giovedì 29 novembre 2012

Salmodia e preghiera nella Regola di san Benedetto / seconda parte

Fra Mario Rusconi, fratello anziano della
Comunità degli Eremiti della Beata Vergine del Soccorso
Naturalmente questa pratica di vita dei cenobiti ed eremiti egiziani, che pregano incessantemente senza Ore di ufficio, viene considerato un rigore eccessivo ed inimitabile da monaci delle generazioni successive e anche da monaci contemporanei in altre zone geografiche. In ogni caso anche questi altri monaci tengano presente che il “Pregate incessantemente” deve essere il movente ispiratore dell’ufficio, anche là dove si celebra mediante le Ore, e che le Ore non sono altro che una sorta di pilone di ponte che passa dalla debolezza umana al compimento dell’invito di Cristo alla preghiera continua.
Abbiamo capito che nella tradizione monastica questo modo di concepire l’invito di Cristo e di tradurlo in atto è tipicamente della cultura monastica, non è qualcosa che sia corrente tra i cristiani laici, fuori dell’area dei monaci. Invece nell’ultima Cena, quando Cristo ha offerto la propria carne e il proprio sangue e dice: “Fate questo in memoria di me” – cioè, continuerete a mangiare questo pane e bere questo vino nei secoli, e lo farete in memoria di me – questo suo invito viene in qualche modo assorbito e inglobato nella celebrazione eucaristica all’interno della Chiesa, e ha assunto un aspetto istituzionale per tutti i cristiani. La preghiera delle Ore rimane qualcosa che riguarda la cultura monastica e coloro che vogliono avvicinarsi a questa cultura, ma all’inizio non era mai gestita, almeno come i monaci l’hanno intesa, dalla Chiesa.
La preghiera monastica è quindi qualcosa di profondamente privato, particolare e carismatico; e per me è un punto importante, perché il mio interesse personale per la spiritualità monastica rappresenta la ricerca di un modo per vivere il rapporto personale con Dio, che sia mio rapporto personale, oppure quello di un’altra persona, il che corrisponde alla tradizione monastica. Il senso dell’ufficio divino è che è il suo spirito originale sostiene la spiritualità anche del singolo laico che vive nel mondo, perché dà la possibilità di un rapporto più personale con Dio, essendo semplicemente un modo per rispondere all’invito di Cristo. Da una parte abbiamo in chiesa la celebrazione di un culto pubblico, e dall’altra ci sono degli uomini e delle donne consacrati a Dio, i monaci e le monache, i quali attraverso un loro sistema comunitario, una educazione in funzione di Dio, per la quale giorno per giorno scoprono come rispondere all’invito di Cristo. Parliamo ancora del monachesimo primitivo, perché è ciò che sta dietro alla Regola di San Benedetto, tuttavia, la situazione durante i secoli successivi si è molto evoluta.
I monaci di San Benedetto, coloro che per primi osservano la Regola, sono soprattutto persone che cercano di pregare senza sosta attraverso l’ufficio divino, e questo nel mondo monastico non ha di per sé un’opposizione con le altre attività; i monaci pregano in determinate ore, ma in realtà il monaco non è diviso nel suo tempo tra un’attività e l’altra, tra l’ufficio divino e il lavoro, tra l’ufficio e il pasto, tra l’ufficio e lo studio, perché il mondo in cui egli vive è profondamente omogeneo. Durante l’ufficio celebra Dio attraverso i salmi e la propria preghiera, e i salmi e la Sacra Scrittura in generale sono l’oggetto del suo studio durante la lectio divina, sono anche la lettura che egli ascolta durante i pasti, e ciò che pensa e medita durante il lavoro. In realtà, quindi, queste ore di ufficio sono i momenti alti di un’attività legata alla Scrittura che dura per tutta la giornata, e che occupa tutto il suo tempo. Essa collega le attività della giornata senza interruzione e discontinuità. Tutto il tempo è preghiera, e tutto il tempo del monaco è dedicato a Dio attraverso la sua parola.
C’è anche un antico costume monastico dell’Egitto, patria più prestigiosa della grande cultura ascetica, un costume che non valeva più ai tempi di San Benedetto, di pregare e lavorare in modo più integrato di quanto la Regola di San Benedetto e le altre regole monastiche contemporanee e successive prevedano: il monaco lavorava, in genere intrecciando canestri, un lavoro abbastanza semplice, e poteva pregare ininterrottamente, e quando andava in chiesa per le veglie notturne, poteva continuare a lavorare. Era un modo di fare forse tipicamente orientale, che poi in occidente, per motivi culturali e anche per i nostri limiti culturali, non era possibile praticare; ma nel mondo primitivo del deserto, relativamente semplice, aperto al massimo delle possibilità, i monaci durante le ore di preghiera notturna potevano pregare, recitare i salmi e intanto lavorare, in chiesa, oppure fuori all’aperto. C’era una specie di simbiosi a più livelli per questi uomini estremamente purificati spiritualmente in tutte le loro attività.
Tuttavia questa è un’età aurea che si spezza, e non è poi una visione delle cose condivisa da tutti. Per esempio Agostino negli stessi anni, quando è vescovo d’Ippona all’alba del V secolo, ai suoi monaci proibisce assolutamente di lavorare, perché teme le contaminazioni mondane dentro la Chiesa, e vuole dare a tutto l’ufficio un aspetto molto più sacro e ieratico, influenzato da una visione più clericale e meno monastico e ascetico rispetto agli egiziani.
Se abbiamo parlato fino adesso del senso spirituale anteriore dell’ufficio, senso ancora forte nel Maestro e in Benedetto, veniamo ora a parlare in particolare della salmodia. In che cosa consiste la salmodia? Anticamente l’ufficio era composto da salmi che venivano alternati ad orazioni. L’ufficio non era soltanto la recita vocale di salmi, ma dopo ogni salmo si fermava, si rispettava un attimo di silenzio e si pregava interiormente, ciascuno rispondendo dentro di sé alla parola di Dio. Non era una semplice recitazione ininterrotta dei salmi.
A cominciare da Cassiano si parla e si scrive esplicitamente di questo momento di silenzio dopo la recita di ciascun salmo; il Maestro, Cesario di Arles, un contemporaneo di San Benedetto, e anche un suo successore, il monaco irlandese Colombano, prescrivono ai loro monaci di rispettare questo momento di silenzio dopo ogni salmo. È una tradizione esistente, avvalorata, nel mondo monastico; San Benedetto, quando enumera i salmi da recitare nelle diverse occasioni, non ne parla, però è importante. Non possiamo scollegarlo dal discorso sulla preghiera incessante che abbiamo fatto: se l’ufficio delle Ore rispecchia l’invito di Cristo alla preghiera incessante, l’ufficio divino è articolato sulle due basi, sulla recita del salmo e anche sulla silenziosa risposta al salmo. E questo, perché abbiamo sottolineato che la preghiera monastica è qualcosa di personale, di carismatico, qualcosa che viene dall’io profondo, che non può essere semplicemente la gestione di una pratica, di un rito che viene ingiunto dall’esterno ma dev’essere un’espressione corale, composta, di qualcosa che scaturisce dall’interno, qualcosa di libero, di personale, che traccia il rapporto personale con Dio.
Intorno alla terza generazione della tradizione di regole monastiche, al periodo di San Benedetto e dei suoi contemporanei, questa orazione comincia a scomparire dai testi, un fatto sorprendente, data la sua importanza; tuttavia i motivi per questa scomparsa possono essere molti. Secondo l’interpretazione del padre de Vogüé, uno dei massimi studiosi della Regola di San Benedetto e delle antiche regole monastiche, il breve Capitolo 20 della RB sulla riverenza nella preghiera si riferisce piuttosto alla preghiera personale del monaco, che San Benedetto ricorda deve esistere, anche se non la inserisce esplicitamente all’interno del suo trattamento dell’ufficio. Dice San Benedetto:
“Quando ci rivolgiamo a persone autorevoli per ottenere qualcosa, osiamo farlo soltanto con atteggiamento umile e rispettoso. A maggior ragione non dobbiamo forse elevare con tutta umiltà e sincera devozione la nostra supplica a Dio, Signore dell’universo? E rendiamoci inoltre ben consapevoli che non saremo da lui esauditi per le nostre molte parole, ma per la purezza del nostro cuore e la compunzione fino alla lacrime. Breve e pura sia dunque la nostra preghiera, a meno che, sotto l’ispirazione della grazia divina, un particolare fervore ne sostenga la durata. La preghiera fatta comunitariamente però sia assolutamente breve, e, al segno di chi presiede, i fratelli si alzino tutti insieme” (RB 20).
 
[Da una conferenza del 13 novembre 2000 della dr.ssa Mariella Carpinello; testo tratto dal sito Internet della Conferenza Italiana Monastica Benedettine (CIMB) www.benedettineitaliane.org / 2 - continua]

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