giovedì 29 novembre 2012

Salmodia e preghiera nella Regola di san Benedetto / seconda parte

Fra Mario Rusconi, fratello anziano della
Comunità degli Eremiti della Beata Vergine del Soccorso
Naturalmente questa pratica di vita dei cenobiti ed eremiti egiziani, che pregano incessantemente senza Ore di ufficio, viene considerato un rigore eccessivo ed inimitabile da monaci delle generazioni successive e anche da monaci contemporanei in altre zone geografiche. In ogni caso anche questi altri monaci tengano presente che il “Pregate incessantemente” deve essere il movente ispiratore dell’ufficio, anche là dove si celebra mediante le Ore, e che le Ore non sono altro che una sorta di pilone di ponte che passa dalla debolezza umana al compimento dell’invito di Cristo alla preghiera continua.
Abbiamo capito che nella tradizione monastica questo modo di concepire l’invito di Cristo e di tradurlo in atto è tipicamente della cultura monastica, non è qualcosa che sia corrente tra i cristiani laici, fuori dell’area dei monaci. Invece nell’ultima Cena, quando Cristo ha offerto la propria carne e il proprio sangue e dice: “Fate questo in memoria di me” – cioè, continuerete a mangiare questo pane e bere questo vino nei secoli, e lo farete in memoria di me – questo suo invito viene in qualche modo assorbito e inglobato nella celebrazione eucaristica all’interno della Chiesa, e ha assunto un aspetto istituzionale per tutti i cristiani. La preghiera delle Ore rimane qualcosa che riguarda la cultura monastica e coloro che vogliono avvicinarsi a questa cultura, ma all’inizio non era mai gestita, almeno come i monaci l’hanno intesa, dalla Chiesa.
La preghiera monastica è quindi qualcosa di profondamente privato, particolare e carismatico; e per me è un punto importante, perché il mio interesse personale per la spiritualità monastica rappresenta la ricerca di un modo per vivere il rapporto personale con Dio, che sia mio rapporto personale, oppure quello di un’altra persona, il che corrisponde alla tradizione monastica. Il senso dell’ufficio divino è che è il suo spirito originale sostiene la spiritualità anche del singolo laico che vive nel mondo, perché dà la possibilità di un rapporto più personale con Dio, essendo semplicemente un modo per rispondere all’invito di Cristo. Da una parte abbiamo in chiesa la celebrazione di un culto pubblico, e dall’altra ci sono degli uomini e delle donne consacrati a Dio, i monaci e le monache, i quali attraverso un loro sistema comunitario, una educazione in funzione di Dio, per la quale giorno per giorno scoprono come rispondere all’invito di Cristo. Parliamo ancora del monachesimo primitivo, perché è ciò che sta dietro alla Regola di San Benedetto, tuttavia, la situazione durante i secoli successivi si è molto evoluta.
I monaci di San Benedetto, coloro che per primi osservano la Regola, sono soprattutto persone che cercano di pregare senza sosta attraverso l’ufficio divino, e questo nel mondo monastico non ha di per sé un’opposizione con le altre attività; i monaci pregano in determinate ore, ma in realtà il monaco non è diviso nel suo tempo tra un’attività e l’altra, tra l’ufficio divino e il lavoro, tra l’ufficio e il pasto, tra l’ufficio e lo studio, perché il mondo in cui egli vive è profondamente omogeneo. Durante l’ufficio celebra Dio attraverso i salmi e la propria preghiera, e i salmi e la Sacra Scrittura in generale sono l’oggetto del suo studio durante la lectio divina, sono anche la lettura che egli ascolta durante i pasti, e ciò che pensa e medita durante il lavoro. In realtà, quindi, queste ore di ufficio sono i momenti alti di un’attività legata alla Scrittura che dura per tutta la giornata, e che occupa tutto il suo tempo. Essa collega le attività della giornata senza interruzione e discontinuità. Tutto il tempo è preghiera, e tutto il tempo del monaco è dedicato a Dio attraverso la sua parola.
C’è anche un antico costume monastico dell’Egitto, patria più prestigiosa della grande cultura ascetica, un costume che non valeva più ai tempi di San Benedetto, di pregare e lavorare in modo più integrato di quanto la Regola di San Benedetto e le altre regole monastiche contemporanee e successive prevedano: il monaco lavorava, in genere intrecciando canestri, un lavoro abbastanza semplice, e poteva pregare ininterrottamente, e quando andava in chiesa per le veglie notturne, poteva continuare a lavorare. Era un modo di fare forse tipicamente orientale, che poi in occidente, per motivi culturali e anche per i nostri limiti culturali, non era possibile praticare; ma nel mondo primitivo del deserto, relativamente semplice, aperto al massimo delle possibilità, i monaci durante le ore di preghiera notturna potevano pregare, recitare i salmi e intanto lavorare, in chiesa, oppure fuori all’aperto. C’era una specie di simbiosi a più livelli per questi uomini estremamente purificati spiritualmente in tutte le loro attività.
Tuttavia questa è un’età aurea che si spezza, e non è poi una visione delle cose condivisa da tutti. Per esempio Agostino negli stessi anni, quando è vescovo d’Ippona all’alba del V secolo, ai suoi monaci proibisce assolutamente di lavorare, perché teme le contaminazioni mondane dentro la Chiesa, e vuole dare a tutto l’ufficio un aspetto molto più sacro e ieratico, influenzato da una visione più clericale e meno monastico e ascetico rispetto agli egiziani.
Se abbiamo parlato fino adesso del senso spirituale anteriore dell’ufficio, senso ancora forte nel Maestro e in Benedetto, veniamo ora a parlare in particolare della salmodia. In che cosa consiste la salmodia? Anticamente l’ufficio era composto da salmi che venivano alternati ad orazioni. L’ufficio non era soltanto la recita vocale di salmi, ma dopo ogni salmo si fermava, si rispettava un attimo di silenzio e si pregava interiormente, ciascuno rispondendo dentro di sé alla parola di Dio. Non era una semplice recitazione ininterrotta dei salmi.
A cominciare da Cassiano si parla e si scrive esplicitamente di questo momento di silenzio dopo la recita di ciascun salmo; il Maestro, Cesario di Arles, un contemporaneo di San Benedetto, e anche un suo successore, il monaco irlandese Colombano, prescrivono ai loro monaci di rispettare questo momento di silenzio dopo ogni salmo. È una tradizione esistente, avvalorata, nel mondo monastico; San Benedetto, quando enumera i salmi da recitare nelle diverse occasioni, non ne parla, però è importante. Non possiamo scollegarlo dal discorso sulla preghiera incessante che abbiamo fatto: se l’ufficio delle Ore rispecchia l’invito di Cristo alla preghiera incessante, l’ufficio divino è articolato sulle due basi, sulla recita del salmo e anche sulla silenziosa risposta al salmo. E questo, perché abbiamo sottolineato che la preghiera monastica è qualcosa di personale, di carismatico, qualcosa che viene dall’io profondo, che non può essere semplicemente la gestione di una pratica, di un rito che viene ingiunto dall’esterno ma dev’essere un’espressione corale, composta, di qualcosa che scaturisce dall’interno, qualcosa di libero, di personale, che traccia il rapporto personale con Dio.
Intorno alla terza generazione della tradizione di regole monastiche, al periodo di San Benedetto e dei suoi contemporanei, questa orazione comincia a scomparire dai testi, un fatto sorprendente, data la sua importanza; tuttavia i motivi per questa scomparsa possono essere molti. Secondo l’interpretazione del padre de Vogüé, uno dei massimi studiosi della Regola di San Benedetto e delle antiche regole monastiche, il breve Capitolo 20 della RB sulla riverenza nella preghiera si riferisce piuttosto alla preghiera personale del monaco, che San Benedetto ricorda deve esistere, anche se non la inserisce esplicitamente all’interno del suo trattamento dell’ufficio. Dice San Benedetto:
“Quando ci rivolgiamo a persone autorevoli per ottenere qualcosa, osiamo farlo soltanto con atteggiamento umile e rispettoso. A maggior ragione non dobbiamo forse elevare con tutta umiltà e sincera devozione la nostra supplica a Dio, Signore dell’universo? E rendiamoci inoltre ben consapevoli che non saremo da lui esauditi per le nostre molte parole, ma per la purezza del nostro cuore e la compunzione fino alla lacrime. Breve e pura sia dunque la nostra preghiera, a meno che, sotto l’ispirazione della grazia divina, un particolare fervore ne sostenga la durata. La preghiera fatta comunitariamente però sia assolutamente breve, e, al segno di chi presiede, i fratelli si alzino tutti insieme” (RB 20).
 
[Da una conferenza del 13 novembre 2000 della dr.ssa Mariella Carpinello; testo tratto dal sito Internet della Conferenza Italiana Monastica Benedettine (CIMB) www.benedettineitaliane.org / 2 - continua]

martedì 27 novembre 2012

Salmodia e preghiera nella Regola di san Benedetto / prima parte

Parliamo di un argomento estremamente importante, centrale, per quanto riguarda la dottrina benedettina, e per quanto riguarda la Regola, per la preghiera e la salmodia.  L’ufficio divino, come si sa, ha un posto centrale nella Regola.  Studiandolo, si riesce a entrare a largo raggio all’interno della Regola in tutti i suoi aspetti: direi che è un modo di entrare per la porta principale nella dottrina benedettina.  Non perché le altre parti siano inferiori, ma perché nell’ufficio divino e nella preghiera così come San Benedetto la concepisce c’è in qualche modo l’essenza non solo dello spirito benedettino, ma di tutta la tradizione monastica.
La Regola di San Benedetto è un testo, un programma di vita monastica, che ha avuto una fortuna straordinaria non solo nella storia del monachesimo, nella storia della spiritualità e della religione,  della Chiesa, ma semplicemente nella storia stessa, nella storia dell’uomo.  Nella storia dell’uomo in relazione a Dio credo che nessun altro altrettanto breve testo religioso o spirituale abbia avuto più importanza nell’occidente. Dopo le Sacre Scritture, forse, niente è stato altrettanto importante per la spiritualità cristiana.  Tutta questa grande gloria e funzione spirituale, sociale religiosa non discende tanto da un colpo di genio che San Benedetto può aver avuto nello scrivere qualcosa di nuovo o originale.  Discende sicuramente dal fatto che è un testo ispirato da Dio.  Ma non si tratta di qualcosa di assolutamente nuovo che in qualche modo possiamo ascrivere al solo merito di San Benedetto.  Invece il suo grande pregio e autorevolezza, la sua natura di seme fertilissimo capace di fioriture inimmaginabili deriva dal fatto che è una felicissima sintesi di una cultura spirituale e un patrimonio di valori, di esperienze e di eredità monastiche che già hanno diversi secoli quando San Benedetto scrive.  Egli scrive una regola che avrà una fortuna storica e spirituale grandiosa, ma lo fa a partire da tre secoli di esperienza monastica e quasi sei secoli di esperienza cristiana.  È soltanto allora spiegabile, non nelle semplici circostanze del Lazio del VI secolo, quando il testo venne alla luce, l’importanza e il valore del testo.
Ogni passo della Regola benedettina ha una risonanza secolare che dobbiamo imparare a decifrare e a comprendere, riportandola e riconducendola alle sue fonti, alle fonti della letteratura monastica precedente, alle fonti evangeliche, alle fonti scritturali che stanno dietro.  San Benedetto indica all’inizio dei suoi capitoli gli argomenti ivi trattati e i passi scritturali ai quali si ispira e dai quali discende la sua dottrina su ciascun tema, e quindi il passo scritturale sul quale noi tutti, religiosi e laici, dobbiamo ispirare la nostra condotta dal momento in cui ci allineiamo alla Regola, tenendo conto che discende dalla Parola di Dio.  Per esempio, nel Capitolo 7,  importantissimo, sull’umiltà, San Benedetto dice: “Chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14, 11).  E così quasi sempre, per il silenzio, per l’obbedienza, per tutto ciò che riguarda ogni aspetto della vita monastica, San Benedetto cita sempre la fonte.
Per quanto riguarda quella successione di capitoli che compongono la normativa che regola l’ufficio divino, Benedetto si rifà a due versetti di un salmo importante e lunghissimo, il 118, che dice “Sette volte al giorno ti lodo” (Sal 118, 164).  L’altro versetto citato da San Benedetto è “Nel mezzo della notte io mi alzo per renderti lode” (Sal 118, 62).  Questi due versetti vengono presi per inquadrare tutte quante le ore della preghiera nella giornata monastica, e poi anche la preghiera notturna. Il numero sette offerto da San Benedetto in questo contesto fa sì che le ore della preghiera così articolate siano sacre. Tale ci appaiono nel Capitolo 16, che brevemente illustra questo elemento.
Tuttavia, questo non esaurisce il senso dell’ufficio divino, perché i monaci preghino quelle ore particolari durante la giornata.  C’è un significato ulteriore che San Benedetto non cita esplicitamente, ma che possiamo ricavare, basandoci sulla fonte più diretta di San Benedetto, la Regola del Maestro, una regola anonima, scritta circa una trentina di anni prima di quella di San Benedetto, sempre nell’Italia centrale, e che costituisce la fonte più vicina nel tempo.  Ci sono poi infinite altre che risalgono nel tempo.  Leggendo questi testi riusciamo anche a completare il significato di ciò che San Benedetto ci illustra, e in questo caso riusciamo a capire attraverso il Maestro e gli autori che lo hanno preceduto qual è il senso interiore dell’ufficio divino.  E questo senso, che già era presente nella coscienza e nell’uso dei paleocristiani, era un invito di Cristo che è riportato dal vangelo di Luca specialmente, e poi da Paolo molte volte nelle sue lettere, e suona così: i discepoli chiedono a Cristo in che modo debbano pregare, e Cristo risponde: “Pregate incessantemente” (Lc 18, 1; 21, 36).  Questo “pregate incessantemente” è il senso dell’ufficio divino in San Benedetto, ma anche nella tradizione monastica antica.  Certo, non è un invito semplice, è molto enigmatico e anche difficile da vivere, per cui fin dai primi tempi del cristianesimo, quando si era costituito in forma di pensiero, nella patristica e anche al livello di esperienza delle prime comunità cristiane, gli autori antichi spirituali cristiani hanno cercato di dare a questo invito una soluzione: in che modo pregare incessantemente.  Se ne occupano specialmente Tertulliano, Cipriano e Origene  nei loro trattati sull’orazione.  Tertulliano se ne occupa in maniera più direttamente espressa nel suo De oratione, nei Capitoli 24-26.
Ora, i cristiani fin dall’inizio, siano i monaci che i laici, hanno tenuto ben presente che questo invito di Cristo è difatti l’unico precetto che egli ha dato in materia di preghiera, al di là del Padre nostro, che ha insegnato espressamente, e che è una formula già stabilita.  Ma sul come pregare, nel senso più vasto e esteso, questo è l’unica indicazione che Cristo ha dato.  Quando è nato il movimento monastico, lo sforzo di pregare incessantemente è stato tradotto in una tradizione che ha fissato momenti determinati.  Data l’umana debolezza, è impossibile praticamente tenere costantemente la nostra attenzione rivolta verso Dio, quindi sempre in un atteggiamento di preghiera, si sono fissate delle “Ore” quando questo nostro dovere viene richiamato all’ordine, in maniera più forte e obbligata, e la successione di queste “Ore” crea in qualche modo un senso di continuità, di una preghiera incessante.  Naturalmente, rispetto all’ideale alto di pregare sempre, questi momenti sono come dei punti su una linea infinita, e non offrono una perfetta continuità, e vengono disprezzati da alcuni autori, come per esempio Clemente Alessandrino, perché dal suo punto di vista, l’uomo che veramente ama e vuole raggiungere la perfezione deve pregare sempre e ovunque, e non distogliere mai la propria attenzione da Dio.
Questo è ovviamente una questione di una grande altezza utopica non facilmente realizzabile, ma tuttavia non vuole dire che la preghiera incessante non sia sempre sentita con grandissima forza, come una grande sfida alla debolezza umana e quindi qualcosa che deve suscitare l’eroismo nel monaco. Quando si era conclusa la stagione dei martiri e delle cruente persecuzioni, è nato il movimento monastico, i cristiani più ferventi hanno interpretato questo passaggio di epoca come una grande possibilità della preghiera incessante.  La nuova pace religiosa è stata inaugurata da Costantino e l’era dei deserti si è aperta, la stagione dell’anacoresi e del cenobitismo nei deserti, e finalmente la preghiera incessante poteva essere coltivata con più continuità e dedizione.  Di questo parla specialmente un autore affascinante, Giovanni Cassiano, che, a mio avviso, dovrebbe godere di un apprezzamento maggiore di quello che fino ad oggi ha avuto; è uno dei maggiori autori spirituali nella storia monastica, soprattutto perché ha viaggiato lungamente e sperimentato la vita tra i monaci orientali ai primordi, tra il secolo IV e V, e nelle sue Istituzioni cenobitiche racconta di questi monaci ferventi, che si radunano al mattino e alla sera per pregare, ma trascorrono tutta la giornata senza uffici.  Non perché non preghino, ma al contrario, perché pregano di continuo interiormente; hanno un fervore talmente alto, talmente perfetto da poter veramente dedicare tutto il loro tempo a Dio, senza distrazione.  E Giovanni Cassiano ci descrive questi eroici gloriosi padri, che gli rappresentano dei grandi modelli da seguire, o perlomeno da tener presente, anche in circostanze diverse, come ne scrive nelle Istituzioni, Capitolo III, paragrafo 2.
 
[Da una conferenza del 13 novembre 2000 della dr.ssa Mariella Carpinello; testo tratto dal sito Internet della Conferenza Italiana Monastica Benedettine (CIMB) www.benedettineitaliane.org / 1 - continua]

mercoledì 21 novembre 2012

Tre frati ribelli

M. Raymond, Tre frati ribelli. Storia e avventura dei fondatori dei monaci bianchi, 2a ed. it., Edizioni San Paolo, Milano 2011, pp. 304.
 
Sullo sfondo delle crociate, nella gloria trionfante della cavalleria, si stagliano le figure di tre eroi dello spirito, cavalieri di Dio, che diedero vita a uno dei movimenti più fecondi conosciuti nella storia della Chiesa: il monachesimo cistercense.  San Roberto di Molesme (c. 1028-1111), fedele e ribelle; sant’Alberico di Cîteaux (?-1108), umile e radicale; santo Stefano Harding (1059-1134), razionalista e inflessibilmente leale: sono questi i padri dei “monaci bianchi”, cistercensi e trappisti, che applicarono in tutto il suo rigore la Regola di san Benedetto e combatterono la loro battaglia spirituale con l’arma dell’amore, la corazza della povertà, lo scudo della semplicità e della solitudine. La loro intensa esperienza spirituale rivive in queste pagine, dove la biografia si sposa con il romanzo. In uno stile inconfondibile, l’autore – monaco trappista dell’abbazia statunitense Our Lady of Gethsemani – offre la possibilità di conoscere le radici di questo fenomeno e di scoprire il senso e la missione dei monaci “silenziosi”, che a più di un millennio di distanza, fanno rivivere sotto i nostri occhi l’entusiasmo e l’impegno dei loro fondatori. “Io chiamerei – scrive l’autore – questo libro un ‘romanzo agiografico’ o anche un ‘romanzo storico’; ma non accusatemi di scrivere una storia fittizia quando drammatizzo un fatto. Ciò che è fuori discussione è che sono fatti quelli che io drammatizzo. Meglio che ho potuto, ho separato la leggenda dalla storia, prima di collocare i fatti reali in questo racconto”.
 
 
 
 

lunedì 19 novembre 2012

Un mistero senza fine

Ecco che d’un tratto l’idea di liturgia presenta un contenuto di una ricchezza inaudita: non si tratterà più di un atto religioso sociale, che esprime la volontà sacrificale di un popolo o di una città, ma di questo mistero senza fine nel quale gli angeli desiderano fissare il loro sguardo (1 Pt 1,1-12): l’unione nuziale di Cristo e della Chiesa, l’azione del Verbo che prende l’umanità e la solleva sopra sé stessa per mezzo del suo sacrificio, dramma redentore avente per fine l’attirare à sé tutte le cose, quelle che sono in cielo e quelle che sono sulla terra, sotto l’influsso regale e sacerdotale del Figlio prediletto, per far esplodere la lode di gloria per la sua grazia (Ef 1,1-14). Ecco ciò che rappresenta per noi l’azione liturgica. Essa accoglie in sé tutto il mistero di Cristo; veicola fino a noi, in modo non cruento, sotto l’apparenza del pane e del vino, il dramma sacrificale e trionfale di Cristo, Sacerdote e Re. È per questo che tale azione si circonda di tanta solennità; per cui una Messa bassa, non comunitaria e non cantata, sarebbe stata percepita come anomala per le prime generazioni cristiane, talmente era vivo nel cuore di quella comunità il sentimento di partecipazione al mistero nel quale si consuma vittoriosamente la storia della salvezza, sotto il segno delle Nozze dell’Agnello.
Ai loro occhi era una realtà così grande, così ineffabile, che il vocabolario cristiano non possedeva parole adeguate per descrivere l’azione liturgica. Il contenuto di quest’azione, di una ricchezza quasi infinita, lo si designava con una sola parola: mysteria, al neutro plurale, o sacramenta, che ha esattamente il medesimo significato, o meglio ancora sacro sancta. La Messa e il mondo sacramentale che ne derivava costituivano la più alta espressione della vita cristiana.
Riteniamo che il sentimento di partecipazione all’unione del cielo e della terra – «O vere beata nox, in qua terrenis caelestia, humanis divina coniunguntur!», «O notte veramente gloriosa, che ricongiunge la terra al cielo e l’uomo al suo creatore!» (Exsultet della Veglia pasquale nella notte santa) – e al culto di questa Gerusalemme celeste, di cui i profeti annunciavano la magnificenza, fu l’elemento decisivo che suscitò nell’anima dei primi cristiani la generosità al martirio come pure la lieta visione dell’eternità trovandosi di fronte alla tragica imminenza delle persecuzioni.
Così, fino alla fine del mondo, l'anima cristiana troverà nella liturgia questa fonte di vita alla quale si sono abbeverati i nostri avi, e la visione che conservava nella loro attesa. Forse, la scuola liturgica è la sola capace, oggi come ai tempi della Chiesa primitiva, di sollevare la cappa di piombo del nostro mondo materialista e d'infondergli di nuovo il gusto della vita eterna.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La santa liturgia, trad. it., Nova Millennium Romae, Roma 2011, pp. 37-39]

venerdì 16 novembre 2012

L’anima di ogni apostolato

«Una casa senza biblioteca è come una fortezza senza armeria»
(da un antico detto monastico)
 
Dom Jean-Baptiste Chautard O.C.S.O. (1858-1935), L’anima di ogni apostolato, reprint dell’8a edizione (Paoline 1958), pp. 311
 
[La Libreria online san Giorgio (www.libreriasangiorgio.itoffre la possibilità di acquistare il libro a un prezzo scontato del 15% (euro 6,60 anziché 7,75), spese di spedizione incluse. Per ordinare il libro con lo sconto indicato, è sufficiente inviare una mail all’indirizzo info@libreriasangiorgio.it, indicando chiaramente i propri dati e l’opera desiderata, e facendo riferimento alla “Promozione ACLibri”. L'invio verrà effettuato tramite spedizione postale e il pagamento dovrà essere effettuato con conto corrente postale dopo il ricevimento del libro]
 
Dopo il Trattato della vera devozione alla Ss.ma Vergine, scritto da san Luigi Grignion di Monfort, un altro libro che diede un inestimabile beneficio alla mia vita spirituale e alla mia vocazione contro-rivoluzionaria fu L’anima di ogni apostolato, scritto dal celebre abate trappista dom Chautard.
Nato in un paesello di una regione montagnosa della Francia, questo insigne uomo di Dio sentì risuonare precocemente nel suo intimo il richiamo della Trappa. Avendo abbracciato la vita religiosa, divenne non soltanto un monaco esemplare, ma anche un ardito e vittorioso combattente per la causa cattolica, perseguitata dall’anticlericalismo francese all’inizio del nostro secolo.
Dom Chautard visse durante il pontificato di San Pio X, quando il progresso tecnico e industriale del mondo contemporaneo cominciava a dare grandi prove di sé. Ai suoi fautori, tale progresso appariva come antitetico alla Chiesa tradizionale, la quale sembrava lenta, impolverata dal passato, radicata nei suoi dogmi e nei suoi immutabili princìpi morali: una Chiesa, quindi, che pian piano veniva trascurata da tutte le persone che s’inebriavano di modernità.
Questa ebbrezza recava, di conseguenza, un grave rilassamento spirituale, provocando non poche apostasie. Per affrontare questa decadenza religiosa, molti sacerdoti zelanti incominciarono a fondare quelle che si chiamarono “opere pie”, cioè cattoliche. Erano luoghi in cui i giovani potevano riunirsi senza mettere a rischio la loro vita spirituale; in cui, a fianco di sani svaghi, ricevevano lezioni di catechismo ed erano formati nella conoscenza della dottrina cattolica.
Queste opere evitarono che innumerevoli giovani cadessero sotto le grinfie del male. Fu senza dubbio un frutto abbastanza prezioso... ma insufficiente. Occorreva conquistare nuove anime alla Chiesa, il che non avveniva. Rappresentava, dunque, uno sforzo colossale che però produceva un risultato esiguo.
“O cerco di santificarmi, o non sarò che un pagliaccio”.
Profondo osservatore delle cose, dom Chautard mise allora il suo vigoroso dito nella piaga e scrisse il libro L’anima di ogni apostolato. Il titolo rivela già una grande verità: esiste dunque un apostolato senz’anima, poiché se esiste un’anima di ogni apostolato vuol dire che quest’ultimo può essere fatto con essa o senza di essa. Dom Chautard dimostrerà, appunto, che l’apostolato delle “opere pie” non otteneva migliori frutti proprio perché non aveva anima.
Qual è, dunque, quest’anima di ogni apostolato? La risposta a questa domanda m’interessava moltissimo. Infatti, desiderando realizzare la Contro-Rivoluzione, un’opera eminentemente apostolica, volevo invitare ed attirare a questo ideale i giovani del mio tempo. Notavo però la relativa inutilità degli sforzi che, a questo fine, si facevano intorno a me. Donde il mio immenso interesse nel prender conoscenza della dottrina esposta dall’abate trappista.
Secondo dom Chautard, la sostanza dell’apostolato sta nel fatto che l’apostolo sviluppi nella sua anima, in grado superlativo, la grazia di Dio e la trasmetta agli altri. Quando qualcuno possiede in sé, in modo intenso ed abbondante, la vita della grazia, l’azione di Dio si fa sentire – persino involontariamente – attraverso questa persona, su coloro ch’essa vuole conquistare. Nelle loro anime, tale azione produce quindi frutti spirituali analoghi a quelli che ha prodotto nell’anima dell’apostolo. Così, l’apostolato sarà fecondo quando il suo strumento umano godrà di una elevata partecipazione alla grazia divina; sarà invece sterile quando questa partecipazione sarà insufficiente.
Dom Chautard insiste però nel dire che, per il pieno successo, non basta che l’apostolo viva nel semplice stato di grazia; occorre ch’egli lo abbia con sovrabbondanza, affinché i doni celesti trabocchino dalla sua anima a quelle dei suoi discepoli.
Questa dottrina, dom Chautard la dimostra con una ricchezza di argomenti inoppugnabili, illustrandoli con diversi esempi che egli colse dalle sue polemiche apostoliche.
Dinanzi a questo luminoso insegnamento, io mi posi il problema: “Quel che dice è perfetto e tutti questi argomenti valgono pure per il mio apostolato. Quindi, o io cerco di santificarmi, o non sarò che un pagliaccio. Trascorrere una vita spensierata, piacevole, senza sofferenze, illudendomi di realizzare nel mondo le trasformazioni che desidero, è pura fantasticheria! Non otterrò nulla, perché non avrò il grado di fervore necessario. Dunque, per concretizzare le mie aspirazioni, bisogna che io miri... alla santità!”.
“Senza il libro di Dom Chautard, io avrei perduto la mia anima”.
Esponendo la sua dottrina, dom Chautard indica come grandi indizi della santità specialmente la purezza e un’altra virtù, verso la quale avevo una certa incomprensione: l’umiltà. Benché io sapessi che si trattava di una caratteristica cristiana, e sebbene avessi letto nei Vangeli che Nostro Signore fosse stato infinitamente umile nella sua vita terrena, le persone che mi erano indicate come modelli di umiltà mi sembravano caricature di questa virtù. Provavo quindi difficoltà nel capirla.
Questo problema si risolse con la lettura dell’opera di dom Chautard, la quale mi fece capire che l’umiltà è, fondamentalmente, la virtù per cui non cerchiamo di attribuire a noi stessi quel che appartiene a Dio. Quindi, se nel fare apostolato convertiamo qualcuno, dobbiamo ammettere che non siamo stati noi ad averlo fatto, bensì Nostro Signore Gesù Cristo, servendosi di noi. Un uomo può quindi essere un ottimo predicatore, un esimio oratore, un eccellente catechista, eccetera; ma egli non convertirebbe nessuno, se Dio non gli concedesse la sua grazia al riguardo.
Da un’altra prospettiva, dom Chautard mette in rilievo che ogni uomo dev’essere umile nei confronti della persona che ha il diritto di comandargli; ha quindi l’obbligo di compiacersi nell’ubbidire al suo superiore, con rispetto, amore e sottomissione. Tutte queste disposizioni d’animo conducono alla santità, la quale costituisce il cuore del completo successo di ogni apostolato.
Nella lotta quotidiana in cerca di questa perfezione, il libro di dom Chautard fu per me un preziosissimo aiuto. Senza di esso, io avrei semplicemente perduto la mia anima, per esempio quando fui eletto deputato federale. Infatti, a 24 anni, essere il parlamentare più giovane e più votato del Brasile, sul quale in quel momento erano puntati tutti gli occhi di tutti gli ambienti cattolici del Paese, poteva indurmi facilmente all’autocelebrazione, a pensieri di vanità: “Che gigante sono! Essere già riuscito, così giovane, ad impormi a tante migliaia di elettori! Che intelletto straordinario il mio!”, eccetera.
Il risultato sarebbe stato inebriarmi di me stesso; e quando mi fossi trovato di fronte all’alternativa – o apostatare o rinunciare alla rielezione – avrei scelto l’apostasia. Allora, fu grazie agli insegnamenti di dom Chautard che potei mantenermi fedele in quella delicata fase della mia vocazione.
“Mai consentire a un moto di ebbrezza di sé, per quanto piccolo sia”.
A questo proposito, mi ricordo di un episodio molto significativo che mi capitò in un giorno solenne all’Assemblea Costituente, insediata in quei tempi a Rio de Janeiro, nel Palazzo Tiradentes. Le automobili che portavano i deputati dovevano passare davanti a una fila di soldati schierata lungo la via che conduceva all’entrata dell’edificio. Quando l’automobile in cui mi trovavo – da solo, in frac e cilindro – apparve all’inizio della via, un ufficiale diede ordine di presentare le armi. Lentamente, la mia vettura passò in mezzo a quei soldati con le armi alzate. In quel momento, provai una tendenza a inebriarmi di quell’omaggio, perché sono sempre stato un grande ammiratore degli onori militari, ritenendoli i più adatti a celebrare la grandezza di un uomo. Mi sentii inclinato a compiacermi di essere fatto oggetto di quegli onori... Nello stesso momento, però, la grazia risvegliò nella mia anima questo pensiero: “E dom Chautard?...”.
Allora riflettei: “Devo reprimere immediatamente questo moto d’animo, non guardare il plotone che mi sta presentando le armi e chiedere aiuto alla Madonna”. Immediatamente deviai lo sguardo verso il lato opposto, facendo il proposito di ignorare qualsiasi onorificenza, purché non andasse a danno alla causa cattolica.
Ritengo che molti giovani, trovandosi in situazioni analoghe, se non avranno letto L’anima di ogni apostolato, si troveranno in grave rischio di perdersi, cedendo alla vanità. In questa materia è necessario essere meticolosi e non consentire mai a un moto di ebbrezza di sé, per quanto piccolo sia. Così, quando ci elogiano, ci applaudono o riconoscono in noi qualche qualità, dobbiamo sforzarci di non badare a queste lodi. Cerchiamo di essere umili con naturalezza, senza falsa modestia e senza arroganza. Però con un timore maggiore di diventare orgogliosi che artificiosamente umili: questi infatti godono di attenuanti e potrebbero quindi arrivare in Cielo; ma i vanitosi troverebbero chiuse le soglie della beatitudine eterna... Ecco alcune preziose lezioni che ho tratto dalla lettura dell’ammirevole opera di dom Chautard.
 
Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995)
 
[estratto di una conferenza tenuta dinanzi a giovani cooperatori della Società Brasiliana per la Difesa della Tradizione, Famiglia e Proprietà, di cui Plinio Corrêa de Oliveira è stato il fondatore e presidente]

martedì 13 novembre 2012

Festa di Tutti i Santi O.S.B.

Nella famiglia monastica benedettina, il 13 novembre ricorre la festività di Tutti i Santi dell'Ordine (e l'indomani la commemorazione di tutti i defunti dell'Ordine), Omnium Sanctorum O.S.B.
 
Concede, quaesumus, omnipotens Deus, ut ad meliorem vitam sanctorum Monachorum exempla nos provocent: quatenus, quorum solemnia agimus, etiam actus imitemur. Per Dominum nostrum Iesum Christum, Filium tuum, qui tecum vivit et regnat, in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia sæcula sæculorum. Amen.
 
 
 
 



lunedì 12 novembre 2012

Si avvicina l'Avvento

La comunità monastica dell'abbazia Notre-Dame de l'Annonciation in processione
Cari amici,
avete sentito parlare dell’«autolimitazione pura e benefica»? L’espressione non deriva dal codice della strada, ma da Aleksandr Isaevič Solženicyn (1918-2008). Così dichiarava il grande pensatore russo nel discorso all’Università di Harvard dell’8 giugno 1978: «Solo l’educazione volontaria in sé stesso di un’autolimitazione pura e benefica innalza gli uomini al di sopra del fluire materiale del mondo».
Solženicyn sperava di risvegliare i suoi ascoltatori a una vita spirituale: «Veramente la vita dell’uomo e l’attività della società devono anzitutto valutarsi in termini di espansione materiale? Ed è ammissibile sviluppare questa espansione a detrimento della nostra vita interiore?». Così ci ammoniva Gesù: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?» (Lc 12,20).
È difficile non attaccarsi ai beni di quaggiù, spesso penosamente acquisiti. Per questo la Chiesa, durante l’anno liturgico, prevede dei tempi durante i quali noi possiamo praticare l’«autolimitazione pura e benefica». Sono i giorni in viola dell’Avvento e della Quaresima e le vigilie delle grandi festività. Come ci ricorda Dom Prosper Guéranger O.S.B. (1805-1875) nella sua opera L’anno liturgico: «Il rigore che un popolo sa imporre a certi giorni di preparazione è un segno della fede che esso ha conservato; tale rigore dimostra che quel popolo comprende la grandezza dell’oggetto proposto dalla liturgia al suo culto».
L’Avvento è il tempo per eccellenza del desiderio di Dio: all’attesa della nascita del Redentore si unisce quella del suo ritorno nella gloria. L’Avvento ci parla perciò di penitenza. In monastero noi profittiamo dei pasti ristretti nei giorni di digiuno per dare tempo alla lettura e all’adorazione. Quale gioia prepararsi così al Natale! Le restrizioni permettono ugualmente di aiutare i più poveri di sé in questa festa luminosa. Non siamo forse creati per donare e per donarci?
Cari amici, voi che ci aiutate così fedelmente – con la vostra preghiera e la vostra elemosina – a rimanere salde nella nostra vocazione di lode, d’intercessione e di penitenza, vogliate ricevere i voti ferventi che formuliamo per voi con l’avvicinarsi del Natale. Gloria et pax! Santo Anno della Fede! Con tutta la nostra amicizia e la nostra viva gratitudine.
Madre Placide Devillers O.S.B., Badessa
[La Font de Pertus. Lettre des moniales, n. 92, 31 ottobre 2012, pp. 1-2, Abbaye Notre-Dame de l'Annonciation, 750 Chemin des Ambrosis, 84330 Le Barroux, Francia, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

mercoledì 7 novembre 2012

San Benedetto e la vita familiare

Dom Massimo Lapponi O.S.B., San Benedetto e la vita familiare. Una lettura originale della Regola benedettina, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2009, 132 pp., 7 euro [ordini tramite il sito della casa editrice: www.lef.firenze.it]
 
[Scritta millecinquecento anni fa per l’organizzazione dei monasteri, la Regola di san Benedetto conserva una stupefacente attualità, anche per la vita in famiglia. Lavoro, riposo, pasti, abbigliamento: sono numerose le applicazioni concrete. Preghiera, dialogo, lettura, studio, attività manuali e artistiche: i suoi consigli possono aiutare a «dare nuova vita e nuova speranza alla comunità familiare», come scrive nella prefazione – che trascriviamo qui al termine – S.Em. il card. Franc Rodé C.M., all’epoca della pubblicazione del libro Prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica. Nel momento in cui la famiglia è attaccata da ogni parte, questo libro originale ma di agevole lettura, ricco di suggestioni pratiche e di proposte educative, propone un autentico modello alternativo, una serie d’importanti scelte di stile di vita, suddivise per capitoli tematici che consentono di rileggere con originalità la Regola benedettina, riscoprendo l’intramontabilità dell’opera stessa, fonte di sempre feconde riflessioni. Il volume è arricchito dalla corrispondenza dell’autore – nato nel 1950, monaco dell’abbazia benedettina Santa Maria di Farfa – con alcune religiose benedettine e una giovane congiunta, insieme ad altri documenti e riflessioni. Un interessante contributo che esce dal coro delle polemiche, nel momento in cui il mondo religioso e politico s’interrogano sul valore della famiglia e si trovano al bivio di scelte importanti. Il saggio, quasi un manuale, afferma la necessità di creare ambienti sociali regolati nel quotidiano da costumi condivisi da tutti, ispirati alla saggezza umana e cristiana, con particolare attenzione per la famiglia, l’ambiente sociale fondamentale per la vita e per la Chiesa, che è esposta a continua degradazione.]
 
Vi sono opere intramontabili, che ancora a distanza di molti secoli si rivelano feconde di nuove ispirazioni per la vita dell’uomo, non ancora esplorate dalle generazioni precedenti. Indubbiamente tra queste opere va annoverata la Regola di san Benedetto. Scritta millecinquecento anni fa, frutto di un ripensamento originale della precedente tradizione monastica orientale e occidentale e dell’esperienza di una vita interamente dedita al servizio di Dio, nella sua apparente semplicità essa nasconde tesori di profonda sapienza umana e spirituale.
L’opera di Benedetto era rivolta ai monaci, e sembrerebbe che l’autore non avesse nulla da spartire con la vita secolare, e in particolare con la vita familiare. L’autore del volume che presentiamo ci dimostra il contrario: vissuto in un’epoca tragica di guerre, carestie, pestilenze, invasioni e dissoluzione civile e morale, Benedetto volle insegnare agli italiani del suo tempo come si possa vivere insieme nella pace, nell’armonia, nel rispetto reciproco e nella cristiana carità. Per questo i monasteri benedettini non furono soltanto oasi di spiritualità, ma anche modelli fecondi di civiltà e di vita associata per le generazioni a venire. I metodi razionalisti della critica storica non potranno mai misurare l’influsso incalcolabile che l’esempio della vita benedettina ebbe sulla vita sociale e sulle comunità familiari dei secoli passati.
Tutto questo oggi facilmente si dimentica. Ma proprio l’attuale esperienza della dissoluzione della vita familiare, alla quale sembra che non si sia trovato ancora un efficace rimedio, ci può far riscoprire in una luce nuova l’intramontabile insegnamento di san Benedetto sulla vita in comune. L’autore di questo volume, che ha tra l’altro il pregio della brevità ma che sa dire molto in poche pagine, ci permette di toccare con mano quanto sia attuale la saggezza benedettina non solo per guidare le comunità religiose, ma anche per dare nuova vita e nuova speranza alla comunità familiare. Non saranno infatti le conferenze e le discussioni di gruppo, e neanche le riforme legislative – per quanto auspicabili esse possano essere – a salvare l’istituzione familiare, ma soltanto il diffondersi di un modello vissuto di vita associata alternativo a quello ormai purtroppo dovunque imperante. “E a me sembra di poter affermare” scrive il nostro autore “che esiste un solo modello che oggi possa efficacemente essere proposto alle famiglie: il modello benedettino quale emerge dalla Regola e dalla tradizione”.
Ha ragione? Lasciamo al lettore la risposta. Noi ci limitiamo a raccomandare vivamente a tutte le famiglie, cristiane o laiche, la lettura di queste dense pagine, in ogni caso scritte con non comune passione e perciò tanto più stimolanti e provocatorie.

venerdì 2 novembre 2012

Trattando dell’amicitia / Deus in adiutorium meum intende

Trattando dell’amicitia, sempre minacciata dalla discordia, Cassiano pone come sesto ed ultimo fondamento della “vera amicizia”: “credere ogni giorno che si sta per lasciare questo mondo, perché senza dubbio questo ucciderà in generale ogni specie di vizio” (Conl. 16,6,2-3).
Tale ferma dottrina di Cassiano si annuncia già nel mirabile sermone di vestizione dell’abate Pinufio, pezzo che serve da conclusione ai quattro primi libri delle Istituzioni e di introduzione agli otto seguenti. All’inizio del discorso, Pinufio espone al postulante che la vita che sta per abbracciare è nient’altro che una “crocifissione con Cristo”, secondo la parola di san Paolo. Essere crocifissi significa due cose. In primo luogo l’impossibilità di muoversi spiritualmente intesa come rinuncia ad ogni piacere e ad ogni peccato. Poi l’attesa di una morte imminente:
“Il crocifisso non considera le cose presenti, non pensa alle proprie affezioni, non si cura dell’indomani, non ha alcun desiderio di possedere, non prova né orgoglio, né desiderio di contestare, né gelosia; non si rattrista per le ingiurie presenti e non si ricorda di quelle passate, ma si considera già morto, con il pensiero teso in avanti, verso l’aldilà. Così dobbiamo essere crocifissi ad ogni cosa mediante il timore del Signore, cioè morti non solo ai vizi carnali, ma anche agli elementi stessi, fissando gli occhi dell’anima là dove dobbiamo attenderci di emigrare in ogni istante. Così potremo conservare mortificate tutte le nostre concupiscenze ed affezioni carnali” (Inst. 4,35).
Anche qui Cassiano attribuisce al pensiero della morte una universale virtù purificante. In parecchi passi delle Istituzioni, il suo benefico ruolo è descritto in termini di indifferenza alla prosperità ed all’avversità (Inst. 5,41 e 9,13). Questa nota è particolarmente interessante, perché lega il pensiero della morte al grande tema che si sviluppa attraverso tutta la prima parte delle Conlationes, nelle Conferenze “pari” (Conl. 2.4.6.10): quello delle situazioni contrarie, generatrici delle tentazioni opposte, tra le quali il discernimento – quest’altro mezzo universale – fa seguire all’anima la “via regale” e rettilinea, che evita le aberrazioni di destra e di sinistra. Sul piano della preghiera, la formula “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi” [Sal 69,2] appare come l’arma efficace contro queste tentazioni che nascono dalla prosperità quanto dall’avversità (Conl. 10,10,4-13). Con la sua portata generale e la sua immancabile efficacia, il pensiero della morte imminente ha dunque un posto presso quei rimedi sovrani che sono il Deus in adiutorium e la discretio.
 
[Dom Adalbert de Vogüé O.S.B. (1924-2011), “Avere ogni giorno davanti agli occhi la morte come un avvenimento imminente”, in Idem, La comunità. Ordinamento e spiritualità, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia 1991, pp. 359-374 (pp. 365-367)]