Augusto Mussini, detto fra' Paolo (1870-1918), San Romualdo e cinque discepoli nella foresta |
Durante la Notte pasquale, la santa Chiesa vi ha dato quel che ha di migliore: vi ha donato la caparra dell’eternità e voi ne avete ottenuto – alle due fonti del sacramento e della poesia – la sostanza. L’intero anno liturgico tende verso questo vertice, che è l’espressione cultuale dell’essenza del cristianesimo.
Ma il mistero pasquale non è un punto nello spazio. È una linea continua con la quale si deve identificare la linea della vostra vita: voi siete venuti in monastero per vivere il mistero pasquale, che consiste nel passare da questo mondo a Dio.
La Pasqua non finisce. La Pasqua è la transumanza dell’umanità redenta che passa dalla terra d’Egitto alla terra promessa, dalle tristezze del tempo alle gioie dell’eternità, dalla cella al cielo. Non si finisce mai di convertirsi.
Quando in forma di auspicio chiediamo ai nostri fratelli secolari di pregare per la nostra conversione, essi assumono uno sguardo confuso: «Se non siete convertiti voi, chi lo sarà?». Lo lasciamo dire, ma sapete che i nostri antichi, per significare l’ingresso in religione, impiegavano la formula «venire ad conversionem», «cominciare a rivolgersi a Dio». È un lavoro che dura tutta la vita e che ci assorbe interamente.
Nel Vangelo della terza domenica dopo Pasqua, leggiamo: «Un poco e non mi vedrete; un poco ancora e mi vedrete» (Gv 16,19). I Padri della Chiesa ci forniscono le «armoniche» di questa parola misteriosa, da cui consegue che il mistero pasquale si estende a tutta la vita, e che la vita è «un poco». Gesù allora scompare dai nostri occhi carnali: è il tempo della prova, la traversata del deserto, la notte della fede. Poi sarà la visione in cielo. Allora, prosegue Gesù, «la vostra tristezza si cambierà in gioia» (Gv 16,20). Già alla Pentecoste, lo Spirito Santo ci fa «gustare Gesù». Non è un modo saporito di vedere Gesù con gli occhi dell’anima? È la gioia nella fede.
«Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre» (Gv 13,1). Vedete che tutta la nostra vita, come quella di Gesù, consisterà nel passare da questo mondo a Dio. Notate tuttavia che per Gesù si trattava di una traiettoria tipica e sacrificale grazie alla quale ci preparava il sentiero, mentre per noi l’espressione passare da questo mondo a Dio indica più di un movimento locale, o anche semplicemente cultuale. Occorre passare strappandoci da questo mondo al quale una certa parte di noi rimane attaccata. Ecco ciò che assegna all’ascesi una parte essenziale nella spiritualità di Pasqua.
Osservate che san Paolo, nella Lettera ai Colossesi, dice che Dio ci ha strappati, rapiti, innalzati – come tradurre adeguatamente «eripuit nos»? –, «liberati dal potere delle tenebre» (Col 1,13) e che ci ha trasportati – «transtulit nos»: il verbo indica un’azione passata –, «trasferiti nel regno del Figlio del suo amore» (ibidem). Comprendete adesso il giubilo, direi quasi l’ubriacatura, della liturgia pasquale! Il termine non vi scandalizzi: si tratta della «sobria ebbrezza spirituale» di cui parla sant’Ambrogio
Il vocabolario mistico utilizza questa parola perché nello stato d’ubriacatura, l’uomo non si appartiene più.
Viviamo per Dio!
La liturgia pasquale riassume il mistero della Chiesa in ciò che essa ha di essenziale, di celeste, di permanente. La Pentecoste, l’Assunzione, Ognissanti: si tratta ancora del mistero pasquale. Ecco perché vi ho detto in altra occasione che, secondo san Paolo, noi siamo già passati al Regno. Lo stato di grazia suppone che la nostra anima bagni già nella luce dell’eternità. Ecco perché i cristiani sono della gente a parte. Sono delle persone diverse dalle altre. Esteriormente, certo, siamo degli esseri fragili e spesso ridicoli; abbiamo tutte le infermità della terra, talora addirittura le meno confessabili! Ma è sufficiente che il nostro sguardo s’innalzi e che diciamo «Padre nostro» per ricordarci che, in realtà, noi siamo una razza celeste.
Ebbene, la Regola benedettina non è altro che l’organizzazione di una vita in società in cui l’intera esistenza è una preparazione e – diciamo la parola – un’anticipazione della vita degli eletti in cielo. È una grande liturgia in cui tutti i gesti acquisiscono un valore sacrale, un valore di culto. Ecco un’esistenza del tutto ordinaria, ma trasfigurata dall’interno mediante la preghiera e i sacramenti, che si dispiega completamente in presenza di Dio con un profumo antico che ci proviene dal fondo delle epoche: come ai tempi di san Benedetto, noi conduciamo una vita semplice, contadina, familiare, dai ritmi lenti, senza lampi o colpi di scena; è la vita nascosta, come a Nazaret.
Ma è una vita esigente che domanda che si adottino dei costumi celesti.
Sarebbe davvero sconveniente, per non dire volgare, non fare caso a quel che ci regala la santa liturgia. Aprite i vostri messali, leggete le mirabili collette del Tempo pasquale e ditemi se non c’è in esse tutta una regola di vita, un metodo per dirci come vivere, come agire.
Colletta del Martedì di Pasqua: «concede famulis tuis ut sacramentum vivendo teneant quod fide perceperunt» («concedi ai tuoi servi di custodire nella loro vita quel sacramento che ricevettero mediante la fede»).
Ciò che abbiamo ricevuto con l’intelligenza della fede nella notte di Pasqua, si tratta ora di tenerlo nelle nostre mani per farne della vita!
Colletta del Venerdì di Pasqua: «quod professione celebramus, imitemur effectu» («riprodurre con le opere ciò che professiamo esternamente»).
Ecco cosa ci spinge nei nostri sogni! Non che ciò che abbiamo celebrato con una professione di fede così solenne durante la santa Notte sia un sogno (è anzi probabilmente, al contrario, la realtà suprema). Ma l’illusione nasce quando si pensa che sia sufficiente riferirvisi mentalmente. Con due parole energiche, la liturgia c’invita al più esigente realismo: imitemur effectu, riprodurre con le opere!
Tradurre in miele la luce caduta dalle corolle.
Quando trasformiamo in carità effettiva quello che traiamo dall’interno di questi testi, siamo veramente le api del buon Dio.
Vi ho detto che la santa liturgia ci dona la caparra dell’eternità. È rigorosamente vero. Il termine compare in san Paolo – «arrabon» (Ef 1,14) –, non solo il pegno, ma una garanzia reale (versare una caparra non consiste nel fare delle promesse, ma denaro contante!).
Il buon Dio ha sigillato l’unione nuziale del suo Figlio unigenito con la Chiesa concedendole una dote regale: i gioielli della sua liturgia e dei suoi sacramenti. Il fiume liturgico è una collana di perle. Ed è per suo tramite che ella ci parla dell’eternità.
Ella si comporta come fece Marco Polo al suo ritorno dalla Cina. L’episodio vi è noto: dopo ottant’anni di assenza eccolo sbarcare a Venezia con suo padre Nicola e suo zio Matteo. Tutti e tre indossano dei costumi asiatici, ma si dichiarano veneziani. Non si crede loro. Allora offrono un banchetto in città e poi, dopo la cena, si alzano in silenzio e in contemporanea si strappano i vestiti di dosso, lasciando cadere a terra rubini, zaffiri e smeraldi. Ecco, la santa Chiesa fa lo stesso: i diamanti della sua liturgia ci parlano dell’Altro Mondo!
Poi viene il Tempo dopo la Pentecoste, e la luce della Pasqua continuerà a diffondersi attraverso il Temporale e il Santorale; essa ci parla del cielo: approfittatene.
Sono contento perché uno di voi mi ha detto che gustava il pane quotidiano della liturgia, l’invisibile, l’elementare: quella strofa dell’inno, l’altro versetto del salmo, che recitiamo ogni giorno. Tutto è grande nella liturgia perché tutto viene da Dio e tutto risale a Lui con una sovrana efficacia.
Come dice dom Guéranger, «la preghiera della Chiesa è la più piacevole all’orecchio e al cuore di Dio, e perciò la più potente. Fortunato quindi colui che prega con la Chiesa, che associa i suoi voti particolari a quelli di questa Sposa cara allo Sposo e sempre esaudita».
[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le mystère pascal continue, in Itinéraires, n. 244, giugno 1980, pp. 102-106, poi in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome I, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 185-190, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]