lunedì 2 dicembre 2013

Quel dialogo senza parole

Ogni volta che cerco di parlare del silenzio mi trovo inadeguata; mi accorgo che lo descrivo in modo sempre un po’ diverso, come cercando di avvicinarmi a esso per approssimazione, volendo esprimere attraverso nuove immagini altre sfumature di questa realtà indicibile, eppure eloquentissima. Non si riesce a “dire” il silenzio se non vivendolo, facendone l’esperienza interiore. Del silenzio bisognerebbe, dunque, parlare tacendo.
C’è in proposito un significativo detto dei Padri del deserto, quegli antichi monaci che, vivendo davvero il silenzio, lo irradiavano attorno a sé: «Tre padri avevano costume di andare ogni anno dal beato Antonio; due di loro lo interrogavano sui pensieri e sulla salvezza dell’anima; il terzo invece sempre taceva e non chiedeva nulla. Dopo lungo tempo, il padre Antonio gli disse: “È tanto tempo ormai che vieni qui e non mi chiedi nulla”. Gli rispose: “A me, padre, basta il solo vederti”» (n. 27; in Patrologia Graeca 65,84).
Ed è vero: c’è un modo di accostare gli altri, di accoglierli con lo sguardo, con il sorriso, con il cuore, che comunica molto più del discorso vocale. Tuttavia, è vero che nell’esistenza ordinaria anche il discorso sul silenzio ha una sua importanza. Esso, in certo modo, prepara la strada per arrivare a quel punto di pace e di grazia che è l’autentico silenzio interiore. Infatti per l’uomo ferito dal peccato, in balìa delle sue passioni e per di più immerso in una società rumorosa come la nostra, il silenzio non è più il “naturale” respiro dell’anima: occorre conquistarlo o, meglio, lasciarsene conquistare; occorre avvicinarsi a esso come Mosè al roveto ardente (Es 3-4).
 
[Anna Maria Cànopi O.S.B., in Luoghi dell'Infinito, n. 178, novembre 2013]

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giovedì 28 novembre 2013

Ordo Divini Officii 2014

Domenica 1 dicembre 2013 inizia il Tempo dell’Avvento ed entra così in vigore il nuovo calendario liturgico. Per quanti desiderano recitare l’Ufficio monastico – che, lo ricordiamo, può essere ascoltato in diretta e seguire il calendario liturgico dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, è ora disponibile online in formato pdf l’Ordo 2014.
 


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mercoledì 13 novembre 2013

13 novembre - Festa di Tutti i Santi O.S.B.

Nella famiglia monastica benedettina, il 13 novembre ricorre la festività di tutti i santi dell'Ordine (e l'indomani la commemorazione di tutti i defunti dell'Ordine). Il Prefazio della Messa propria è quello di san Benedetto, che viene inoltre recitato nelle festività di san Benedetto - il 21 marzo e l'11 luglio -, in quella di santa Scolastica - il 10 febbraio - e nelle Messe votive di san Benedetto.

Vere dignum et justum est, aequum et salutare, nos tibi semper et ubique gratias agere, Domine, sancte pater, omnipotens aeterne Deus: qui beatissimum confessorem tuum Benedictum, ducem et magistrum caelitus edoctum, innumerabili multitudini filiorum statuisti. Quem et omnium justorum spiritu repletum, et extra se raptum, luminis tui splendore collustrasti; ut in ipsa luce visionis intimae, mentis laxato sinu, quam angusta essent inferiora deprehenderet. Per Christum Dominum nostrum. Quapropter profusiis gaudiis, tutus in orbe terrarum monachorum coetus exsulta. Sed et supernae virtutes atque angelicae Potestates hymnum gloriae tuae concinunt, sine fine dicentes...
 
 


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venerdì 25 ottobre 2013

Architettura e Arte al Monastero San Benedetto di Bergamo

[Domani, sabato 26 ottobre 2013, alle ore 16:30, presso la chiesa del Monastero San Benedetto di Bergamo - di cui ci siamo già occupati in altre occasioni (cfr. per esempio qui) -, sarà presentato il volume Architettura e Arte (Edizioni del Soncino, 2013, 436 pp.), volto a presentare il ricco tesoro artistico del monastero. Siamo lieti di offrire ai lettori in anteprima la pregevole Presentazione al volume del Vescovo di Bergamo, S.E. Mons. Francesco Beschi. Si tratta di un’opera meritoria che costituisce un contributo culturale di primissimo piano, di cui caldeggiamo l’attenta lettura e una capillare diffusione. Chi ne fosse interessato si potrà rivolgere al seguente indirizzo: Monastero San Benedetto, Via Sant’Alessandro 51, 24122 Bergamo (e-mail: monsanben.bg@tiscali.it)]
 
Lo confesso: lo sguardo che ho potuto dare al bel volume Architettura e Arte presentatomi in bozza, mi ha riempito di nostalgia verso la bellezza e di ammirazione per “questa” bellezza. Si vorrebbe avere più tempo per la bellezza, e sfogliare con calma maggiore, quasi a tempo pieno “questa bellezza”, raccolta con cura amorevole dalle monache di San Benedetto, custodi non di un edificio, ma di una casa che vive da secoli, la loro casa, la casa delle loro sorelle che da più di cinquecento anni, di generazione in generazione, qui hanno dimorato.
E ci si vorrebbe fermare con tutta la cura possibile sulle descrizioni dei diversi studiosi che hanno steso i contributi con la competenza profonda e propria di ciascuno. Anche una rapida scorsa del “farsi” man mano delle costruzioni, regala al lettore gli elementi fondamentali della vita monastica: anzitutto la “chiesa in quadratura”, che dal secolo XVI al XVIII obbedisce prima al cammino liturgico dettato dalla riforma di Trento e poi al gusto estetico che muta, per essere il luogo fondamentale dell’opus divinum, cioè la preghiera, fulcro costitutivo della vita monastica. E poi il chiostro. L’eleganza del chiostro isabelliano nel monastero di S. Benedetto è di una bellezza limpida, essenziale, purissima. Il chiostro è spazio architettonico che caratterizza ogni monastero ed ha una ragione funzionale, raccordando i diversi momenti della vita monastica quotidiana. L’accurato racconto delle fasi di progettazione e di costruzione del chiostro del monastero di San Benedetto e le belle immagini che ne presentano il risultato a chi non potrà mai ammirarlo de visu, offrono allo spirito il grande significato simbolico del chiostro stesso, che lo fa assurgere a emblema della vita monastica: camminare sulla terra nella consapevolezza che la nostra esistenza è spalancata sul cielo, che il Cielo stesso anzi si affaccia alla nostra vita; lavorare, pregare, vivere fraternamente, vivere nella solitudine della cella sotto lo sguardo del Signore, così ben simboleggiato dal cielo azzurro che tutto con delicatezza sovrasta, avvolge, accarezza.E accanto alla chiesa e al chiostro sembra di veder crescere piano piano l’insieme degli altri edifici necessari alla vita monastica, attraverso la minuziosa descrizione delle diverse fasi dei lavori. Colpiscono in particolare le celle monastiche cinquecentesche, sobrie ed eleganti: fatte per il riposo notturno e per la preghiera personale, per il necessario raccoglimento e per il silenzio riempito del desiderio del Signore, esse sono davvero quella “anticamera del Paradiso” che prepara qui sulla terra la visione del Signore e Maestro Gesù, che sarà concessa in Cielo.
Il refettorio, le scale, i corridoi, i disimpegni, le cantine, i diversi luoghi necessari alla vita comunitaria e quotidiana delle monache vengono narrati nel loro costituirsi, non come parti di un monumento, ma come possibilità concreta per una vita dedicata al Signore, impegnata nella ricerca di una perfezione non fine a se stessa, non compiaciuta nella contemplazione di sé, ma purificata dall’Amore, resa autentica dal soffio dello Spirito. Mi accorgo di sprecare forse, ripetendoli, i vocaboli: “sobrietà” e “bellezza”: ma la sintesi della vicenda costruttiva del monastero di S. Benedetto sta proprio nel coniugarsi continuo, nel momento della edificazione della parte più cospicua e costitutiva di esso, ed anche negli elementi aggiuntisi nel tempo, di questi due elementi. Una dimora di bellezza e di sobrietà: questo è il monastero di S. Benedetto. “Architettura ed Arte” si sono plasmati e tradotti in un edificio affascinante per la sua sobria bellezza. L’arredo liturgico e pittorico, la suppellettile di mobili e di sculture di cui è dotato il monastero, analizzati con l’accuratezza che è oggi tanto preziosa perché supportata da ricerche d’archivio e da comparazioni opportune, sono presentati in modo da offrirci veramente l’idea che nulla sia stato trascurato, nulla sia stato lasciato al caso, e contemporaneamente nulla sia stato posto in dovizioso e ridondante eccesso o in vuoto affastellarsi di vistose quanto inutili decorazioni: tutto è nella misura giusta perché la vita monastica giunga al buon fine di dar gloria al Signore attraverso la vita di donne consacrate proprio per questo servizio in ogni gesto di preghiera e di lavoro a Lui.
Ho chiuso la bozza del volume che mi aveva comunicato contemporaneamente nostalgia e ammirazione per la bellezza, proponendomi di sfogliarlo con accuratezza al momento della sua imminente pubblicazione. Quali altri pensieri si affacciavano al mio spirito? Ho sentito la profonda gioia di sapere che quell’edificio fatto di bellezza e di sobrietà è ancora vivo: non è un museo, una dimora storica, un luogo da visitare per una ricerca culturale, per un compiacimento meramente estetizzante. Ho gustato la gioia del pastore che sa di avere nella sua diocesi una comunità monastica vivente, che abita uno spazio reso prezioso dall’intelligenza degli uomini che seppero costruire con ardimento e grazia; uno spazio prezioso perché “scuola del Vangelo”. Non ho potuto trattenermi dall’impiegare ancora un po’ di tempo a scorrere le poche, densissime pagine della Regola di san Benedetto. Sapevo bene che nella Regola Benedetto non si sofferma per nulla sul monastero come edificio, ma desideravo trovare qualche accenno a quell’“edificio spirituale” che è il vero monastero, fatto di persone, di anime, di cuori raccolti dal desiderio della sequela al Signore Gesù. M’è sembrato d’averlo incontrato in alcune espressioni del Prologo, che mi piace condividere con voi: interroghiamo il Signore, dicendogli con le parole del profeta: “Signore, chi abiterà nella tua tenda e chi dimorerà sul tuo monte santo?”. E dopo questa domanda, fratelli, ascoltiamo la risposta con cui il Signore ci indica la via che porta a quella tenda: “Chi cammina senza macchia e opera la giustizia; chi pronuncia la verità in cuor suo e non ha tramato inganni con la sua lingua; chi non ha recato danni al prossimo, né ha accolto l’ingiuria lanciata contro di lui”; chi ha sgominato il diavolo, che malignamente cercava di sedurlo con le sue suggestioni, respingendolo dall’intimo del proprio cuore e ha impugnato coraggiosamente le sue insinuazioni per spezzarle su Cristo al loro primo sorgere; gli uomini timorati di Dio, che non si insuperbiscono per la propria buona condotta e, pensando invece che quanto di bene c’è in essi non è opera loro, ma di Dio, lo esaltano proclamando col profeta: “Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria!”. Come fece l’apostolo Paolo, che non si attribuì alcun merito della sua predicazione, ma disse: “Per grazia di Dio sono quel che sono” e ancora: “chi vuole gloriarsi, si glori nel Signore”. Perciò il Signore stesso dichiara nel Vangelo: “Chi ascolta da me queste parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio il quale edificò la sua casa sulla roccia. E vennero le inondazioni e soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia”. Dunque, fratelli miei, avendo chiesto al Signore a chi toccherà la grazia di dimorare nella sua tenda, abbiamo appreso quali sono le condizioni per rimanervi, purché sappiamo comportarci nel modo dovuto. Bisogna dunque istituire una scuola del servizio del Signore nella quale ci auguriamo di non prescrivere nulla di duro o di gravoso (nella certezza che) ... man mano si avanza nella vita monastica e nella fede, si corre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall’indicibile soavità dell’amore.
A chiunque sfoglierà le pagine di questo volume cariche di bellezza auguro quanto è capitato a me: possa essere rimandato al desiderio di ciò che quella bellezza racchiude e significa. Possa passare al desiderio di abitare nella tenda che il Signore prepara per chi lo cerca con purezza di cuore; possa abitare nella casa solida costruita sulla roccia della sua Parola; possa cercare di vivere nella Scuola del Vangelo. Il Monastero è questo anzitutto e soprattutto. Architettura ed Arte sono un segno e uno spiraglio attraverso i quali gustare qualcosa dell’essere figli amati dal Padre in Gesù, invitati ad abitare già da adesso e per sempre nella casa che è Lui. Le monache ce lo insegnano con la loro testimonianza quotidiana. Anch’io, come tutti coloro che visitano la chiesa del Monastero di S. Benedetto, sono stato colpito dal bastone dipinto da Giuseppe Porri accanto all’acquasantiera, nel lussureggiante parato di affresco che contorna la porta prospiciente la via S. Alessandro. L’ho sentito come un invito ad appoggiare di tanto in tanto il mio bastone di pastore e di pellegrino, per sostare un poco a condividere con le monache la bellezza e la fatica della lode divina, della vita fraterna e laboriosa: nella “scuola del servizio del Signore” e “sotto la sua tenda” c’è posto per quanti, affascinati dalla bellezza dell’Arte e dell’Architettura, sentono la nostalgia della Bellezza unica ed autentica, il Signore Gesù.

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giovedì 12 settembre 2013

Cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui

[…] Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea. Ho ricordato all’inizio che il luogo in cui ci troviamo è in qualche modo emblematico. È infatti legato alla cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati ad introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata e a vivere meglio la loro missione. È questa un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato? Per rispondere, dobbiamo riflettere un momento sulla natura dello stesso monachesimo occidentale. Di che cosa si trattava allora? In base alla storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura. Ma come avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano? Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto?
Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo “escatologico”. Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo. Quaerere Deum: poiché erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto. Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla. Questa via era la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini. La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola o, come si esprime Jean Leclercq: nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra (cfr L’amour des lettres et le desir de Dieu, p. 14). Il desiderio di Dio, le désir de Dieu, include l’amour des lettres, l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente. Benedetto chiama il monastero una dominici servitii schola. Il monastero serve alla eruditio, alla formazione e all’erudizione dell’uomo – una formazione con l’obbiettivo ultimo che l’uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola.
Per avere la piena visione della cultura della parola, che appartiene all’essenza della ricerca di Dio, dobbiamo fare un altro passo. La Parola che apre la via della ricerca di Dio ed è essa stessa questa via, è una Parola che riguarda la comunità. Certo, essa trafigge il cuore di ciascun singolo (cfr At 2, 37). Gregorio Magno descrive questo come una fitta improvvisa che squarcia la nostra anima sonnolenta e ci sveglia rendendoci attenti per la realtà essenziale, per Dio (cfr Leclercq, ibid., p. 35). Ma così ci rende attenti anche gli uni per gli altri. La Parola non conduce a una via solo individuale di un’immersione mistica, ma introduce nella comunione con quanti camminano nella fede. E per questo bisogna non solo riflettere sulla Parola, ma anche leggerla in modo giusto. Come nella scuola rabbinica, così anche tra i monaci il leggere stesso compiuto dal singolo è al contempo un atto corporeo. “Se, tuttavia, legere e lectio vengono usati senza un attributo esplicativo, indicano per lo più un’attività che, come il cantare e lo scrivere, comprende l’intero corpo e l’intero spirito”, dice al riguardo Jean Leclercq (ibid., p. 21).
E ancora c’è da fare un altro passo. La Parola di Dio introduce noi stessi nel colloquio con Dio. Il Dio che parla nella Bibbia ci insegna come noi possiamo parlare con Lui. Specialmente nel Libro dei Salmi Egli ci dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui, portare la nostra vita con i suoi alti e bassi nel colloquio davanti a Lui, trasformando così la vita stessa in un movimento verso di Lui. I Salmi contengono ripetutamente delle istruzioni anche sul come devono essere cantati ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica. Due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il Sanctus, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’immediata vicinanza di Dio. Alla luce di ciò la Liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo redento ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni” (cfr ibid. p. 229).
In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola determinante la parola del Salmo: Coram angelis psallam Tibi, Domine – davanti agli angeli voglio cantare a Te, Signore (cfr 138,1). Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di essere quindi esposti al criterio supremo: di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere. Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle, che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino per giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine” – nella regio dissimilitudinis. Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione (cfr Confess. VII, 10.16): l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo. È certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso. Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere e che i monaci con il loro pregare e cantare devono corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza. Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e del cantarLo con le parole donate da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata, in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo e fa risuonare in modo puro la sua dignità.
Per capire in qualche modo la cultura della parola, che nel monachesimo occidentale si è sviluppata dalla ricerca di Dio, partendo dall’interno, occorre finalmente fare almeno un breve cenno alla particolarità del Libro o dei Libri in cui questa Parola è venuta incontro ai monaci. La Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui stesura si estende lungo più di un millennio e i cui singoli libri non sono facilmente riconoscibili come appartenenti ad un’unità interiore; esistono invece tensioni visibili tra di essi. Ciò vale già all’interno della Bibbia di Israele, che noi cristiani chiamiamo l’Antico Testamento. Vale tanto più quando noi, come cristiani, colleghiamo il Nuovo Testamento e i suoi scritti, quasi come chiave ermeneutica, con la Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso Cristo. Nel Nuovo Testamento, con buona ragione, la Bibbia normalmente non viene qualificata come “la Scrittura”, ma come “le Scritture” che, tuttavia, nel loro insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di Dio rivolta a noi. Ma già questo plurale rende evidente che qui la Parola di Dio ci raggiunge soltanto attraverso la parola umana, attraverso le parole umane, che cioè Dio parla a noi solo attraverso gli uomini, mediante le loro parole e la loro storia. Questo, a sua volta, significa che l’aspetto divino della Parola e delle parole non è semplicemente ovvio. Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono, da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e l’umanità. Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale che, a prima vista, sembra sconcertante: “Littera gesta docet – quid credas allegoria…” (cfr Augustinus de Dacia, Rotulus pugillaris, I). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologica e pneumatica.
Possiamo esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha bisogno dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta. In essa ha la sua unità e in essa si dischiude il senso che tiene unito il tutto. Detto ancora in un altro modo: esistono dimensioni del significato della Parola e delle parole, che si dischiudono soltanto nella comunione vissuta di questa Parola che crea la storia. Mediante la crescente percezione delle diverse dimensioni del senso, la Parola non viene svalutata, ma appare, anzi, in tutta la sua grandezza e dignità. Per questo il Catechismo della Chiesa Cattolica con buona ragione può dire che il cristianesimo non è semplicemente una religione del libro nel senso classico (cfr n. 108). Il cristianesimo percepisce nelle parole la Parola, il Logos stesso, che estende il suo mistero attraverso tale molteplicità e la realtà di una storia umana. Questa struttura particolare della Bibbia è una sfida sempre nuova per ogni generazione. Secondo la sua natura essa esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal movimento interiore dell’insieme e perciò deve diventare anche un processo di vita. Sempre e solo nell’unità dinamica dell’insieme i molti libri formano un Libro, si rivelano nella parola e nella storia umane la Parola di Dio e l’agire di Dio nel mondo.
Tutta la drammaticità di questo tema viene illuminata negli scritti di san Paolo. Che cosa significhi il trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire dall’insieme, egli l’ha espresso in modo drastico nella frase: “La lettera uccide, lo Spirito dà vita” (2 Cor 3,6). E ancora: “Dove c’è lo Spirito … c’è libertà” (2 Cor 3,17). La grandezza e la vastità di tale visione della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo se si ascolta Paolo fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito liberatore ha un nome e che la libertà ha quindi una misura interiore: “Il Signore è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2 Cor 3,17). Lo Spirito liberatore non è semplicemente la propria idea, la visione personale di chi interpreta. Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che ci indica la strada. Con la parola sullo Spirito e sulla libertà si schiude un vasto orizzonte, ma allo stesso tempo si pone un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo come la comunità e crea un legame superiore a quello della lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore. Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale. Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione.
Nella considerazione sulla “scuola del servizio divino” – come Benedetto chiamava il monachesimo – abbiamo fino a questo punto rivolto la nostra attenzione solo al suo orientamento verso la parola, verso l’“ora”. E di fatto è a partire da ciò che viene determinata la direzione dell’insieme della vita monastica. Ma la nostra riflessione rimarrebbe incompleta, se non fissassimo il nostro sguardo almeno brevemente anche sulla seconda componente del monachesimo, quella descritta col “labora”. Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito. Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo. Il monachesimo ha accolto questa tradizione; il lavoro manuale è parte costitutiva del monachesimo cristiano. San Benedetto parla nella sua Regola non propriamente della scuola, anche se l’insegnamento e l’apprendimento – come abbiamo visto – in essa erano cose praticamente scontate. Parla però esplicitamente, in un capitolo della sua Regola, del lavoro (cfr cap. 48). Altrettanto fa Agostino che al lavoro dei monaci ha dedicato un libro particolare. I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione da tempo praticata dal giudaismo, dovevano inoltre sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5,17). Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita. Dio lavora, ergázetai. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione.
Siamo partiti dall’osservazione che, nel crollo di vecchi ordini e sicurezze, l’atteggiamento di fondo dei monaci era il quaerere Deum – mettersi alla ricerca di Dio. Potremmo dire che questo è l’atteggiamento veramente filosofico: guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, vere. Chi si faceva monaco, s’incamminava su una via lunga e alta, aveva tuttavia già trovato la direzione: la Parola della Bibbia nella quale sentiva parlare Dio stesso. Ora doveva cercare di comprenderLo, per poter andare verso di Lui. Così il cammino dei monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai all’interno della Parola accolta. Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in se stesso già un trovare. Occorre dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che in precedenza esista già un primo movimento che non solo susciti la volontà di cercare, ma renda anche credibile che in questa Parola sia nascosta la via – o meglio: che in questa Parola Dio stesso si faccia incontro agli uomini e perciò gli uomini attraverso di essa possano raggiungere Dio. Con altre parole: deve esserci l’annuncio che si rivolge all’uomo creando così in lui una convinzione che può trasformarsi in vita. Affinché si apra una via verso il cuore della Parola biblica quale Parola di Dio, questa stessa Parola deve prima essere annunciata verso l’esterno. L’espressione classica di questa necessità della fede cristiana di rendersi comunicabile agli altri è una frase della Prima Lettera di Pietro, che nella teologia medievale era considerata la ragione biblica per il lavoro dei teologi: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi” (3,15) (Il Logos, la ragione della speranza, deve diventare apo-logia, deve diventare risposta). Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono. L’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli è diversa, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti.
Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano “verso l’esterno” – agli uomini che, con le loro domande, sono in ricerca – si trova nel discorso di san Paolo all’Areopago. Teniamo presente, in questo contesto, che l’Areopago non era una specie di accademia, dove gli ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi all’importazione di religioni straniere. È proprio questa l’accusa contro Paolo: “Sembra essere un annunziatore di divinità straniere” (At 17,18). A ciò Paolo replica: “Ho trovato presso di voi un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (cfr 17,23). Paolo non annuncia dei ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere. Che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1,21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio.
La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. Quaerere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura.
[Benedetto XVI, Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins – Discorso, 12-9-2008]

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lunedì 9 settembre 2013

Un commento alla Regola di san Benedetto: l'intenzione principale (seconda parte)

Detto questo, occorre dedurre che la preghiera contemplativa non è – strettamente parlando – l’intenzione principale del monaco. In effetti, la contemplazione si colloca un po’ al di qua, poiché appartiene all’ordine dei mezzi. Nondimeno la contemplazione è ben vicina alla nostra intenzione principale, perché – in quanto mezzo – essa facilita grandemente la concentrazione del cuore umano sull’intenzione principale poc’anzi descritta. Mediante la contemplazione – che realizza presenza e intimità – Dio, sovrano Maestro, aiuta egli stesso il suo servo a compiere verso di lui i suoi doveri di attenzione, di amore e di religione. A causa di questo aiuto divino, sono molte le condizioni della vita spirituale che cambiano di livello. Dio non chiede che una cosa sola: essere amato. Se egli può aiutare una creatura ad amarlo, per lei questo aiuto è evidentemente il mezzo migliore per giungere là dove l’intenzione principale la spinge. Ma, come in altri casi, il mezzo rimane distinto dal fine.
In un certo senso, si può dire che san Benedetto spinge tutti i suoi figli verso la grazia della contemplazione, sperata, possibile, augurabile, a titolo di mezzo molto utile ed eccellente. Ma non può fare niente di più in favore del suo discepolo. Così come il patriarca Giuseppe spingeva i suoi due figli sotto le mani benedicenti del vecchio Giacobbe, senza tuttavia potergli imporre le proprie preferenze, né l’ampiezza della benedizione concessa.
La preghiera contemplativa realizza, fin da quaggiù, l’intimità con Dio. Se leggiamo attentamente la santa Regola, non si deve forse concludere che questa intimità con Dio fa parte del contratto? Certamente. Per cui il monaco non deve mai disperare di ottenerla. È in questo senso che Dom Godefroid Belorgey O.C.S.O. (1880-1964) poteva affermare, in un’istruzione data a Sept-Fons nel 1944: «San Benedetto vuol fare di noi dei contemplativi? Ma tutta la sua opera è per questo! Senza di ciò la nostra vita è un non-senso, il nostro monastero è un non-senso! “Soli Deo”! Tutto, nella vita monastica, è ordinato a questo!».
Ma il caro Dom Belorgey sapeva anche che – in quest’ambito delle grazie particolari – i beneficiari sfuggono a ogni verifica (beati coloro che vivono nascosti), e che queste stesse grazie non si lasciano possedere (beati i poveri).
Riprendiamo gli stessi concetti sotto un’altra angolatura. L’intenzione principale mira alla più grande felicità, la più sicura e la più duratura; questa felicità che produce in anticipo un peso nell’intimo del nostro cuore e, in superficie, una fiammella inestinguibile. L’intenzione principale mira dunque alla vita eterna, che è partecipazione personale alla vita stessa di Dio. Ciò significa inoltre che anche la nostra intenzione principale riguarda delle Persone: Dio Padre, che ci darà questa vita eterna, e Gesù Cristo, Figlio di Dio e Salvatore, che a lui ci conduce accompagnandoci. Da cui l’espressione «cercare Dio», che si trova nella santa Regola e che riassume perfettamente sia la nostra intenzione principale sia la spiritualità del nostro Padre san Benedetto.
Il monaco desidera cercare – per poi un giorno possedere – un Oggetto che è il Bene supremo. Avvicinarsi a questo oggetto occupa il suo pensiero. Mette così in pratica contemporaneamente diversi precetti della Sacra Scrittura. Ma attenzione: vi è una bella differenza tra questa ricerca, precisa, coraggiosa, di un Oggetto supremo più grande – ossia la ricerca monastica – e la moderna pretesa di «essere in ricerca», che significa solo – oserei dire – una miserevole assenza di oggetto.
Quindi, se in questa teologia insegnata da san Benedetto io ritrovo la voce divina che un tempo mi aveva inquietato, e poi invitato e chiamato; se il mio spirito e il mio cuore si rivolgono ormai verso questo Oggetto, io corro il rischio di chi non ha e non avrà mai altro che un solo cibo per nutrire la sua fame. La manna, e ancora manna, fino al termine della vecchiaia! Allora gustiamoci la gran varietà di cibi al banchetto della vita! Così pure sarò nella situazione di chi ha una sola carta da giocare: posizione sfavorevole. Per scegliere la vita monastica ci vorranno quindi motivi solidi, incrollabili. Questi motivi il discepolo non li cerca nell’analisi o nei calcoli; li trova già depositati, da un Altro, nel proprio cuore. Da quel momento, se non si distoglie dalla luce che ha intravisto, se accetta ogni rischio per quest’unica pietra preziosa, allora «inclini l’orecchio del suo cuore» e proceda: la sua intenzione principale non subirà mai un’eclissi.
Notiamo che se la vita monastica mira intensamente al Cielo, non per questo – secondo san Benedetto – essa è già una vita celeste. Avviamento, preparazione, promessa: sì. Ma anticipazione, pregustamento: no, nel modo più assoluto. Non prestandosi a questa confusione, san Benedetto – preciso e realista – evita al suo discepolo tante illusioni quante delusioni. San Benedetto non segue quindi i Padri – i Padri greci soprattutto –, che si sono precipitati con diletto in questa confusione, occasione di ottimi slanci oratori. Un bel danno per loro e per la causa: infatti esaltare la vita monastica con pseudo-verità non è piuttosto farle un cattivo servizio? San Benedetto ci guadagna un sovrappiù di fiducia.
L’intenzione principale, che il discepolo fa sua, lo lega a tutta una serie di obblighi, molto più strettamente di quanto potrebbero fare molte e dettagliate osservanze. Così san Benedetto, dopo avere presentato al discepolo in modo approfondito e leale questa intenzione principale«perché prenda coscienza dell'impegno che sta per assumersi» («ut sciat ad quod ingreditur», RB 58,12) –, giunge a porgli questa domanda, a nome del Signore: «Ecco la legge sotto la quale vuoi militare; se ti senti di poterla osservare, entra; altrimenti, va’ pure via liberamente», «si vero non potes, liber discede» (RB 58,10).
Ammiriamo questo «va’ pure via liberamente», che eviterà – da una parte e dall’altra – tanti problemi conseguenti! Dolce compassione? O ancor meglio dolce ironia? «Quando un novizio entra – diceva Dom Jean-Baptiste Chautard O.C.S.O. (1858-1935)suoniamo la campana piccola. Quando un novizio non abbastanza convinto si ritira, suoniamo la campana grande». In ambedue i casi, legittima gioia. Perché fra coloro che rimangono nel campo del Signore, non ci vuole né esitazione, né ambiguità riguardo all’intenzione principale.
 
[Père Jérôme (Kiefer, O.C.S.O., 1907-1985), Saint Benoît de nouveau suivi, Ad Solem, Parigi 2013, pp. 47-51]

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venerdì 6 settembre 2013

Un commento alla Regola di san Benedetto: l'intenzione principale (prima parte)

Quando alcuni uomini si mettono in gruppo per camminare assieme, occorre che abbiano fissato in anticipo uno scopo e un itinerario per raggiungerlo. Senza di ciò, cosa potrà fare questo gruppo, se non segnare il passo? Segnare il passo non ha mai suscitato né entusiasmo né coraggio. Coloro che, nel gruppo, vedono più chiaramente lo scopo, hanno anche il dovere di ricordarlo a quelli la cui attenzione si disperde o si addormenta.
San Benedetto inizia dunque stabilendo lo scopo. In effetti, in quanto cristiano e uomo di fede, in quanto psicologo e maestro nell’arte di vivere con Dio, in quanto direttore di una scuola professionale e di un laboratorio, egli attribuisce una grandissima importanza allo scopo. Poiché lo scopo, attirandoci a sé, occupa i nostri pensieri e dirige tutte le nostre attività.
Cosa definisce l’«intenzione principale»? Si tratta dello scopo più attraente, chiaramente visto e costantemente voluto come totalità, mai abbandonato e sempre ripreso, verso il quale rivolgo i miei pensieri e i miei sforzi. Così l’uomo posseduto dalla ferma volontà di diventare un sapiente, concentra verso questo scopo tutto il suo lavoro, le sue letture, le sue conversazioni, i suoi viaggi, la cura della sua salute, e finanche il suo riposo. Ogni uomo è dunque animato da un’intenzione principale, ma essa è chiaramente visibile solo in coloro che cercano uno scopo lontano, poiché elevato e disinteressato, e la cui ricerca impone un’ampia parte di sacrifici e di pazienza. Tale è, senza alcun dubbio, lo scopo che cerca il monaco, su un invito venuto da Dio stesso. L’intenzione principale che deve animare il discepolo di san Benedetto si trova espressa abbondantemente nella santa Regola: nel prologo, nel capitolo fondamentale sull’umiltà, e nel corso di altri capitoli, in brani meno estesi, ma sempre significativi.
 
Vi è anzitutto un insieme di formule luminose:
 
«Militare sotto il vero Re, Cristo Signore» (RB, Prologo, 3)
«Non anteporre nulla all’amore di Cristo» (RB 4,21)
«Non avere nulla più caro di Cristo» (RB 5,2)
«Non antepongano assolutamente nulla a Cristo» (RB 72,11)
«Desiderare la vita eterna con tutto lo slancio dell’anima» (RB 4,46)
 
Poi c’è la massa delle formule sostanziose, tutte nel Prologo:
 
«In modo da meritare la visione di lui, che ci ha chiamati nel suo regno» (RB, Prologo, 21)
«Ascoltiamo la risposta con cui il Signore ci indica la via che porta a quella tenda» (RB, Prologo, 24)
«Coloro che glorificano il Signore che opera in essi» (RB, Prologo, 30)
«Il Signore attende che, giorno per giorno, rispondiamo con i fatti alle sue sante esortazioni» (RB, Prologo, 35)
«Se vogliamo pervenire alla vita eterna» (RB, Prologo, 42)
«Non allontanandoci mai dagli insegnamenti di Dio e perseverando fino alla morte nel monastero in una fedele adesione alla sua dottrina» (RB, Prologo, 50)
 
Così pure nei vari capitoli della Regola:
 
«Militando sotto uno stesso Signore, prestiamo un eguale servizio» (RB 2,20)
«Rinnegare completamente se stesso per seguire Cristo» (RB 4,10)
«In vista della gloria eterna» (RB 5,3)
«La nostra vita terrena che […] Dio solleva fino al cielo» (RB 7,8)
«Se vogliamo […] arrivare rapidamente a quella glorificazione celeste» (RB 7,5)
«Giungerà subito a quella carità» (RB 7,67)
«Il cammino che conduce a Dio» (RB 58,8)
«La via più rapida e diretta per raggiungere l’unione con il nostro Creatore» (RB 73,4)
«Tu […] che con sollecitudine e ardore ti dirigi verso la patria celeste» (RB 73,8)
«Con la grazia di Dio giungerai finalmente a quelle più alte cime» (RB 73,9)
 
San Benedetto riassume quindi – per così dire – tutta la religione in tre articoli. Anzitutto Dio, Sovrano Maestro, in Cielo. Poi il Cielo di Dio, promesso all’uomo e quindi scopo della nostra vita. Infine Gesù Cristo, Salvatore dell’uomo per il Cielo. Questi tre articoli della nostra fede monastica sono perfettamente saldati fra loro e formano insieme un unico bene massimamente desiderabile, verso il quale si rivolgerà la nostra intenzione principale. La religione del monaco si oppone dunque totalmente all’ateismo e al materialismo di ogni tempo; è assolutamente teocentrica: Dio; e risolutamente soprannaturale: il Cielo. Così l’ordine monastico è un esercito di Dio e il monastero un «accampamento di Dio».
Così, mediante la sua intenzione principale, il monaco riconosce se stesso più direttamente come uomo di Dio, che come uomo di preghiera, sempre che queste due qualità possano essere separate. Al contrario, esse si richiamano reciprocamente, perché è precisamente la preghiera che testimonia la nostra intenzione rivolta a Dio.
Occorre dire allora che l’intenzione principale di ogni discepolo di san Benedetto dev’essere quella di diventare un contemplativo? Per «contemplativo» intendiamo il fedele in cui la preghiera diventa almeno talora contemplazione; e per «contemplazione» intendiamo un certo grado di preghiera, data totalmente da Dio – o almeno aiutata da una grazia –, durante la quale il fedele si ritrova per un certo tempo unito a Dio. Nel suo grado minimo la contemplazione propriamente detta si definisce come una comunicazione oscura, di Dio all’anima, che rende l’anima innamorata.
 
[Père Jérôme (Kiefer, O.C.S.O., 1907-1985), Saint Benoît de nouveau suivi, Ad Solem, Parigi 2013, pp. 43-47]

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domenica 1 settembre 2013

Per ritrovare lo spirito del sacro

1 aprile 2013, Santa Messa in occasione del 25mo di professione monastica di
dom Charbel Pazat de Lys O.S.B.: "Suscipe me, Domine, secundum eloquium
tuum, et vivam; et non confundas me ab expectatione mea" ("Accoglimi, Signore,
secondo la tua parola e avrò la vita, e non deludermi nella mia speranza", Sal 118,116)
[...] Per ritrovare lo spirito del sacro, esiste un modello, ed è la liturgia romana antica. Noi non vogliamo, qui, né fare paragoni con la nuova né dirimere il dibattito sull'opportunità, sui tempi e i mezzi del suo perfezionamento. Diciamo soltanto: esiste, è latina e romana. È uno dei paradossi dell'epoca post conciliare aver voluto - si dice - ritornare al "puro rito romano del V secolo", copiando molte cose da molte altre liturgie, latine e non. Nell'ora in cui la sete di sacro spinge tante anime verso le forme orientali, non sarebbe il tempo di riproporre questo modello - proprio della nostra tradizione occidentale - di sacro e di continuità?
Bisognerebbe, per un movimento liturgico nuovo, ristudiare a fondo tutto questo, riflettervi in maniera al tempo stesso organica e pratica, al fine di dare, a tutti i livelli della gerarchia, i mezzi e le direttive concrete che permetterebbero di riconquistare, dalla parrocchia alla Curia, il sacro, questo stile unico della Sposa Unica.
 
[Dom Charbel Pazat de Lys O.S.B., dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, “Per un nuovo movimento liturgico”, in La Questione Liturgica. Atti delle “Giornate Liturgiche di Fontgombault”. 22-24 luglio-2001, Nova Millennium Romae, Roma 2010, pp. 137-149 (pp. 145-146)]
 
 
 
 

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