San Giovanni Climaco (575 c.-650 c.) |
Le condizioni della
gioia
Anzitutto
si è avvertiti – senza sorpresa, se ci si pone dal punto di vista del Vangelo –
che questa gioia si situa al di là della rinuncia: il solitario – cioè il
monaco, nel vocabolario comune ai Mauristi e a Rancé, nonché conforme alla
tradizione – serve a Gesù Cristo “in una perfetta disoccupazione” [1]. Il suo
ideale è riassunto in formule dense e chiare, che avrebbero sottoscritto i
dottori monastici di tutte le epoche: “Non si può che essere d’accordo sul
fatto che la prima e principale obbligazione di un solitario sia di applicarsi
a Dio nel riposo e nel silenzio del cuore, di meditare incessantemente la sua
legge, di mantenersi in una perfetta disoccupazione da tutto quel che può distrarre
da ciò” [2]. Sarebbe vano cercare la gioia fuori da Gesù Cristo, da cui Rancé
dice, con poche mirabili parole, parlando del religioso: “Occorre che riempia
tutto solo la capacità del suo cuore” [3]. A questo prezzo si gode della “solitudine
dei chiostri”: “La pace vi è profonda, e Gesù Cristo, che è il Re della pace, e
che si compiace di ogni dove essa s’incontra, vi stabilisce il suo regno… [4].
Gioiremo di questa pace profonda che è la compartecipazione di coloro che s’impegnano
a fare la sua volontà… [5]. Per contro, colui che è infedele al suo stato
trascorrerà i suoi giorni nell’amarezza e finirà una vita miserabile con una
morte ancora più sfortunata” [6].
La
condizione di questa gioia in Dio è quindi la carità, “questa carità consumata,
che bandendo ogni timore, fa sì che gli uomini servano Dio sulla terra come gli
angeli lo servono in cielo, ovvero senza alcun timore dei castighi, ma per la
sola ragione della verità e della giustizia, per il solo amore che essi portano
a Gesù Cristo e per la consolazione che hanno di piacergli…” [7]. Tornano
frequentemente le parole “consolazione” e “consolare”, in formule come la
seguente: “Ecco, così mi sembra, alquanto per consolarvi…” [8]. Tali parole
rivestono tutto il loro significato alla luce di quanto è detto, nel capitolo
VII, Dell’amore di Dio: “Ameremo Dio
in spirito quando lo ameremo con la tenerezza e il sentimento del nostro cuore…”
[9], là dove sarà denunciato l’errore “di quanti fanno consistere l’obbligo di
amare Dio con una giustizia puramente legale, senza credere che sia necessario
amarlo per un moto del cuore” [10].
“Quando
le vostre viscere saranno sincere, non conoscerete più né dovere né precetto,
se non quello di amare; tutta la vostra consolazione sarà di alleggerire il
vostro cuore in sua presenza; non avrete né tempo né mezzi per dargli
testimonianza della vostra riconoscenza; ed esclamerete come il Profeta,
mediante continui trasporti: ‘Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me
benedica il suo santo nome. Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare
tanti suoi benefici’”
[11].
Proseguendo,
la differenza fra la cattiva tristezza e la vera “consolazione” sarà l’oggetto
di un’intera Questione [12].
“Fratelli,
dovete sapere che vi sono due specie di tristezza; l’una tutta umana, è brutta,
inutile, e dà la morte…
“Vi
è un’altra tristezza che è secondo Dio, che è santa, è utile, e sostiene le
anime anziché abbatterle… Essa è santa perché Gesù Cristo la produce in noi con
il suo sguardo e mediante l’operazione dello Spirito santo; essa è utile perché
ci fa spandere le lacrime che lavano le nostre anime e che allontanano le
macchie causate dai peccati; non si potrà dubitare che essa non consoli e non
dia la gioia, giacché un penitente non può vedere i suoi gemiti che come gli
effetti sensibili della misericordia che Dio gli ha già fatto, e delle
assicurazioni di quella che gli prepara. Così, cosa importa se un solitario,
che passa tutta la sua vita senza avere parte alle gioie della terra, sia
abbattuto sotto il peso del dolore e privato di ogni consolazione – come ce lo
si figura –, poiché al contrario, egli trova che il dolore della penitenza,
secondo san Giovanni Climaco, porti con sé un’allegrezza e una gioia
spirituale, come la cera racchiude il miele [13]; essa è sempre unita nell’anima
a un piacere dolce e bello, e Dio non manca di consolare, in maniera segreta e
invisibile, coloro che hanno il cuore come affranto da un’afflizione così santa.
“È
ciò che ha fatto dire al medesimo santo [14], che era perfettamente istruito
sui sentieri della grazia, che ‘il dolore vivo e profondo della penitenza
riceve la consolazione da Dio, come la purezza del cuore riceve l’illuminazione
dal cielo… Questa consolazione è un refrigerio dell’anima afflitta, la quale,
come un bambino, piange e grida in sé stessa con tenerezza e amore, e questo refrigerio
è un rinnovamento dell’anima sopraffatta dal dolore, il quale, per un
meraviglioso effetto, muta le lacrime amare e pungenti in altre lacrime dolci e
piacevoli’” [15].
[1] Cap. II, q. 2, t. I, p. 8. Il termine “disoccupazione”
appartiene al vocabolario spirituale del secolo XVII. Lo si trova per esempio
nel titolo di un’opera di Padre Jean-Chrysostome de Saint-Lô O.F.M., La désoccupation des creature et l’occupation
de Dieu seul, Parigi 1651. Altri autori dicono che il fatto di essere “liberi
da ogni altra occupazione che non sia ‘servire Dio’” ha per fine di rendere l’anima
“disimpegnata”; queste parole di Dom Philippe François sono citate alle pp. 326-327
dell’articolo in cui ho tratteggiato la sua dottrina, sotto il titolo Spiritualité vanniste et tradition
monastique, in Rev. d’ascét. et de mystique,
XXXVI (1960).
[2] Cap. V, q. 1, t. I, p. 62. In questo testo si
nota, oltre a un nuovo impiego del termine “disoccupazione, la menzione di quel
“riposo” e di quel “silenzio del cuore”, sui quali ho raccolto testimonianze
tradizionali in Otia monastica. Etudes sur le vocabulaire
de la contemplation au moyen âge, Studia Anselmiana, Roma
1963.
[3]
Cap. V, q. 4, t. I, p. 84.
[4]
Cap. V, q. 6, t. I, p. 136. L’idea che Cristo è “Re della pace” e la devozione
al suo “regno” sono attestate frequentemente nella spiritualità francese del
secolo XVII, come dimostrano i testi che ho raccolto con il titolo La royauté du Christ dans la spiritualità française
du XVIIe siècle, nel Supplément de la
Vie Spirituelle, I (1947), pp. 216-222 e pp. 291-307.
[5]
Cap. VI, t. I, p. 149.
[6]
Cap. V, q. 5, t. I, p. 104. Nel prosieguo (capitolo XIV, q. 2, t. I, p. 570)
Rancé parla “di quel riposo e di quella gioia interiore che lo Spirito santo
diffonde nelle anime che hanno cura di conservare la carità”.
[7] Cap. IV, q. 2, t. I, p. 56. Dopo la pubblicazione
del libro di Dom G. Columbas, Paradis et vie
angélique. Le sens eschatologique de la vocation chrétienne, Parigi 1961, occorre
ancora ricordare che le allusioni agli angeli non implicano alcun “angelismo”,
in Rancé non più che negli altri testimoni della spiritualità monastica? Il
sottotitolo dell’opera indica sufficientemente il significato del tema.
[8]
Ibid., p. 61.
[9]
Cap. VII, q. 2, t. I, p. 177.
[10]
Ibid., p. 182.
[11]
Cap. VII, q. 1, t. I, p. 154. È citato Sal
102, 1-2.
[12]
“Occorre che un religioso viva nell’abbattimento e nella tristezza senza alcuna
consolazione?”. Cap. XVI, q. 4, t. II, pp. 27-29.
[13] A margine, rinvio a Gradus 7, art. 50 (P.G., 88, 812 D).
[14]
A margine, rinvio a ibid., n. 56. I
testi citati sono tratti dal medesimo Grado
VII, P.G., 88, 813-816, che reca
il titolo Del pianto che
letifica l’anima.
[15] Cap. XVI, t. II, pp. 27-29.
[Dom Jean Leclercq O.S.B., “La
joie dans Rancé”, Collectanea Ordinis
Cisterciensium Reformatorum, 25 (1963), pp. 206-215 (qui pp. 208-210),
trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. / 2 -
segue]