[…] Vorrei parlarvi stasera delle origini
della teologia occidentale e delle radici della cultura europea. Ho ricordato
all’inizio che il luogo in cui ci troviamo è in qualche modo emblematico. È
infatti legato alla cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani
monaci, impegnati ad introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata
e a vivere meglio la loro missione. È questa un’esperienza che interessa ancora
noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato? Per rispondere,
dobbiamo riflettere un momento sulla natura dello stesso monachesimo
occidentale. Di che cosa si trattava allora? In base alla storia degli effetti
del monachesimo possiamo dire che, nel grande sconvolgimento culturale prodotto
dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i
monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e
dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura. Ma
come avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi
luoghi si riunivano? Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto?
Innanzitutto e per prima cosa si deve
dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e
nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto
più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella
confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la
cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare
la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano
passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e
affidabile. Si dice che erano orientati in modo “escatologico”. Ma ciò non è da
intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o
verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie
cercavano il definitivo. Quaerere Deum: poiché erano cristiani, questa
non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio
assoluto. Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva
spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla. Questa via
era la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli
uomini. La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura
della parola o, come si esprime Jean Leclercq: nel monachesimo occidentale,
escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra (cfr L’amour
des lettres et le desir de Dieu,
p. 14). Il desiderio di Dio, le désir de Dieu, include l’amour
des lettres, l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue
dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi
verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a
comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a
causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci
indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura
della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola.
Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie vengono
aperte concretamente. Benedetto chiama il monastero una dominici servitii
schola. Il monastero serve alla eruditio, alla formazione e
all’erudizione dell’uomo – una formazione con l’obbiettivo ultimo che l’uomo
impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della
ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in mezzo
alle parole, la Parola.
Per avere la piena visione della cultura
della parola, che appartiene all’essenza della ricerca di Dio, dobbiamo fare un
altro passo. La Parola che apre la via della ricerca di Dio ed è essa stessa
questa via, è una Parola che riguarda la comunità. Certo, essa trafigge il
cuore di ciascun singolo (cfr At 2, 37). Gregorio Magno descrive questo
come una fitta improvvisa che squarcia la nostra anima sonnolenta e ci sveglia
rendendoci attenti per la realtà essenziale, per Dio (cfr Leclercq, ibid., p.
35). Ma così ci rende attenti anche gli uni per gli altri. La Parola non
conduce a una via solo individuale di un’immersione mistica, ma introduce nella
comunione con quanti camminano nella fede. E per questo bisogna non solo
riflettere sulla Parola, ma anche leggerla in modo giusto. Come nella scuola rabbinica,
così anche tra i monaci il leggere stesso compiuto dal singolo è al contempo un
atto corporeo. “Se, tuttavia, legere e lectio vengono usati senza
un attributo esplicativo, indicano per lo più un’attività che, come il cantare
e lo scrivere, comprende l’intero corpo e l’intero spirito”, dice al riguardo
Jean Leclercq (ibid., p. 21).
E ancora c’è da fare un altro passo. La
Parola di Dio introduce noi stessi nel colloquio con Dio. Il Dio che parla
nella Bibbia ci insegna come noi possiamo parlare con Lui. Specialmente nel Libro
dei Salmi Egli ci dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui, portare
la nostra vita con i suoi alti e bassi nel colloquio davanti a Lui,
trasformando così la vita stessa in un movimento verso di Lui. I Salmi
contengono ripetutamente delle istruzioni anche sul come devono essere cantati
ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare in base alla Parola di Dio
il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica. Due canti della
liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli
Angeli: il Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il
Sanctus, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che
stanno nell’immediata vicinanza di Dio. Alla luce di ciò la Liturgia cristiana
è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare così la parola alla sua
destinazione più alta. Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean
Leclercq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni
l’adesione dell’uomo redento ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di
Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli
cristologici dei singoli toni” (cfr ibid. p. 229).
In Benedetto, per la preghiera e per il
canto dei monaci vale come regola determinante la parola del Salmo: Coram
angelis psallam Tibi, Domine – davanti agli angeli voglio cantare a Te,
Signore (cfr 138,1). Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella
preghiera comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di essere quindi
esposti al criterio supremo: di pregare e di cantare in maniera da potersi
unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori
dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere. Partendo da ciò, si può
capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle, che usa
una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino per giudicare il canto
brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente,
in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito come
un precipitare nella “zona della dissimilitudine” – nella regio
dissimilitudinis. Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia
platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione
(cfr Confess. VII, 10.16): l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita
in conseguenza del suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine” – in
una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa
dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo. È
certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti dei
monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso.
Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del
canto è anche cultura dell’essere e che i monaci con il loro pregare e cantare
devono corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua
esigenza di vera bellezza. Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e
del cantarLo con le parole donate da Lui stesso è nata la grande musica
occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata, in cui l’individuo
erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la
rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere
attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica
della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore
nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al
contempo è anche veramente degna dell’uomo e fa risuonare in modo puro la sua
dignità.
Per capire in qualche modo la cultura
della parola, che nel monachesimo occidentale si è sviluppata dalla ricerca di
Dio, partendo dall’interno, occorre finalmente fare almeno un breve cenno alla
particolarità del Libro o dei Libri in cui questa Parola è venuta incontro ai
monaci. La Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è
semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui stesura si estende
lungo più di un millennio e i cui singoli libri non sono facilmente
riconoscibili come appartenenti ad un’unità interiore; esistono invece tensioni
visibili tra di essi. Ciò vale già all’interno della Bibbia di Israele, che noi
cristiani chiamiamo l’Antico Testamento. Vale tanto più quando noi, come
cristiani, colleghiamo il Nuovo Testamento e i suoi scritti, quasi come chiave
ermeneutica, con la Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso
Cristo. Nel Nuovo Testamento, con buona ragione, la Bibbia normalmente non
viene qualificata come “la Scrittura”, ma come “le Scritture” che, tuttavia,
nel loro insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di Dio rivolta a
noi. Ma già questo plurale rende evidente che qui la Parola di Dio ci raggiunge
soltanto attraverso la parola umana, attraverso le parole umane, che cioè Dio
parla a noi solo attraverso gli uomini, mediante le loro parole e la loro
storia. Questo, a sua volta, significa che l’aspetto divino della Parola e
delle parole non è semplicemente ovvio. Detto in espressioni moderne: l’unità
dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono, da un punto
di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e
l’umanità. Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale che, a
prima vista, sembra sconcertante: “Littera gesta docet – quid credas
allegoria…” (cfr Augustinus de Dacia, Rotulus pugillaris, I). La
lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè
l’interpretazione cristologica e pneumatica.
Possiamo esprimere tutto ciò anche in
modo più semplice: la Scrittura ha bisogno dell’interpretazione, e ha bisogno
della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta. In essa ha la sua
unità e in essa si dischiude il senso che tiene unito il tutto. Detto ancora in
un altro modo: esistono dimensioni del significato della Parola e delle parole,
che si dischiudono soltanto nella comunione vissuta di questa Parola che crea
la storia. Mediante la crescente percezione delle diverse dimensioni del senso,
la Parola non viene svalutata, ma appare, anzi, in tutta la sua grandezza e
dignità. Per questo il Catechismo della
Chiesa Cattolica con buona ragione può dire che il cristianesimo non è
semplicemente una religione del libro nel senso classico (cfr n. 108). Il
cristianesimo percepisce nelle parole la Parola, il Logos stesso,
che estende il suo mistero attraverso tale molteplicità e la realtà di una
storia umana. Questa struttura particolare della Bibbia è una sfida sempre
nuova per ogni generazione. Secondo la sua natura essa esclude tutto ciò che
oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non è
mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre
un trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal
movimento interiore dell’insieme e perciò deve diventare anche un processo di
vita. Sempre e solo nell’unità dinamica dell’insieme i molti libri formano un
Libro, si rivelano nella parola e nella storia umane la Parola di Dio e l’agire
di Dio nel mondo.
Tutta la drammaticità di questo tema
viene illuminata negli scritti di san Paolo. Che cosa significhi il
trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire
dall’insieme, egli l’ha espresso in modo drastico nella frase: “La lettera
uccide, lo Spirito dà vita” (2 Cor 3,6). E ancora: “Dove c’è lo Spirito
… c’è libertà” (2 Cor 3,17). La grandezza e la vastità di tale visione
della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo se si ascolta Paolo
fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito liberatore ha un nome e
che la libertà ha quindi una misura interiore: “Il Signore è lo Spirito, e dove
c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2 Cor 3,17). Lo Spirito
liberatore non è semplicemente la propria idea, la visione personale di chi
interpreta. Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che ci indica la strada.
Con la parola sullo Spirito e sulla libertà si schiude un vasto orizzonte, ma
allo stesso tempo si pone un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività, un
limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo come la comunità e crea
un legame superiore a quello della lettera: il legame dell’intelletto e
dell’amore. Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema
letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il
pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura
occidentale. Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida
di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo
fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi
potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e
con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame
e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione.
Nella considerazione sulla “scuola del
servizio divino” – come Benedetto chiamava il monachesimo – abbiamo fino a
questo punto rivolto la nostra attenzione solo al suo orientamento verso la
parola, verso l’“ora”. E di fatto è a partire da ciò che viene
determinata la direzione dell’insieme della vita monastica. Ma la nostra
riflessione rimarrebbe incompleta, se non fissassimo il nostro sguardo almeno
brevemente anche sulla seconda componente del monachesimo, quella descritta col
“labora”. Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei
servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose
spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli
uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello
spirito. Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi
esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che,
come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore
di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non
costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo. Il
monachesimo ha accolto questa tradizione; il lavoro manuale è parte costitutiva
del monachesimo cristiano. San Benedetto parla nella sua Regola non
propriamente della scuola, anche se l’insegnamento e l’apprendimento – come abbiamo
visto – in essa erano cose praticamente scontate. Parla però esplicitamente, in
un capitolo della sua Regola, del lavoro (cfr cap. 48). Altrettanto fa
Agostino che al lavoro dei monaci ha dedicato un libro particolare. I
cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione da tempo praticata dal
giudaismo, dovevano inoltre sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel
Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in
giorno di Sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5,17). Il mondo
greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la
loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione
della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità
subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è
anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli
uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. “Il
Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio stesso è il Creatore del mondo, e
la creazione non è ancora finita. Dio lavora, ergázetai. Così il
lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della
loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare
all’operare di Dio nella creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme
con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo
dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo
ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la
determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il
Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e
l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può
facilmente trasformarsi nella sua distruzione.
Siamo partiti dall’osservazione che, nel
crollo di vecchi ordini e sicurezze, l’atteggiamento di fondo dei monaci era il
quaerere Deum – mettersi alla ricerca di Dio. Potremmo dire che questo è
l’atteggiamento veramente filosofico: guardare oltre le cose penultime e
mettersi in ricerca di quelle ultime, vere. Chi si faceva monaco, s’incamminava
su una via lunga e alta, aveva tuttavia già trovato la direzione: la Parola della
Bibbia nella quale sentiva parlare Dio stesso. Ora doveva cercare di
comprenderLo, per poter andare verso di Lui. Così il cammino dei monaci, pur
rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai all’interno della
Parola accolta. Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in se stesso
già un trovare. Occorre dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che
in precedenza esista già un primo movimento che non solo susciti la volontà di
cercare, ma renda anche credibile che in questa Parola sia nascosta la via – o
meglio: che in questa Parola Dio stesso si faccia incontro agli uomini e perciò
gli uomini attraverso di essa possano raggiungere Dio. Con altre parole: deve
esserci l’annuncio che si rivolge all’uomo creando così in lui una convinzione
che può trasformarsi in vita. Affinché si apra una via verso il cuore della
Parola biblica quale Parola di Dio, questa stessa Parola deve prima essere
annunciata verso l’esterno. L’espressione classica di questa necessità della
fede cristiana di rendersi comunicabile agli altri è una frase della Prima
Lettera di Pietro, che nella teologia medievale era considerata la ragione
biblica per il lavoro dei teologi: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque
vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi” (3,15) (Il Logos,
la ragione della speranza, deve diventare apo-logia, deve diventare
risposta). Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il
loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare
il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura
della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e
vero che si era mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo Figlio, dando
con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli
uomini attendono. L’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta
verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere
dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale,
che a seconda dei popoli è diversa, ma all’ambito della verità che riguarda
ugualmente tutti.
Lo schema fondamentale dell’annuncio
cristiano “verso l’esterno” – agli uomini che, con le loro domande, sono in
ricerca – si trova nel discorso di san Paolo all’Areopago. Teniamo presente, in
questo contesto, che l’Areopago non era una specie di accademia, dove gli
ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma
un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi
all’importazione di religioni straniere. È proprio questa l’accusa contro
Paolo: “Sembra essere un annunziatore di divinità straniere” (At 17,18).
A ciò Paolo replica: “Ho trovato presso di voi un'ara con l'iscrizione: Al Dio
ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (cfr 17,23).
Paolo non annuncia dei ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano,
eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo,
hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più profondo
del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere.
Che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità, ma la
Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che
tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera
ai Romani (1,21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e
inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino
a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a
tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la
via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero
ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto
che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra
carne. Verbum caro factum est (Gv
1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos
presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre
l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che
risponde all’umiltà di Dio.
La nostra situazione di oggi, sotto molti
aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella
differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non
sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è
diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose
immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così
anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che
riguarda Lui. Quaerere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui:
questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente
positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda
circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue
possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze
non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la
ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il
fondamento di ogni vera cultura.
[Benedetto XVI, Incontro con il mondo della cultura al Collège
des Bernardins – Discorso, 12-9-2008]
Cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui