, anche indipendentemente da una meditazione dei misteri, non è già vedere riflettersi in essa la santità del Nome divino, la realizzazione del suo regno, il compimento della sua volontà? Quando recitate Ave Maria, sappiate che intraprendete il più profondo e il più ricco commentario al Padre nostro.
Chiamato salterio dei laici, il Rosario è una preghiera potente perché esprime, come i salmi, tutta la gamma dei sentimenti e le aspirazioni dell'anima fedele. Potente per la sua presa di forza e la sua semplicità, lo è inoltre per la sua corrispondenza con la celebrazione dei misteri liturgici e le sante immagini che circondano il culto cristiano.

Come recitare il Rosario?

Semplice corona o Rosario meditato, poco importa, si tratterà sempre di accedere alla visione che feconda l'azione e dà un senso alla vita. Per arrivare a tale fine, alcune indicazioni non saranno di troppo.
Anzitutto, non cercare di pesare ogni parola; lasciare scorrere la recitazione, mantenendo lo sguardo sulla Santissima Vergine, su Nostro Signore o sull'insieme del mistero, con dolcezza e perseveranza.
Evitare di analizzare e discorrere; non sforzarsi di gustare, di sentire o immaginare; tutto ciò induce agitazione e violenza, poi fatalmente scoraggiamento. Mi ha detto un novizio: "Io mi unisco sempre al comportamento di Maria nel mistero in questione". Ecco in effetti un modo molto buono e assai semplice.
Consentire, nei giorni di aridità, a lasciare che la nostra recita ci sembri materiale, meccanica; umiliarsi senza dispetto, pazientare e rimanere pacificamente tesi verso Dio, al quale s'indirizza la nostra preghiera.
Considerare la ripetizione dei nomi benedetti di Gesù e di Maria come il rimedio più efficace contro le nostre miserabili inclinazioni: un semplice sguardo di fede sui misteri equivale a toccare il lembo del mantello di Cristo. "Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata [Mt 9,21]... da lui usciva una forza che guariva tutti [Lc 6,17].
Amare la regolarità: per ogni giorno vi è un gruppo di cinque misteri che si possono distribuire nelle ventiquattr'ore. Per ogni decina occorrono due minuti e mezzo: chi dunque non può donare nella propria giornata cinque volte due minuti e mezzo alla Santissima Vergine?
Infine e soprattutto, la migliore disposizione per recitare bene il Rosario è evidentemente la fede; fede nella realtà contemplata, fede e confidenza in una preghiera che la Santissima Vergine ha così spesso raccomandato. Fede, desiderio e amore. Fiducia filiale, contemplazione ammirativa verso questo mondo di bellezza virginale che si staglia sull'orizzonte del nostro universo cattolico.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le Rosaire. Instructions aux novices du monastère Sainte-Madeleine, in Itinéraires, n. 295, luglio-agosto 1985, pp. 146-154 (qui pp. 150-154), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 2 / fine]

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venerdì 7 maggio 2010

Gli oblati benedettini / prima parte

[Dom Jean-Martial Besse (1861-1920), benedettino della Congregazione di Solesmes, all’origine della famosa abbazia di Saint-Wandrille, fu uno storico erudito nonché il direttore spirituale dello scrittore Joris-Karl Huysmans (1848-1907)]

Gli ordini religiosi vedono raggrupparsi attorno alle loro comunità dei sacerdoti e dei fedeli che s’ispirano alle loro dottrine spirituali e alle loro regole per condurre, nel mondo, una vita seriamente cristiana. Quanti domandano questo servizio ai monasteri benedettini hanno ricevuto, già da molto tempo, il titolo di oblati di San Benedetto. Sono ammessi, dopo un anno di noviziato, a compiere un’oblazione, un’offerta della loro persona al monastero, nelle mani del Padre Abate o di un religioso delegato a tal fine. In caso di necessità questa delega può essere conferita a un sacerdote secolare. Il monastero accorda ai suoi oblati l’affiliazione spirituale, cioè la partecipazione alle preghiere e alle buone opere dei suoi membri. Il noviziato ha inizio con la presa d’abito, o vestizione; gli oblati ricevono in tale occasione uno scapolare nero, insegna della famiglia benedettina.
Il monastero benedettino conduce i monaci, che costituiscono la sua famiglia interna, alla ricerca della perfezione cristiana, mediante la pratica dei voti religiosi, conformemente alla Santa Regola e alle Costituzioni particolari di ciascuna congregazione monastica.
Gli oblati, che costituiscono la famiglia esterna del monastero, imitano la vita dei monaci, nella misura in cui le loro condizioni glielo consentono, conformando la loro vita alle massime fondamentali della Regola di san Benedetto e osservandone alcune pratiche claustrali compatibili con il genere di vita che devono condurre. Più che a seguire le osservanze della Regola benedettina, devono appropriarsi dello spirito di essa. Ciò nonostante, costoro non perdono di vista l’esistenza di servitori di Dio nel loro chiostro.
Per ottenere dal Signore la grazia d’imitarlo, anche da lontano, recitano la seguente orazione:
Excita, Domine, in Ecclesia tua spiritum cui beatus Pater noster Benedictus Abbas servivit, ut eodem nos repleti, studeamus amare quod amavit et opere exercere quod docuit. Per Christum Dominum Nostrum. Amen.
(“Alimenta, Signore, nella tua Chiesa lo spirito che animava il nostro beato Padre Benedetto Abate, affinché, una volta noi stessi colmati di esso, ci applichiamo ad amare ciò che amava e a realizzare nelle nostre opere la sua dottrina. Per Cristo Nostro Signore. Amen”.)

La conversione dei costumi

Donandosi a Dio, alla beata Vergine Maria e al santo Padre Benedetto, l’oblato promette la conversione dei costumi secondo lo spirito di san Benedetto [cfr. RB LVIII, 17] e gli statuti dell’oblatura. San Benedetto comprende in questa conversione dei costumi – conversio morum – l’insieme delle obbligazioni che impone la professione monastica. Del resto, al suo tempo i termini conversione dei costumi e professione monastica erano dei sinonimi.
Si tratta di una conversione dal male al bene e dal meno bene al meglio, che dura per la vita intera. La Santa Regola, le Costituzioni del monastero e l’autorità dell’Abate ne organizzano la pratica per il monaco e la monaca.
Una tale conversione equivale alla ricerca della perfezione cristiana; essa è dunque alla portata degli oblati e delle oblate che vivono nel mondo. Costoro la esercitano mediante la pratica delle virtù cristiane e la portano a compimento tramite i loro doveri di stato, con tutta la cura di cui sono capaci. L’opera di conversione dei costumi si effettua anzitutto nel fondo del cuore. Quando l’anima ha, su tale soggetto, delle convinzioni e delle risoluzioni fortemente radicate, le diventa agevole di esprimerle mediante gli atti.
Per ottenere tale grazia, è buona cosa recitare frequentemente il versetto dell’oblatura:
Suscipe me, Domine, secundum eloquium tuum et vivam, et ne confundas me ab exspectatione mea.
(“Accoglimi, Signore, secondo la tua parola, e vivrò: e non mi lasciar deluso nelle mie speranze” [Sal 118,116; RB LVIII,21].)

Lo spirito benedettino

Lo spirito benedettino, che deve informare la vita degli oblati, si manifesta ed è mantenuto dai caratteri distintivi dell’Ordine di san Benedetto. Eccone i principali: la separazione dal mondo, l’intelligenza e l’amore della liturgia, l’obbedienza, la mortificazione, il lavoro, la vita in famiglia, la devozione al prossimo e la fedeltà alle tradizioni.
Un monastero benedettino si riconosce fra mille da questi segni, che permettono ugualmente di discernere una vocazione benedettina.
Gli esercizi del noviziato e gli studi che si compiono in seguito hanno quale fine di coltivarne presso i nuovi arrivati il gusto e di trasmetterne l’intelligenza e l’amore. Le osservanze monastiche non fanno che metterli in opera.
I medesimi segni servono a riconoscere, presso un fedele, le attitudini richieste per diventare oblato. Non si può ammettere un oblato alla prima vestizione, e ancora meno alla professione, se nulla – nel suo linguaggio o nelle sue opere – lo rivela. Meglio sarebbe per un monastero non avere alcun oblato, piuttosto che reclutarne al di fuori di tali condizioni.
La meditazione personale e la lettura d’opere appropriate a conculcarne il significato e la portata, sviluppano nello spirito degli oblati questi caratteri; la direzione che è loro data li stimola e li guida; la loro santificazione personale ha questo prezzo.
Al di fuori di ciò gli oblati non potrebbero esercitare attorno a sé un influsso salutare. Perché tale influsso dev’essere esercitato: è l’irradiamento indispensabile della vita del monastero sulle società che lo circondano.

[Dom Jean-Martial Besse O.S.B. (1861-1920), Les Oblats de saint Benoît, opuscolo del 1918, poi in Itinéraires, n. 320, febbraio 1988, pp. 73-90 (qui pp. 73-77), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 1 / continua]

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martedì 4 maggio 2010

Il Rosario - Istruzioni ai novizi / prima parte

[Iniziato il mese di maggio, tradizionalmente dedicato a Maria, offriamo una traduzione d'istruzioni sul Rosario di dom Gérard Calvet, offerte nel 1985 ai novizi del monastero benedettino Sainte-Madeleine di Le Barroux]


Uno sguardo su Maria

Voi siete giovani e il Rosario è una preghiera antica. Ma se prendete l'abitudine di recitare il Rosario quotidianamente, tutta la vostra esistenza ne risulterà come profumata. Ciò che è capitale, è anzitutto di gustare la bellezza essenziale delle prime parole dell'Ave Maria; la loro efficacia, la loro virtù propria. Da dove proviene la forza sconcertante di queste parole, il cui brusio riempirà il mondo fino alla fine dei tempi?
Quando Bernadette Soubirous ricevette, di pieno peso, lo choc della visione celeste, estrasse immediatamente la sua corona e recitò il Rosario assieme alla Vergine, che si univa alla veggente al momento dei Gloria Patri. Sembra che Bernadette non sia stata formata in maniera sistematica alla meditazione dei misteri. Piccola giovinetta, rapita diciotto volte in una contemplazione del Cielo, ella rimarrà per tutta la vita fissa su questo avvenimento, dimenticando le ombre terrestri che l'avrebbero sviata dalla bellezza della sua Madre, riflesso della bellezza infinita di Dio.
Cosa faceva Bernadette recitando la sua corona? Nel corso delle sue visioni ci dice essa stessa cosa faceva: guardava. Come dirà più tardi: "La guardavo quanto più potevo... la grotta, era il mio cielo". E ancora, ciò che misura l'importanza di uno sguardo: "Quando si è vista una volta la Santa Vergine, si vorrebbe morire per rivederla!". Poi sarà il sentiero oscuro nei semplici sentieri della fede - per simplices fidei semitas -: guardare, nella fede, colei che un giorno l'aveva rapita dalle cose della terra, promettendole di renderla felice, non in questo mondo, ma nell'altro.
Sapere guardare! Sapere guardare Maria come lo faceva santa Bernadette; ah!, si tratta probabilmente della grazia essenziale che bisognerebbe domandare, quando si prega alla grotta di Lourdes. Ed è la grazia stessa del Rosario.

Una preghiera litanica

La ripetizione di una formula appartiene all'arte di pregare di tutti i tempi; essa non ha altro oggetto che di calmare i sensi e di fissare con dolcezza lo sguardo sulle cose invisibili. Risulta difficile arrestare il proprio sguardo su un oggetto senza esserne affaticati o distratti dalla mobilità dello spirito. L'Ave Maria, nella sua ripetizione semplice e regolare, è paragonabile a quanto compie nel mondo fisico un vettore d'onda. Il suo ruolo consiste meno nell'istruire, piuttosto che a captare e a sostenere un movimento dell'anima. Si tratta di poca cosa, non è vero? Ma ditemi: cosa si ripetono ininterrottamente i fidanzati della terra? Le povere parole di cui si accontentano i cuori amanti, non sono forse cariche di una realtà che oltrepassa i termini? Pervenuti a un certo livello di verità, le parole non vanno più cercate; sanno di essere impotenti, e accettano di essere ripetetute.
René Descartes ci ha giocato un brutto scherzo con le sue idee chiare e distinte. Capite bene che il tutto della vita soprannaturale oltrepassa di un bel po' il quadro delle classificazioni dello spirito! Il moto d'ammirazione per il quale l'anima è condotta da un grande spettacolo; il dolce trasporto del canto più banale; le intuizioni del cuore e quelle dell'universo poetico; tutto questo, e ben altro, rifiuta di lasciarsi rinchiudere nelle idee chiare e facilmente enunciabili.
Per dirla tutta, la recita del Rosario, come dei salmi, come le litanie del Santo Nome di Gesù, sono apparentate più al canto e all'effusione, piuttosto che all'insegnamento didattico. Ecco perché vi esorto ad apportarvi soprattutto la semplicità del cuore e lo spirito d'infanzia.

I due volti della salutazione

Avete già notato che nella salutazione angelica vi sono due parti che inclinano diversamente il movimento della preghiera. La prima implica un moto completamente d'ammirazione e di lode; la seconda è un'umile supplica. Tutti i movimenti dell'anima si riconducono a questi due tempi essenziali. Lo si nota in maniera manifesta nella preghiera di Gesù cara agli orientali: Gesù, Figlio di Dio - abbi pietà di me, peccatore.
La parte ammirativa unisce le parole di Gabriele a quelle di Elisabetta, ma le primissime parole, Ave gratia plena, meritano la nostra attenzione. Perché? Perché vengono da Dio; Missus est angelus a Deo. L'angelo è inviato da Dio; parla a nome del suo Signore; Dio è Egli stesso l'inventore di queste parole benedette, che attraversano il nostro cuore e lo trasformano giorno dopo giorno. Ammirando questo mondo di bellezza che è la pienezza della grazia, l'anima userà le stesse parole di cui Dio si serve, e per le quali Egli ci garantisce che l'interiore di Maria oltrepassa in bellezza soprannaturale tutto ciò che porteranno mai in sé stessi gli eletti e gli angeli del Paradiso.
L'altra parte dell'Ave Maria ci ricorda il nostro stato di peccatori e la fragilità della nostra condizione terrestre: nunc et in hora mortis! L'alternanza di queste due parti ricorda il paradosso della nostra vocazione: siamo interamente formati da una mescolanza di fango e di luce, di vita e di morte, di gemito e di allegria, di ammissione della nostra miseria e di contemplazione gioiosa.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le Rosaire. Instructions aux novices du monastère Sainte-Madeleine, in Itinéraires, n. 295, luglio-agosto 1985, pp. 146-154 (qui pp. 146-150), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 1 / continua]
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lunedì 3 maggio 2010

Grande silenzio perché il Re dorme

[In visita a Torino, nel pomeriggio di domenica 2 maggio 2010, Papa Benedetto XVI si è inginocchiato in venerazione davanti alla Santa Sindone. Poi ha letto alle monache e ai fedeli presenti in cattedrale la seguente meditazione]


Cari amici, questo è per me un momento molto atteso. In un’altra occasione mi sono trovato davanti alla sacra Sindone, ma questa volta vivo questo pellegrinaggio e questa sosta con particolare intensità: forse perché il passare degli anni mi rende ancora più sensibile al messaggio di questa straordinaria icona; forse, e direi soprattutto, perché sono qui come successore di Pietro, e porto nel mio cuore tutta la Chiesa, anzi, tutta l’umanità. Ringrazio Dio per il dono di questo pellegrinaggio, e anche per l’opportunità di condividere con voi una breve meditazione, che mi è stata suggerita dal sottotitolo di questa solenne Ostensione: “Il mistero del Sabato Santo”.
Si può dire che la Sindone sia l’icona di questo mistero, l’icona del Sabato Santo. Infatti essa è un telo sepolcrale, che ha avvolto la salma di un uomo crocifisso in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù, il quale, crocifisso verso mezzogiorno, spirò verso le tre del pomeriggio. Venuta la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato solenne di Pasqua, Giuseppe d’Arimatea, un ricco e autorevole membro del sinedrio, chiese coraggiosamente a Ponzio Pilato di poter seppellire Gesù nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia a poca distanza dal Golgota. Ottenuto il permesso, comprò un lenzuolo e, deposto il corpo di Gesù dalla croce, lo avvolse con quel lenzuolo e lo mise in quella tomba (cfr Mc 15,42-46). Così riferisce il Vangelo di Marco, e con lui concordano gli altri evangelisti. Da quel momento, Gesù rimase nel sepolcro fino all’alba del giorno dopo il sabato, e la Sindone di Torino ci offre l’immagine di com’era il suo corpo disteso nella tomba durante quel tempo, che fu breve cronologicamente (circa un giorno e mezzo), ma fu immenso, infinito nel suo valore e nel suo significato.
Il Sabato Santo è il giorno del nascondimento di Dio, come si legge in un’antica omelia: “Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme… Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi” (Omelia sul Sabato Santo, PG 43, 439). Nel Credo, noi professiamo che Gesù Cristo “fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, discese agli inferi, e il terzo giorno risuscitò da morte”.
Cari fratelli, nel nostro tempo, specialmente dopo aver attraversato il secolo scorso, l’umanità è diventata particolarmente sensibile al mistero del Sabato Santo. Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più. Sul finire dell’Ottocento, Nietzsche scriveva: “Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso!”. Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo. Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in modo particolare interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità.
E tuttavia la morte del Figlio di Dio, di Gesù di Nazaret ha un aspetto opposto, totalmente positivo, fonte di consolazione e di speranza. E questo mi fa pensare al fatto che la sacra Sindone si comporta come un documento “fotografico”, dotato di un “positivo” e di un “negativo”. E in effetti è proprio così: il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più luminoso di una speranza che non ha confini. Il Sabato Santo è la “terra di nessuno” tra la morte e la risurrezione, ma in questa “terra di nessuno” è entrato Uno, l’Unico, che l’ha attraversata con i segni della sua passione per l’uomo: “Passio Christi. Passio hominis”. E la Sindone ci parla esattamente di quel momento, sta a testimoniare precisamente quell’intervallo unico e irripetibile nella storia dell’umanità e dell’universo, in cui Dio, in Gesù Cristo, ha condiviso non solo il nostro morire, ma anche il nostro rimanere nella morte. La solidarietà più radicale.
In quel “tempo-oltre-il-tempo” Gesù Cristo è “disceso agli inferi”. Che cosa significa questa espressione? Vuole dire che Dio, fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema e assoluta dell’uomo, dove non arriva alcun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: “gli inferi”. Gesù Cristo, rimanendo nella morte, ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima per guidare anche noi ad oltrepassarla con lui. Tutti abbiamo sentito qualche volta una sensazione spaventosa di abbandono, e ciò che della morte ci fa più paura è proprio questo, come da bambini abbiamo paura di stare da soli nel buio e solo la presenza di una persona che ci ama ci può rassicurare. Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. È successo l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato “negli inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori. L’essere umano vive per il fatto che è amato e può amare; e se anche nello spazio della morte è penetrato l’amore, allora anche là è arrivata la vita. Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli: “Passio Christi. Passio hominis”.
Questo è il mistero del Sabato Santo! Proprio di là, dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della risurrezione. Ed ecco, mi sembra che guardando questo sacro telo con gli occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. In effetti, la Sindone è stata immersa in quel buio profondo, ma è al tempo stesso luminosa; e io penso che se migliaia e migliaia di persone vengono a venerarla – senza contare quanti la contemplano mediante le immagini – è perché in essa non vedono solo il buio, ma anche la luce; non tanto la sconfitta della vita e dell’amore, ma piuttosto la vittoria, la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio; vedono sì la morte di Gesù, ma intravedono la sua risurrezione; in seno alla morte pulsa ora la vita, in quanto vi inabita l’amore.
Questo è il potere della Sindone: dal volto di questo “Uomo dei dolori”, che porta su di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati – “Passio Christi. Passio hominis” – promana una solenne maestà, una signoria paradossale. Questo volto, queste mani e questi piedi, questo costato, tutto questo corpo parla, è esso stesso una parola che possiamo ascoltare nel silenzio. Come parla la Sindone? Parla con il sangue, e il sangue è la vita! La Sindone è un’Icona scritta col sangue; sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro. L’immagine impressa sulla Sindone è quella di un morto, ma il sangue parla della sua vita. Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita. Specialmente quella macchia abbondante vicina al costato, fatta di sangue ed acqua usciti copiosamente da una grande ferita procurata da un colpo di lancia romana, quel sangue e quell’acqua parlano di vita. È come una sorgente che mormora nel silenzio, e noi possiamo sentirla, possiamo ascoltarla, nel silenzio del Sabato Santo.
Cari amici, lodiamo sempre il Signore per il suo amore fedele e misericordioso. Partendo da questo luogo santo, portiamo negli occhi l’immagine della Sindone, portiamo nel cuore questa parola d’amore, e lodiamo Dio con una vita piena di fede, di speranza e di carità.

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