Dom Guillaume Jedrzejczak O.C.S.O., Un cammino di libertà. Commento alla Regola
di san Benedetto, Lindau,
Torino 2013, 552 pp. Recensione di M. Geltrude Arioli OSBap, in Ora et Labora, n. 2 / 2013.
Leggendo
questo commento scorrevole eppure profondo si capisce subito che è espressione
di una vita: una vita di paterna attenzione alla comunità che si intreccia con
intelligenza d’amore con la vita di ogni singolo monaco e della comunità.
Opportunamente p. Roberto Nardin presenta l’opera sottolineando l’apertura di
orizzonti della spiritualità benedettina a tutti i battezzati in quanto tali.
Il commento di dom Guillaume aiuta infatti a riconoscere la vita monastica come
espressione piena e integra della spiritualità del Battesimo.
Non basta
rilevare in questo lavoro la concretezza della esperienza di vita monastica
nella duplice situazione – del monaco e del padre abate – . Ciò che colpisce di
più è la verità e la profondità di certe esperienze mistiche che affiorano nel
vissuto monastico. Quando l’Autore commenta il capitolo sull’obbedienza,
sottolinea in modo convincente che l’obbedienza è un cammino guidato dallo
Spirito Santo, un cammino di conformazione a Cristo: solo un’esperienza diretta
e profondamente sofferta ha consentito all’Autore di descrivere la “notte”
dell’abbandono totale del monaco, che, pur affidandosi completamente
all’obbedienza senza la minima resistenza, vive nell’oscurità del Getsemani (p.
121). Il titolo del commento “cammino di libertà” è ampiamente giustificato
dalla prospettiva in cui l’Autore, fedele interprete di San Benedetto, spiega
il distacco dalla volontà propria e la profonda coscienza della propria
fragilità che accompagna il cammino dell’umiltà con tutti i suoi aspetti
dolorosi: è proprio l’esperienza personale, concreta, che suggerisce all’Autore
di consigliare l’attenzione del monaco alla presenza del Salvatore, momento per
momento, per raggiungere il traguardo della maturità, ma senza lasciarsi
vincere dall’amarezza nell’accogliere le umiliazioni e rimanendo sereni di
fronte alla consapevolezza che l’amore vero consiste nel “riconoscere che non
so amare” (p. 189).
Spesso i
capitoli della Regola dedicati alla liturgia sono un po’ trascurati dai
commentatori, dato che l’ordo liturgico
è mutato. Invece con acutezza e profondità vengono qui evidenziate le ricchezze
spirituali di alcuni particolari, come il cantare l’alleluia o il fare uso di
testi dall’Apocalisse. È evidente che l’Autore ha vissuto e vive la bellezza
della vita monastica come “il grande salto nelle braccia di Dio” che consente
di accogliere il suo dono di grazia, di vivere umilmente il combattimento
quotidiano alimentando il desiderio e la ricerca del Signore. Fanno riflettere
profondamente certe asserzioni: “la vita monastica, se è vissuta in profondità,
finisce per risvegliare nel cuore del monaco un’infinita compassione, che non
viene da lui, per tutta la creazione... Discernere ciò che ci anima veramente
non è facile: siamo animati dalla nostra affettività o dalla nostra
compassione? San Benedetto in questo cap. 51, offre al monaco un solo criterio:
affidarsi... al proprio abate” (pp. 404-405). Leggere questo commentario, che
scaturisce dalla contemplazione e dall’esperienza di vita aiuta veramente a
cogliere le ricchezze spirituali della Regola anche nelle sue espressioni che
parrebbero secondarie e a metterne in luce l’attualità e la sapienza evangelica
come lievito non solo per l’ambito monastico, ma anche per chi vive nel mondo.