Parliamo di un argomento estremamente
importante, centrale, per quanto riguarda la dottrina benedettina, e per quanto
riguarda la Regola , per la
preghiera e la salmodia. L’ufficio
divino, come si sa, ha un posto centrale nella Regola. Studiandolo, si
riesce a entrare a largo raggio all’interno della Regola in tutti i suoi aspetti: direi che è un modo di entrare per
la porta principale nella dottrina benedettina.
Non perché le altre parti siano inferiori, ma perché nell’ufficio divino
e nella preghiera così come San Benedetto la concepisce c’è in qualche modo l’essenza
non solo dello spirito benedettino, ma di tutta la tradizione monastica.
Ogni passo della Regola benedettina ha una risonanza secolare che dobbiamo imparare
a decifrare e a comprendere, riportandola e riconducendola alle sue fonti, alle
fonti della letteratura monastica precedente, alle fonti evangeliche, alle
fonti scritturali che stanno dietro. San
Benedetto indica all’inizio dei suoi capitoli gli argomenti ivi trattati e i
passi scritturali ai quali si ispira e dai quali discende la sua dottrina su
ciascun tema, e quindi il passo scritturale sul quale noi tutti, religiosi e
laici, dobbiamo ispirare la nostra condotta dal momento in cui ci allineiamo
alla Regola, tenendo conto che
discende dalla Parola di Dio. Per
esempio, nel Capitolo 7,
importantissimo, sull’umiltà, San Benedetto dice: “Chi si umilia sarà esaltato” (Lc
14, 11). E così quasi sempre, per il
silenzio, per l’obbedienza, per tutto ciò che riguarda ogni aspetto della vita
monastica, San Benedetto cita sempre la fonte.
Per quanto riguarda quella successione di
capitoli che compongono la normativa che regola l’ufficio divino, Benedetto si
rifà a due versetti di un salmo importante e lunghissimo, il 118, che dice “Sette volte al giorno ti lodo” (Sal 118, 164). L’altro versetto citato da San Benedetto è “Nel mezzo della notte io mi alzo per
renderti lode” (Sal 118,
62). Questi due versetti vengono presi
per inquadrare tutte quante le ore della preghiera nella giornata monastica, e
poi anche la preghiera notturna. Il numero sette offerto da San Benedetto in
questo contesto fa sì che le ore della preghiera così articolate siano sacre.
Tale ci appaiono nel Capitolo 16, che brevemente illustra questo elemento.
Tuttavia, questo non esaurisce il senso dell’ufficio
divino, perché i monaci preghino quelle ore particolari durante la
giornata. C’è un significato ulteriore
che San Benedetto non cita esplicitamente, ma che possiamo ricavare, basandoci
sulla fonte più diretta di San Benedetto, la Regola del Maestro, una regola anonima,
scritta circa una trentina di anni prima di quella di San Benedetto, sempre
nell’Italia centrale, e che costituisce la fonte più vicina nel tempo. Ci sono poi infinite altre che risalgono nel
tempo. Leggendo questi testi riusciamo
anche a completare il significato di ciò che San Benedetto ci illustra, e in
questo caso riusciamo a capire attraverso il Maestro e gli autori che lo hanno
preceduto qual è il senso interiore dell’ufficio divino. E questo senso, che già era presente nella
coscienza e nell’uso dei paleocristiani, era un invito di Cristo che è
riportato dal vangelo di Luca specialmente, e poi da Paolo molte volte nelle
sue lettere, e suona così: i discepoli chiedono a Cristo in che modo debbano
pregare, e Cristo risponde: “Pregate
incessantemente” (Lc 18, 1; 21,
36). Questo “pregate incessantemente” è
il senso dell’ufficio divino in San Benedetto, ma anche nella tradizione monastica
antica. Certo, non è un invito semplice,
è molto enigmatico e anche difficile da vivere, per cui fin dai primi tempi del
cristianesimo, quando si era costituito in forma di pensiero, nella patristica
e anche al livello di esperienza delle prime comunità cristiane, gli autori
antichi spirituali cristiani hanno cercato di dare a questo invito una
soluzione: in che modo pregare incessantemente.
Se ne occupano specialmente Tertulliano, Cipriano e Origene nei loro trattati sull’orazione. Tertulliano se ne occupa in maniera più
direttamente espressa nel suo De oratione,
nei Capitoli 24-26.
Ora, i cristiani fin dall’inizio, siano i monaci
che i laici, hanno tenuto ben presente che questo invito di Cristo è difatti l’unico
precetto che egli ha dato in materia di preghiera, al di là del Padre nostro,
che ha insegnato espressamente, e che è una formula già stabilita. Ma sul come pregare, nel senso più vasto e
esteso, questo è l’unica indicazione che Cristo ha dato. Quando è nato il movimento monastico, lo sforzo
di pregare incessantemente è stato tradotto in una tradizione che ha fissato
momenti determinati. Data l’umana
debolezza, è impossibile praticamente tenere costantemente la nostra attenzione
rivolta verso Dio, quindi sempre in un atteggiamento di preghiera, si sono
fissate delle “Ore” quando questo nostro dovere viene richiamato all’ordine, in
maniera più forte e obbligata, e la successione di queste “Ore” crea in qualche
modo un senso di continuità, di una preghiera incessante. Naturalmente, rispetto all’ideale alto di
pregare sempre, questi momenti sono come dei punti su una linea infinita, e non
offrono una perfetta continuità, e vengono disprezzati da alcuni autori, come
per esempio Clemente Alessandrino, perché dal suo punto di vista, l’uomo che veramente
ama e vuole raggiungere la perfezione deve pregare sempre e ovunque, e non
distogliere mai la propria attenzione da Dio.
Questo è ovviamente una
questione di una grande altezza utopica non facilmente realizzabile, ma
tuttavia non vuole dire che la preghiera incessante non sia sempre sentita con
grandissima forza, come una grande sfida alla debolezza umana e quindi qualcosa
che deve suscitare l’eroismo nel monaco. Quando si era conclusa la stagione dei
martiri e delle cruente persecuzioni, è nato il movimento monastico, i
cristiani più ferventi hanno interpretato questo passaggio di epoca come una
grande possibilità della preghiera incessante.
La nuova pace religiosa è stata inaugurata da Costantino e l’era dei
deserti si è aperta, la stagione dell’anacoresi e del cenobitismo nei deserti,
e finalmente la preghiera incessante poteva essere coltivata con più continuità
e dedizione. Di questo parla
specialmente un autore affascinante, Giovanni Cassiano, che, a mio avviso,
dovrebbe godere di un apprezzamento maggiore di quello che fino ad oggi ha
avuto; è uno dei maggiori autori spirituali nella storia monastica, soprattutto
perché ha viaggiato lungamente e sperimentato la vita tra i monaci orientali ai
primordi, tra il secolo IV e V, e nelle sue Istituzioni
cenobitiche racconta di questi monaci ferventi, che si radunano al mattino e
alla sera per pregare, ma trascorrono tutta la giornata senza uffici. Non perché non preghino, ma al contrario,
perché pregano di continuo interiormente; hanno un fervore talmente alto,
talmente perfetto da poter veramente dedicare tutto il loro tempo a Dio, senza
distrazione. E Giovanni Cassiano ci
descrive questi eroici gloriosi padri, che gli rappresentano dei grandi modelli
da seguire, o perlomeno da tener presente, anche in circostanze diverse, come
ne scrive nelle Istituzioni, Capitolo
III, paragrafo 2.
[Da una conferenza del 13 novembre 2000 della dr.ssa Mariella Carpinello; testo tratto dal sito Internet della Conferenza Italiana Monastica
Benedettine (CIMB) www.benedettineitaliane.org / 1 - continua]