Il senso della maestà del Signore fu una delle caratteristiche dominanti della riflessione religiosa dei monaci. Ora essa si è manifestata, più ancora che nei loro scritti teologici, nella loro produzione liturgica. Questa merita di essere considerata e di esserlo per ultima, perché è legata a tutto il resto della vita monastica: alla sua pratica, perché è ordinata ad una delle sue osservanze principali che è l’esercizio del culto; alla sua cultura, di cui fu, a un tempo, lo stimolo e il risultato. Indubbiamente la liturgia costituisce una delle fonti di questa cultura: è in parte per mezzo di essa, in essa, che i monaci entravano in contatto con la Scrittura e i Padri, si compenetravano dei grandi temi religiosi tradizionali. Ma fu egualmente nella liturgia che la loro cultura trovò uno dei suoi terreni privilegiati di espressione: proprio per essa composero i testi più numerosi. Sono, oggi, i più dimenticati, ad eccezione di qualche capolavoro la cui origine monastica non è quasi più conosciuta, perché sono entrati nel tesoro comune della liturgia occidentale. Ma queste composizioni scelte sono parte di un insieme vastissimo: non si avrebbe, senza di esso, un’idea completa della letteratura monastica.
Il termine liturgia è preso qui in quel senso largo in cui può designare tutte le forme della preghiera. Nel medio evo esse trovano la loro perfetta espressione e la loro sintesi nella celebrazione pubblica dell’ufficio divino. Non era stato così in tutti i tempi: i monaci delle prime generazioni avevano, da soli o insieme, recitato Salmi, e talvolta in gran numero; ma quasi non avevano fatto posto, nella loro vita ritirata dal mondo, al culto pubblico della Chiesa. S. Benedetto era ritornato, su questo punto, come su altri, a una giusta misura: dodici salmi per notte, e il salterio intero ogni settimana. Aveva arricchito l’ufficio monastico di testi non biblici in uso nel culto di alcune chiese, come quegli inni che aveva chiamato «ambrosiani»; aveva insistito sull’alto valore di questa preghiera comune, di cui aveva fissato quasi tutti i dettagli. Ma nella sua Regola, l’ufficio divino non è una delle occupazioni che richiedano la maggior parte del tempo. Ben presto, per influenza di circostanze che egli non aveva potuto prevedere, la parte fatta alla liturgia nella vita monastica si accrebbe sempre più. […]
I monaci hanno scritto poco sulla liturgia: era evidente che essa era importante e, per uomini che vivevano costantemente nella sua luce, non esigeva commenti; piuttosto essa stessa costituiva il commento normale e ordinario della Sacra Scrittura e dei Padri. Questo è vero specialmente per Cluny, dove la liturgia occupava un posto così grande: S. Odone nelle sue Conferenze e nel suo poema su l’Occupazione, S. Odilone nei suoi sermoni, Pietro il Venerabile nei suoi diversi scritti non spiegano per nulla la liturgia e ne parlano raramente. Si scrivevano senza dubbio testi destinati ad esservi letti: leggende agiografiche, sermoni solenni come quelli di Pietro il Venerabile su S. Marcello o sulle reliquie di un santo, o quelli di S. Bernardo su S. Vittore; si componevano trattati di computo in cui tutte le risorse dell’aritmetica e dell’astronomia servivano a calcolare il ciclo delle feste; si domandavano alla liturgia i temi della predicazione, anche quando questa consisteva nell’interpretare la Scrittura: così i sermoni di S. Bernardo sul Salmo Qui habitat abbondano di allusioni alla Quaresima durante la quale si cantano spesso versetti di questo Salmo. Sono dunque pochi gli scritti monastici che noi possediamo sulla liturgia. Generalmente – e anche su questo punto appare una delle costanti della cultura monastica – i riti si giustificano con la storia, come in quel «manuale di liturgia», in cui Valafrido Strabone studiò le origini e gli sviluppi di certe osservanze ecclesiastiche. Ma questi trattati di carattere pratico o erudito non sono elogi dell’ufficio divino, della sua bellezza o del suo valore pedagogico; non sono esortazioni a riconoscergli un posto di preminenza nella vita religiosa: questi generi letterari sono necessari solo nei periodi in cui bisogna ravvivare il senso liturgico e restaurare la liturgia. I monaci, al contrario, sono unanimemente convinti dell’importanza primordiale che spetta all’attività con cui proclamano la gloria di Dio: il sentimento della maestà del Signore orienta e domina tutti i loro scritti, come quel trattato di Ruperto di Deutz Sugli uffici divini nel cui prologo egli afferma con tanta forza:
«I riti che secondo l’ordine stabilito nel corso dell’anno si compiono negli uffici divini… sono segno delle più alte realtà e contengono i massimi misteri dei divini segreti… Poiché questi riti sono stati ordinati e istituiti per la gloria del Signore nostro Gesù Cristo, che è il capo della Chiesa, da quegli uomini che intesero in modo sublime i misteri della sua Incarnazione, della sua Natività, della sua Passione, della sua Resurrezione e della sua Ascensione e fedelmente e sapientemente si studiarono di proclamarli con la voce, con le lettere, e con questi riti… Ma celebrare questi riti e non intenderli è come parlare una lingua e non saperla comprendere. Chi poi parla le lingue, dice l’Apostolo, preghi per aver il dono dell’interpretazione; e, tra i doni spirituali dei carismi, con i quali lo Spirito Santo orna la sua Chiesa, ci esorta a desiderare soprattutto la profezia, cioè il dono per il quale possiamo anche capire con l’intelligenza quel che diciamo pregando in ispirito o salmodiando».
[Dom Jean Leclercq O.S.B., Cultura umanistica e desiderio di Dio. Studio sulla letteratura monastica del Medioevo, trad. it., Sansoni, Milano 2002, pp. 307-310]
Il termine liturgia è preso qui in quel senso largo in cui può designare tutte le forme della preghiera. Nel medio evo esse trovano la loro perfetta espressione e la loro sintesi nella celebrazione pubblica dell’ufficio divino. Non era stato così in tutti i tempi: i monaci delle prime generazioni avevano, da soli o insieme, recitato Salmi, e talvolta in gran numero; ma quasi non avevano fatto posto, nella loro vita ritirata dal mondo, al culto pubblico della Chiesa. S. Benedetto era ritornato, su questo punto, come su altri, a una giusta misura: dodici salmi per notte, e il salterio intero ogni settimana. Aveva arricchito l’ufficio monastico di testi non biblici in uso nel culto di alcune chiese, come quegli inni che aveva chiamato «ambrosiani»; aveva insistito sull’alto valore di questa preghiera comune, di cui aveva fissato quasi tutti i dettagli. Ma nella sua Regola, l’ufficio divino non è una delle occupazioni che richiedano la maggior parte del tempo. Ben presto, per influenza di circostanze che egli non aveva potuto prevedere, la parte fatta alla liturgia nella vita monastica si accrebbe sempre più. […]
I monaci hanno scritto poco sulla liturgia: era evidente che essa era importante e, per uomini che vivevano costantemente nella sua luce, non esigeva commenti; piuttosto essa stessa costituiva il commento normale e ordinario della Sacra Scrittura e dei Padri. Questo è vero specialmente per Cluny, dove la liturgia occupava un posto così grande: S. Odone nelle sue Conferenze e nel suo poema su l’Occupazione, S. Odilone nei suoi sermoni, Pietro il Venerabile nei suoi diversi scritti non spiegano per nulla la liturgia e ne parlano raramente. Si scrivevano senza dubbio testi destinati ad esservi letti: leggende agiografiche, sermoni solenni come quelli di Pietro il Venerabile su S. Marcello o sulle reliquie di un santo, o quelli di S. Bernardo su S. Vittore; si componevano trattati di computo in cui tutte le risorse dell’aritmetica e dell’astronomia servivano a calcolare il ciclo delle feste; si domandavano alla liturgia i temi della predicazione, anche quando questa consisteva nell’interpretare la Scrittura: così i sermoni di S. Bernardo sul Salmo Qui habitat abbondano di allusioni alla Quaresima durante la quale si cantano spesso versetti di questo Salmo. Sono dunque pochi gli scritti monastici che noi possediamo sulla liturgia. Generalmente – e anche su questo punto appare una delle costanti della cultura monastica – i riti si giustificano con la storia, come in quel «manuale di liturgia», in cui Valafrido Strabone studiò le origini e gli sviluppi di certe osservanze ecclesiastiche. Ma questi trattati di carattere pratico o erudito non sono elogi dell’ufficio divino, della sua bellezza o del suo valore pedagogico; non sono esortazioni a riconoscergli un posto di preminenza nella vita religiosa: questi generi letterari sono necessari solo nei periodi in cui bisogna ravvivare il senso liturgico e restaurare la liturgia. I monaci, al contrario, sono unanimemente convinti dell’importanza primordiale che spetta all’attività con cui proclamano la gloria di Dio: il sentimento della maestà del Signore orienta e domina tutti i loro scritti, come quel trattato di Ruperto di Deutz Sugli uffici divini nel cui prologo egli afferma con tanta forza:
«I riti che secondo l’ordine stabilito nel corso dell’anno si compiono negli uffici divini… sono segno delle più alte realtà e contengono i massimi misteri dei divini segreti… Poiché questi riti sono stati ordinati e istituiti per la gloria del Signore nostro Gesù Cristo, che è il capo della Chiesa, da quegli uomini che intesero in modo sublime i misteri della sua Incarnazione, della sua Natività, della sua Passione, della sua Resurrezione e della sua Ascensione e fedelmente e sapientemente si studiarono di proclamarli con la voce, con le lettere, e con questi riti… Ma celebrare questi riti e non intenderli è come parlare una lingua e non saperla comprendere. Chi poi parla le lingue, dice l’Apostolo, preghi per aver il dono dell’interpretazione; e, tra i doni spirituali dei carismi, con i quali lo Spirito Santo orna la sua Chiesa, ci esorta a desiderare soprattutto la profezia, cioè il dono per il quale possiamo anche capire con l’intelligenza quel che diciamo pregando in ispirito o salmodiando».
[Dom Jean Leclercq O.S.B., Cultura umanistica e desiderio di Dio. Studio sulla letteratura monastica del Medioevo, trad. it., Sansoni, Milano 2002, pp. 307-310]