Noi,
come gli Efesini dell’anno 60 o 62, ai quali san Paolo scrive una magnifica
lettera nella quale dice che non siamo più ospiti
e stranieri ma concittadini dei santi e uomini della casa di Dio, noi
ameremo, molto più di ogni tesoro della terra, la grazia che la santa Chiesa
prodiga ai suoi figli quando li eleva al di sopra del tempo e dona loro un
assaggio delle gioie eterne. Il valore del fiume liturgico, carico di tutto
l’oro del mondo, risiede nel fatto che si getta nell’oceano della vita divina:
lo scorrere d’immagini e segni si arresta sulla soglia del santuario, non
lasciando penetrare se non le anime che passano dall’orazione alla preghiera
pura, quando acconsentono all’abolizione di segni e all’avvento della pienezza.
«Allora gli eletti — è scritto nell’Apocalisse — non avranno più bisogno di ceri poiché il Signore stesso sarà loro luce».
Alla
domanda su come gli attori del dramma liturgico siano condotti sul cammino
della Patria, e in quale misura possano avere accesso alla «Bellezza che chiude le labbra» (sant’Angela da Foligno), bisogna
rispondere che il cammino di ascesi si realizza su due piani. C’è, l’abbiamo
visto, il piano dei mezzi offerti dalla Creazione, materiale vasto di immagini
e di simboli; e c’è il piano della fine prevista, che è l’entrare all’interno
delle frontiere del mondo celeste. Si può dire, senza timore di sbagliarsi, che
lo spiegarsi liturgico nella sua interezza si snoda in un universo di figure e
di simboli che richiamano la nostra condizione di esiliati come anche il
mistero della nostra appartenenza alla Città di Dio. Siamo dunque invitati a porre
attenzione alla rete di segni che è indirizzata a noi. Il segno più evidente e
fondamentale verso il quale è richiesta la nostra massima attenzione, quello
che ci indica che abbiamo realmente passato la soglia del Regno, è la gioia.
L’invasione della gioia
«Che cos’è la liturgia?», domandava un giorno Carlo Magno al suo
ministro e consigliere Alcuino, che gli rispose: «La liturgia, è la gioia di Dio». Possiamo arricchire quest’affermazione
dicendo che essa è insieme la gioia di Dio e la gioia dell’intera creazione.
Ecco
ciò che canta l’Exsultet della notte
pasquale: «Che esulti il coro degli
angeli… che gioisca anche la terra (tellus) irradiata da tale splendore». E il prefazio della Messa di
Pentecoste evoca anch’esso il trasalire di gioia della creazione alla discesa
dello Spirito santo sugli apostoli: «Per
questo, inondati di gioia, l’umanità esulta su tutta la terra!». Allo
stesso modo, il Sanctus non evoca la condizione
di un universo sommerso dai flutti della gloria divina? «I cieli e la terra sono pieni della tua gloria». Ecco quello che
ci dicono i testi durante il tempo pasquale: «In Lui il cielo risuscita, il Lui risuscita la terra. Nella tua
risurrezione, o Cristo, il cielo e la terra gioiscono, alleluia!».
Questa
gioia, secondo il suo livello, che sia un’eco o che sia un’anticipazione del
soggiorno beato, si esprime liricamente, soprattutto attraverso il canto, la
luce, i paramenti bianchi, la processione.
Il
canto gregoriano è un’eco del cantico della Gerusalemme celeste. Alla Messa e
all’ufficio divino, il canto non è un ornamento facoltativo né un desiderio
lodevole di abbellire il culto. Il canto è un dato essenziale del culto
cattolico perché il culto sulla terra imita il culto celeste che è un canto di
lode e azione di grazie. È il grande panegirico dell’Apocalisse dove gli eletti e gli angeli formano un coro attorno
all’Agnello. E questo coro canta Amen e Alleluia. Amen: tutto è bene così; alleluia:
lodate Yahvé! Sono questi, dice sant’Agostino, i due clamori dell’eternità. Si
è dovuto attendere il secolo XII per vedere l’uso generalizzato delle Messe basse. Fino ad allora, la «celebrazione
dei divini misteri» — così si designava la Messa — era sempre accompagnata dal
canto e dall’incenso perché l’oblazione del sacrificio è attualizzazione della
croce e partecipazione alla liturgia del cielo.
Il
canto gregoriano esprime tutto ciò meglio di qualsiasi altro canto terreno
perché ci introduce in un mondo senza tempo dove è messa al bando ogni espressione
naturalista. Anche durante la settimana santa, la supplica e il dolore non
alterano la serenità di un canto che si situa al di sopra del dolore, come
l’ammirevole canto dei greco-slavi, con in più una nota di giubilo che
appartiene solo alla melodia gregoriana. La musica del Rinascimento ha prodotto
passi di bellezza incontestabile. Ma non è il canto proprio della Chiesa
latina. La Sposa
del Cristo non può riconoscersi neppure nell’espressionismo moderno che si
attacca alle emozioni sensibili, o anche sentimentali. I negro-spiritual respirano una tristezza melanconica dove il ritmo sincopato
a due tempi costringe come le catene che stringevano i cantori neri della Louisiana.
Ciò che manca a queste espressioni religiose è la luce della Pasqua, la gioia
del cielo, la gloriosa libertà dei figli di Dio condotti nel Regno del suo
amore [1].
I
paramenti e la luce sono anch’essi delle immagini della vita celeste. Derivano
dal più antico culto di Mosé, probabilmente anche da un dato ancora più
primitivo, legato a un simbolismo naturale. Al tempo della Chiesa primitiva,
giocavano un ruolo essenziale nella liturgia battesimale, nel corso della quale
i neofiti portavano l’alba di lino bianco che significava aver rivestito il
Cristo e ricevevano la candela che li designava come figli della luce: «Prima eravate tenebre, ora siete luce nel
Signore. Camminate come figli della luce». Questi due riti, accompagnati da
due ingiunzioni finali, formano la conclusione del rito battesimale attuale:
sono giunti a noi come testimonianza della teologia della veste e della luce per
esprimere la gioia.
Il
rito della processione rimanda sempre al cammino dell’umanità riscattata verso
il santuario del cielo. La
Chiesa è evidentemente l’immagine del paradiso; immagine
individuabile è visibile nell’architettura dei nostri templi di pietra: il
portale delle cattedrali raggiante di sculture che riproducono gli eletti,
segna la separazione con il mondo profano e l’ingresso nel mondo celeste. Tutte
le processioni terminano all’interno del santuario e imitano il movimento
ascendente della vita umana verso l’eternità. Questo è il senso che
suggeriscono le orazioni che accompagnano la processione della Candelora,
quella delle Palme e quelle di uso monastico.
Nella
cerimonia della Dedicazione di una Chiesa,
il carattere drammatico dell’ingresso nel santuario è sottolineato ancora dal
rito del bussare tre volte alla porta chiusa: il pontefice batte ripetutamente tre
volte con il pastorale (la croce) alla porta della chiesa dietro la quale si
trovano il diacono e gli accoliti che rappresentano gli angeli, e un dialogo
sublime si stabilisce tra una parte e l’altra.
Il
pontefice canta: «Elevamini portae
eternales», «apritevi porte eterne ed
entri il Re della gloria!».
Il
diacono risponde: «Quis est iste Rex gloriae?»,
«chi è il Re della gloria?».
Il
pontefice: «Dominus forti set potens,
Dominus potens in praelio», «il
Signore forte e potente, il Signore potente in battaglia».
Chi
non vede qui lo svolgersi come in filigrana della storia escatologica della
salvezza? Gesù il Cristo, gran sacerdote, vittorioso per mezzo del legno della
croce, penetra nel tempio celeste per celebrarvi alla fine dei tempi una
dedicazione eterna. Ciò che significa è vissuto dagli autori del dramma
liturgico.
Nel
rito bizantino della Messa solenne, le offerte sono portate in processione
dalla sacrestia all’altare. Il chierico, che rappresenta le gerarchie angeliche,
canta il mirabile Cherouvikon: « Noi che misticamente rappresentiamo
i cherubini e che in onore della
vivificante Trinità, cantiamo l’inno del tre volte santo, lasciamo con
sollecitudine ogni interesse mondano per ricevere il Re del creato,
invisibilmente scortato dalle milizie angeliche. Alleluia!».
Il sacrificio del cielo
I
Padri Jean-Jacques Olier
e Charles de Condren hanno messo in luce la famosa tesi del sacrificio del cielo, che ha fatto
colare fiumi d’inchiostro ed è stata aspramente criticata in ciò che presentava
di eccessivo. Oggi sembra si sia arrivati a un accordo, tuttavia non sulla
continuità dell’atto sacrificale di
Cristo-Sacerdote in cielo — poiché la Scrittura afferma, al contrario, che Gesù
Cristo è morto una sola volta [2] —, ma sullo stato sacrificale: Gesù, avendo conservato le stigmate della
Passione, appare nella gloria come vittima gloriosa di un sacrificio compiuto [3].
Se
si scarta l’idea di una morte sacrificale che si riprodurrebbe nell’eternità,
la tesi del sacrificio celeste cara alla Scuola francese, conserva il suo
valore. Padre de Condren ha su questo argomento delle idee illuminanti che
meritano di essere citate:
«Questo grande sacrificio
che Gesù Cristo fa a Dio in cielo con i suoi santi, offrendosi lui stesso con
loro, è lo stesso sacrificio che i sacerdoti e tutta la Chiesa offrono per loro
sulla terra nella santa Messa. Con questa differenza: la comunione che ricevono
i santi da Gesù Cristo in cielo è senza interruzione ed eterna, mentre la
nostra è giornaliera e passeggera giacché qui siamo soggetti alle vicissitudini
del tempo e alle necessità della vita presente, mentre in cielo non c’è altro
termine se non l’eternità e altra occupazione se non il sacrificio e la Comunione eterna. In
cielo i santi comunicano con Dio e con Gesù Cristo nel godere della sua vista
faccia a faccia, proprio come Egli è. Qui noi comunichiamo con Lui senza godere
della sua visione e lo vediamo solo con gli occhi della Fede… Nell’antica
legge, lo si aveva solo in figure senza la verità. Ora noi abbiamo la Verità sotto forma di
figure e in cielo, luogo di godimento e di luce, potremo essere appagati dalla
stessa Verità da scoprire senza veli».
Come
esprimere la relazione che esiste tra la Messa, la croce e lo stato di Cristo
glorioso? Il concilio di Trento dirà che la Messa è il rinnovo sacramentale non
cruento del sacrificio del Calvario e che nella Messa colui che compie il
sacrificio è la vittima stessa, è lo stesso sacrificio del Calvario. A ben
vedere il concilio di Trento affermava questo in funzione antiprotestante
poiché si negava che la Messa fosse un vero sacrificio e l’offerta sacramentale
fosse una vera vittima. Non si voleva relegare nell’ombra l’altro aspetto del
sacrificio, messo in luce dai Padri della Chiesa, secondo i quali la Messa è in
relazione diretta con la liturgia che si svolge in cielo. C’è in effetti
un’identità assoluta di essere e di azione tra l’Ostia deposta sul corporale e
l’Agnello celeste, il Kyrios della gloria.
Si
può affermare senza errore che la
Messa è il
sacrificio del cielo, perché ciò che il celebrante delle nostre Messe su questa
terra tiene tra le sue dita è il
Cristo glorioso, che si offre in quel momento alla maestà del Padre. È per
questo che non c’è un segno speciale nella Messa per rappresentare lo stato
celeste. Il pane eucaristico è una realtà
celeste: «panem coelestem accipiam…».
È ciò che suggerisce la pregevole preghiera Supplices
Te rogamus (dopo la consacrazione) [4], e i commentatori di quest’orazione
del Canone si esprimono tutti in maniera realistica. Non che Cristo discenda,
come per una specie di stato di bilocazione per trovarsi tra le dita del
sacerdote, ciò che sarebbe metafisicamente assurdo, ma al contrario nel senso
che è la comunità che accede a un livello superiore per cogliere il suo
Salvatore risuscitato come appare nella gloria.
Il
diacono Fiorenzo sottolinea i testi dove sant’Agostino celebra l’altare invisibile
sul quale il sommo Sacerdote offre il sacrificio eterno di lode perché «tutta la società riscattata, cioè l’immensa
assemblea dei santi, è offerta a Dio in sacrificio universale per il sommo
Sacerdote in paradiso».
Le
Supplices e i commenti che ne hanno
fatto i Padri ci liberano dalla falsa teologia del sacrificio che tende a far
credere che Cristo, come racchiuso nell’ostia, si trovi in uno stato diminuito
(in statu decliviori), così come da espressioni
infelici come il «divino prigioniero del Tabernacolo» e altri fiori di
eloquenza, più sentimentali che veridici, cari agli oratori del secolo XIX.
Molto più profonda e grandiosa è la prospettiva dei Padri della Chiesa e di
alcuni autori nutriti dell’antica base teologica che, come farà più tardi Padre
Olier, invita a vedere che c’è «un
sacrificio in paradiso, il quale nello stesso tempo è offerto sulla terra,
poiché l’ostia che si presenta è portata sull’altare del cielo. Ed è diverso da
questo sacrificio solo per il fatto che qui si presenta sotto veli e simboli e
lì è scoperto e senza veli».
Gli angeli tra noi
Sotto
questa luce si comprenderanno meglio le continue allusioni alla presenza degli
angeli nel culto cattolico. Fin dall’inizio della Messa è in presenza di tutta
la corte celeste e di san Michele Arcangelo che i fedeli della terra si battono
il petto. Anche il rito dell’incenso si fa per intercessione del grande
Arcangelo «che è alla destra dell’altare
dell’incenso» (messale romano). Durante il Gloria la comunità terrestre si associa alla liturgia degli angeli
per mezzo di una sola voce — una voce —,
l’espressione è molto profonda e richiede una spiegazione, per cantare insieme
il Trisagion, l’inno angelico per
eccellenza, il canto supremo con il quale i Serafini adorano il Dio tre volte
Santo che abita una luce inaccessibile. Al canto del Trisagion, scrive san Giovanni Crisostomo, «l’uomo è come portato lui stesso in cielo, è presso il trono della
gloria; vola con i Serafini, canta l’inno sacro».
L’affermazione
del grande Dottore non è un’iperbole. La Messa è un’avventura mistica di
portata incalcolabile. Il mistero della croce sanguinante si rinnova con
dolcezza, provocando uno squarcio nel paradiso. Il sogno di Giacobbe si
realizza: gli angeli salgono e discendono e la loro presenza affettuosa rende
più soave la nostra partecipazione all’austero sacrificio. Chiunque si accosti
all’altare suscita l’aiuto amichevole e l’ammirazione dei nostri fratelli
invisibili. Nel suo trattato sui misteri,
sant’Ambrogio avverte quelli che saranno illuminati:
«Vi mettete in cammino verso l’altare;
gli angeli vi guardano, hanno visto che vi mettete in marcia; hanno visto la
vostra condizione prima miserabile divenire ora sublime».
Ma
è la comunione al sacrificio eucaristico che realizzerà ciò che significano i
salmi, le luci, i simboli. La comunione sacramentale infatti non ci permette
soltanto di «ricevere» l’anima, il corpo, il sangue e la divinità di Gesù
Cristo; ci unisce in una specie di simbiosi nell’atto di culto del Figlio diletto
come si svolge nel santuario celeste: siamo uno con la persona di Cristo che
agisce come sacerdote e vittima. La conoscenza
prosegue nel co-agire in una realtà
dove si cancellano le frontiere del mondo terrestre con il mondo celeste.
Quando nel capitolo XII della Lettera ai
Romani san Paolo esorta i cristiani a offrire i loro corpi come ostie
viventi, sante, gradite a Dio — «sicut
hostiam viventem, sanctam, Deo placentem» —, il consiglio dell’apostolo
trova la sua realizzazione più perfetta nell’atto stesso della comunione
sacramentale che fa di colui che si comunica l’attore di una liturgia angelica,
filiale e celeste sotto lo sguardo amante di Dio creatore e Padre.
Il
terzo punto che si offre alla nostra meditazione è quello del legame intimo che
esiste tra rito e uomo, dell’educazione di questo attraverso quello e del
pericolo che comporta ogni svalutazione di questo legame vitale. L’anima
cristiana è così abituata all’atmosfera celeste, che circonda ogni minimo
aspetto liturgico all’interno del santuario, che rischia di non percepire lo
sconvolgente messaggio che le è indirizzato e il vuoto che lascerebbe la sua
scomparsa.
[1]
Nulla esprime meglio la nuova condizione del cristiano e lo stato di gioia nel
quale si trova che l’altisonante frase seguente di san Paolo: «Ringraziando con gioia il Padre che ci ha
messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui infatti
che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo
Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei
peccati» (Col 1,12). Il verbo
esprime bene un’azione passata: «ci ha
trasferiti», «transtulit». Il
battesimo ci ha trasportati in un altro mondo.
[2] «Cristo risuscitato dai morti non muore
più; la morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte,
egli morì al peccato una volta per tutte» (Rm 6,9-10). «Cristo è morto
una volta per sempre per i peccati» (1 Pt
3,18).
[3] «Vidi ritto in mezzo al trono circondato
dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello» (Ap 5,6).
[4] «Ti supplichiamo, Dio onnipotente: fa’
che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo, sia portata sull’altare
del cielo davanti alla tua maestà divina, perché su tutti noi che partecipiamo
di questo altare, comunicando al santo mistero del corpo e sangue del tuo
Figlio, scenda la pienezza di ogni grazia e benedizione del cielo».
[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La santa liturgia, trad. it., Nova Millennium Romae, Roma 2011, pp. 21-32]