[Grazie alla cortese autorizzazione di Christophe Geffroy, direttore del mensile La Nef e autore dell’articolo, riproduciamo in trad. it. a nostra cura l’intervista al Padre Abate dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., Un monastère pour le XXIe siècle, comparsa in La Nef, n. 230, ottobre 2011, pp. 18-21 (qui pp. 20-21) / 2 - fine (la prima parte qui)]
Costruire un monastero mentre non si parla d’altro che di costruzione di moschee, non è forse un segno di “resistenza”, il simbolo che il cristianesimo non è morto nel nostro Paese?
È vero che ogni monastero ha la vocazione di essere una cittadella spirituale. La resistenza monastica a quello che lo stesso Padre de Chergé [Dom Christian de Chergé O.C.S.O. (1937-1996), priore del monastero trappista algerino Notre-Dame de l’Atlas di Thibirine] chiamava “l’invasione dell’islam”, non può essere che pacifica e indiretta. Se l’islam assume una tale importanza nell’Occidente cristiano, è perché quest’ultimo ha apostatato dalla sua fede e ha amputato le sue radici cristiane. La mentalità razionalista e anti-cristiana della cultura e delle politiche occidentali li rende assolutamente sprovveduti di fronte a questa grande “onda verde”. Il sindaco di una grande città francese – ancora situata in territorio concordatario – ha bene riassunto quest’attitudine incoerente, dichiarando d’imporre nelle mense, come segno d'apertura, delle pietanze halal [“lecito”, cibo preparato in modo accettabile per la legge islamica], e di rifiutare il pesce di venerdì, per laicità. Ma il problema rimane politico e ci oltrepassa. Torneremo forse a studiare i fondamenti anti-cristiani dell’islam e tutti i pericoli che esso rappresenta per la libertà, al fine di chiarire gli uomini di buona volontà. È nostra responsabilità, più sicuramente, proclamare con forza e dolcezza la nostra fede cristiana e pregare, alimentare il grande fiume soprannaturale che percorre invisibilmente le pieghe della storia per offrire un avvenire di luce.
A proposito di “crisi” delle vocazioni, essa non è dovuta, molto semplicemente, alla diminuzione del numero di cattolici praticanti? La “soluzione” non è dunque nella nuova evangelizzazione, in particolare della famiglia?
Credo che per la nuova evangelizzazione sia opportuno seguire l’esempio del Santo Padre alla GMG. Egli si è anzitutto rivolto ai giovani religiosi, poi ai seminaristi, ancora agli universitari e infine ai giovani del mondo intero. Ogni rinnovamento della Chiesa inizia con la riforma del clero e dei religiosi. Il Santo Padre ha esortato i giovani religiosi alla radicalità nella fede, radicalità nell’adesione a Cristo, alla Chiesa e alla loro missione. È valido per i vescovi, i sacerdoti e i diaconi. Se si vogliono toccare le famiglie, occorre rinnovare il clero e i religiosi, ridare loro il senso della radicalità. D’altro canto, è pur vero che la ricostruzione della famiglia, se possibile numerosa, è essa stessa una priorità, sia per la società sia per il fiorire naturale delle vocazioni.
Un’abbazia come la vostra, la quale ha conservato le proprie esigenze, non illustra forse che tutte le “soluzioni” alla “crisi” che vanno nella direzione del mondo – matrimonio dei preti, ordinazione delle donne, legittimazione dell’omosessualità per il clero, ecc. – sono votate allo scacco, come dimostrano gli esempi anglicani e protestanti?
Davanti a una Chiesa ammalata, è grande la tentazione di disperare e di rassegnarsi alle cure palliative, quasi per aiutarla a morire senza sofferenze. Tutte le soluzioni mondane e alla moda sono paragonabili alla bevanda che i soldati hanno proposto a Gesù sulla croce affinché soffrisse meno. Ma Gesù l’ha rifiutata. Non vi è ricetta, ma abbiamo la vera medicina: la fede soprannaturale in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, salvatore degli uomini, che ci ha aperto le porte del Cielo. La vitalità della Chiesa non è il prodotto d’industrie umane ma il frutto della grazia, ricevuta principalmente nei sacramenti, e la fedeltà alla Parola di Dio che ci è pervenuta attraverso il Magistero e la Tradizione.
Voi siete legati alla forma extraordinaria del Rito romano: perché questa scelta e come giudicate la situazione liturgica nella Chiesa latina, particolarmente dopo il motu proprio Summorum Pontificum e la recente pubblicazione dell’istruzione Universae Ecclesiae?
La scelta della forma extraordinaria del Rito romano risale alle nostre origini, a Bédoin, nel 1970. Questa scelta non è affettiva, ma è una preferenza motivata da ragioni di manifestazione più netta di talune verità della fede: carattere centrale, sacrificale e sacro, della messa, presenza reale del Signore nelle sante speci, distinzione essenziale del sacerdozio ministeriale del prete e del sacerdozio battesimale. Aggiungo che la forma extraordinaria manifesta altamente la continuità della Chiesa, perché la Chiesa non accetta né rotture né rivoluzioni, essa non muta il contenuto della propria fede. Per finire, l’orientamento ecumenico dato dal Concilio Vaticano II trova nella forma extraordinaria un ponte con le Chiese orientali e finanche con le comunità cristiane anglicane e luterane, dalle forme liturgiche ancora antiche. La situazione liturgica tende a evolvere nel buon senso. Lo vedo per esempio alla messa crismale del Giovedì santo alla chiesa metropolitana di Avignone. Ma occorre del tempo, perché come diceva Dom Gérard, basta una notte per bruciare una foresta, e cinquant’anni per farla ricrescere. In ogni caso, il Santo Padre ha sbloccato una situazione. La forma extraordinaria non è più considerata dai fedeli come abolita. Mi sembra che il fine attuale del Vaticano sia di diffondere la celebrazione di questa forma con tutto ciò che gli va appresso – catechismo, patronati, pellegrinaggi, ecc. – al fine, in un primo tempo, d’influenzare la celebrazione corretta della forma ordinaria. Siamo all’inizio dell’inizio. Dopo di che, Dio provvederà.
Le Barroux si è reso noto per la pubblicazione di studi importanti in accordo con la preoccupazione del Santo Padre di una corretta “ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità”. Per voi questo è importante, e come percepite i progetti di Benedetto XVI in materia?
Si tratta di un punto fondamentale. La Chiesa non ha il potere di darsi nuove costituzioni nel corso del tempo. Essa deve rimanere sé stessa, com’è stata fondata dal suo Maestro. Spetta ai pastori coltivare nella vigna del Signore lo spirito di fedeltà, di comunione con la Tradizione e i suoi sviluppi fondamentali, e quindi di presentare il Concilio Vaticano II non come una novità assoluta, ma come uno sviluppo organico o una riforma nella continuità. I pastori che si comportano diversamente dovranno renderne conto al Signore. Io non sono nei segreti del Santo Padre, ma constato che le sue allocuzioni illustrano bene l’urgenza di riprendere la nostra storia: da cinque anni, egli dedica le sue udienze generali a presentare i giganti della storia della Chiesa, partendo dagli apostoli, passando per san Benedetto, e per finire con santa Teresa del Bambino Gesù. Giunti a questo punto, ci parla dell’uomo di preghiera. Mi sembra che il suo progetto sia il radicamento, tema della GMG, radicamento nella nostra fede, nella nostra storia e nella preghiera. Era anche il progetto di Dom Gérard quando lanciò i lavori di Le Barroux: “Il sommo criterio, quello al quale desideriamo sacrificare tutto, non sarà l’emergenza, ma il radicamento”. Promette buoni frutti.