martedì 15 febbraio 2011

Quel che dobbiamo a san Benedetto / ultima parte

[la prima parte qui; la seconda parte qui; la terza parte qui]

L’affettuosa carità comunitaria

Non si può costringere chicchessia ad avere fame; non si possono indottrinare con la forza le anime alle quali sfuggono la posta in gioco e il costo del combattimento spirituale, ma si può, come per osmosi, farle tentare di condividere la nostra felicità. La Regola di san Benedetto è interamente penetrata di carità fraterna e filiale, di bontà paterna e misericordiosa. Se qualcosa può essere salvato in questo grande naufragio della civiltà, se l’anima moderna – più affettiva che strutturata – può lasciarsi toccare da una grazia che l’attrae e la fissa nel bene, sarà in ragione dell’esempio della pace interiore e della preghiera dei monaci, della loro devozione e della loro comunione nelle gioie e nelle sofferenze che sigilla il patto comunitario e lega i fratelli fra di loro, avvolgendoli di carità divina.
La spiritualità tutta familiare della Regola traspare pressoché a ogni pagina. Nel capitolo 2 si ricorda all’abate che ha ricevuto il nome di Padre. Nel capitolo 64 gli è chiesto di far sempre prevalere la misericordia sulla giustizia, di bandire i vizi ma di amare i fratelli, di applicarsi a essere amato più che temuto. Nel capitolo 27 gli è chiesto che «si prenda cura dei fratelli colpevoli con la più amorevole premura» e finanche di «inviare monaci anziani e saggi i quali, quasi di nascosto, incoraggino il fratello vacillante», nonché d’imitare «il gesto tenerissimo del buon Pastore che, lasciate sui monti le sue novantanove pecore, andò alla ricerca di quella sola che si era smarrita, e tanto si mosse a compassione per la sua debolezza, da degnarsi di caricarsela sulle sacre spalle e così riportarla al gregge». Sant’Odilone, abate di Cluny, è soprannominato da un contemporaneo Archangelus monachorum. Quando gli veniva rimproverata la sua troppa grande bontà, egli rispondeva: «Se sono dannato, preferisco che sia per avere usato troppa misericordia, piuttosto che per troppa durezza».
Nel capitolo 36 De infirmis fratribus («I fratelli malati»), il nostro santo Padre fa pesare in tal senso il peso della sua autorità paterna: «Prima di tutto e soprattutto ci si deve prendere cura dei fratelli malati, servendoli veramente come Cristo in persona, poiché egli stesso dice: Ero malato e mi avete visitato». Al punto che san Bernardo consigliava di comportarsi in maniera tale che il fratello malato non avesse di che rimpiangere l’assenza della propria madre.
È ancora con la più pressante carità che dev’essere accolto lo straniero di passaggio: «Tutti gli ospiti che giungono (supervenientes!) al monastero siano accolti come il Cristo in persona, poiché un giorno egli dirà: Ero forestiero e mi avete ospitato» (cap. 53). Questa regola d’oro può essere applicata in prolungamenti infiniti perché ogni uomo, in ogni momento, nel mistero della sua solitudine, merita di essere accolto come un fratello prediletto.
Per costruirsi egli stesso e intraprendere il cammino verso Dio, o per meglio dire, come afferma san Benedetto nel prologo alla Regola, giacché «si corre con cuore dilatato e con ineffabile dolcezza di amore sulla via dei divini comandamenti», ciò di cui gli uomini hanno più bisogno è una Regola saggia, una guida che «si mostri insieme esigente maestro e tenerissimo padre» (cap. 2) e una famiglia forte e unita che, come una «fortissima stirpe» (cap. 1), li aiuti a rispondere alla loro vocazione. Abbiamo conosciuto un monaco innamorato di contemplazione il cui cuore era ancora insufficientemente incendiato di carità, il quale ignorava quanto i suoi fratelli avessero bisogno di lui. Il suo Padre Abate gli disse: «Essere contemplativo significa percepire in ciascuno dei propri fratelli un mendicante d’amore». È soprattutto per la conduzione delle anime che occorrerà fare esercizio di una pazienza a tutta prova. Ci vuole, diceva il buon san Francesco di Sales, «una tazza di scienza, un barile di prudenza e un oceano di pazienza»!
Parimenti, ciò che l’Ordine benedettino ha lasciato dietro di sé di più vero e di più profondo, non sono i monumenti del suo splendore passato, né la sapienza né la bellezza del canto gregoriano restaurato, ma una profonda impregnazione di carità. Ciò che gli dobbiamo è difficile a misurare, a tal punto la nostra civiltà è stata penetrata dal suo spirito. L’istituzione benedettina, senza averlo mai cercato, ha ispirato e modellato dall’interno un certo modo di governare, il carattere paterno della funzione regale, i consigli di giustizia, le tregue nelle guerre, la creazione degli ospizi, al punto che gli storici, una volta andati oltre le epoche oscure, fanno risalire alla Regola di san Benedetto la nascita di una civiltà della bontà.
Il cardinale Schuster, antico monaco di San Paolo fuori le Mura, riporta un episodio impressionante di cui fu testimone. Il vecchio Abate del monastero, dom Bonifacio Oslaender, morente, stava ricevendo l’estrema unzione; non potendo più parlare, si sforzava con insistenza di fare comprendere ai monaci che lo circondavano il suo vivo desiderio. Poiché non vi riusciva, gli fu suggerito di provare a scrivere quel che domandava. Dice dom Schuster: «Ci trovavamo nel pieno dell’estate romana, sfiniti da lunghe notti di veglia. Egli scrisse con mano tremante e ci vollero degli sforzi per decifrare quegli scarabocchi del morente. Infine ci riuscimmo: “Dite al Padre Priore che faccia portare del gelato a tutti i monaci della comunità”. Questa attenzione delicata – prosegue dom Schuster – fa cogliere sul vivo la carità di un’anima formata alla scuola del Patriarca di Monte Cassino».
Per comprendere il genio profondo della tradizione monastica occorre ricordarsi della sua antichità e della linfa evangelica che affonda le sue radici fino ai primi tempi della Chiesa. Ella ne conserva una semplicità e un candore che i grandi momenti della sua storia, non più che lo splendore della sua liturgia – «il monaco è un bambino che canta e gioca» –, sono quasi vicini a fargliela scordare. La fedeltà dei monaci alla loro comunità si accompagna a una fedeltà alla Chiesa e a un indefettibile attaccamento alla Sede romana attorno alla quale, secondo un’antica profezia, nei tempi ultimi essi costituiranno un bastione. Assorbiti dalla loro preghiera, dai loro studi e dai loro lavori, lasciando ad altri l’opera necessaria e ardente delle grandi polemiche, i monaci ricevono dal loro fondatore il nome e l’eredità della benedizione: benedire Dio, attirare la benedizione sulla città degli uomini, formare un coro in cui il lavoro si alterni alla preghiera. Con la freccia del desiderio tesa verso l’altra riva, da cui attendono la rivelazione del loro volto autentico, essi fanno salire giorno e notte verso il Cielo un canto annunciatore della Città futura.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Ce que nous devons à saint Benoît, in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome II, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2010, pp. 527-541 (qui pp. 537-541), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 4 - fine]

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