martedì 17 maggio 2011

Una regola di vita interiore / settima parte

La preparazione alla morte

San Benedetto raccomanda di avere ogni giorno l’idea della morte davanti agli occhi. Non un’idea tediosa che avveleni le minime gioie dell’esistenza, ma l’idea felice del nostro passaggio in Dio, che è la gioia al di sopra di tutte le gioie.
Impegnatevi nell’abituarvi ogni sera a questo santo esercizio, che vi darà pace e tranquillità d’animo. Come vi sembreranno vani, allora, i problemi e i litigi. Si acquisisce in tal modo una grande libertà interiore, e il nostro cammino si fa più allegro, quanto più si avvicina l’istante dell’incontro. Il primo beneficio sarà quello di esorcizzare la paura. Così fa dire Péguy alla sua Jeannette de Domrémy: «Quando taglio la legna per strada e mio padre mi chiama a casa, non ho paura di mio padre». Il secondo beneficio sarà di stuzzicare in noi il desiderio di Dio. Il desiderio di vedere Dio soggiace a tutto il Vangelo. Essere salvati non significa soltanto sfuggire alle grinfie del demonio, ma conoscere Dio come si conosce lui stesso. Non conviene che Dio si doni a un’anima che non lo desidera sufficientemente.
Ripetete spesso fra voi stessi questa frase lapidaria di san Paolo: «Mihi vivere Christus est, et mori lucrum» («Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno»). E ancora la mirabile formula del Prefazio dei defunti: «Tuis enim fidelibus, Domine, vita mutatur, non tollitur» («Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata»).
I colpi della sofferenza dati ai nostri corpi sono come i colpi del becco del pulcino racchiuso nell’uovo: fra qualche istante sarà la luce!

La vita interiore

«Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33).
«Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!» (Lc 17,21).

Secondo queste parole, è chiaro che il Regno significa un’intima amicizia con Dio. C’è nel mondo una dose d’incoscienza e di mediocrità che non può essere compensata se non da anime innamorate della vita interiore. Ecco come Dom Delatte poneva il problema: «Credete che il Signore abbia dato il suo sangue per ottenere quello che il mondo gli dà? Anime battezzate che vanno di caduta in caduta, che usano la loro vita nella lontananza da Dio, negli sforzi intermittenti seguiti da ricadute più pesanti, fino a che – stanchi, feriti dalle lotte – si addormentano con l’assoluzione e l’estrema unzione… Credete che il Signore non abbia pensato che a questo e a questa fine prosaica? Ritenete che questo sia sufficiente per rispondere all’Incarnazione e alla Redenzione? Non siamo stati amati a metà. Dio non ha usato né limiti né riserve. Ha speso ogni risorsa del suo amore e ci si è messo tutto intero. Ci ha dato tutto e si è donato lui stesso nel suo Figlio. Non vi è che una risposta all’amore che ha fatto la Redenzione; una sola risposta sufficiente: è la carità assoluta, che non si risparmia».
La sera della prima comunione Padre Emmanuel riunì i bambini dopo la celebrazione e disse loro in modo serio: «Adesso non appartenete più al mondo; appartenete a Gesù Cristo». È così che educava le anime a quel risveglio della fede che chiamiamo vita interiore.
Si è troppo spesso confuso vita interiore e introspezione. Si tratta invece di uno sviluppo del vecchio uomo, di un candore, di uno spirito infantile e di una fiducia invincibile che nulla fa vacillare. È la scoperta nel fondo dell’anima del Regno in tutta la sua freschezza: «Regnum Dei intra vos est» («il regno di Dio è in mezzo a voi»). «La vita interiore – diceva Dom Romain – è un’irradiazione della fede in tutta la sua potenza che ci permette di conoscere Dio, noi stessi e le creature». Egli vi riconosce tre caratteristiche: è necessaria (senza di essa la fede languisce), sovrana (deve dominare tutta l’esistenza), indivisibile (non bisogna frammentarla). Ciò che i Padri della vita monastica dicevano vita contemplativa, noi la chiamiamo vita interiore, per poterla estendere a tutta la vita; ma è la stessa realtà. Non un rinchiudersi in sé stessi, ma un irradiamento soprannaturale; non un rifugio, ma un trampolino; non un riparo, ma un faro. Coltivare la vita interiore è legato direttamente alle esigenze implicate nel Vangelo. È questa vita interiore che permetteva a san Paolo di dire che era «pervaso di gioia in ogni tribolazione» (2 Cor 7,4). È sempre la vita interiore di cui Gesù parlava dicendo: «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Une règle de vie intérieure, originariamente in Itinéraires, n. V (seconda serie), marzo 1991; poi, in versione aumentata, come pubblicazione a sé stante dal titolo Une règle de vie, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1994; da quest’ultima ripresa in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome II, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2010, pp. 376-402 (da cui la presente traduzione; qui pp. 395-398), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 7 - continua]

Share/Save/Bookmark