sabato 23 aprile 2011

Exultet


O beata nox!

La notte di Pasqua è il cuore dell’anno liturgico. Una lunga fila di fedeli preceduta dal diacono portacero entra nella chiesa ancora debolmente illuminata, quando, in mezzo al coro, prorompe il Præconium paschale:

Exultet iam angelica turba cælorum
Esulti il coro degli angeli, esulti l’assemblea celeste

Eccoci davanti a uno dei più antichi e sontuosi monumenti della pietà liturgica della Chiesa.
Forse non esiste altro esempio di un discorso teologico così esatto, sostenuto da un’onda così alta e potente di poesia, dove l’immagine e l’idea siano così perfettamente legate alla corrente di gioia e d’amore che il canto eleva.
Teologia, poesia, musica sono allora una sola cosa al servizio della preghiera sacramentale. La «voce della Sposa» lascia fondere accenti così particolari e riconoscibili che un figlio di Israele, per averlo inteso una sola volta, stimò che il lirismo della sinagoga fosse passato alla Chiesa e si risolse a convertirsi.
Ignoriamo l’origine esatta di questo pezzo magistrale chiamato sia laus cerei sia præconium paschale, espressione che bisognerebbe tradurre con canto o «elogio dell’araldo pasquale», ma che dev’essere ascoltato ed eseguito nel suo tenore originale, il latino dei Padri, che è una lingua decisa, fruttata, dalle cadenze nobili e armoniose.
L’antica liturgia romana non conosceva, in origine, né il rito di benedizione del fuoco nuovo, né il canto dell’Exultet. La prima parte della vigilia pasquale è stata introdotta a Roma all’inizio del periodo carolingio sotto l’influsso della liturgia gallicana.
Sappiamo che i nostri avi avevano un cuore esuberante e gioioso; la natura, che li aveva dotati di un coraggio leggendario, li portava anche a meravigliarsi con libertà davanti a cose sacre, a ciò che è dono di Dio. Roma aveva portato ordine e disciplina. Qualche tempo più tardi, lo spirito della liturgia gallicana, grazie al prestigio della dominazione franca, rifluiva nell’antica e sobria tradizione primitiva, associando la libera ispirazione alla gravità romana. Possiamo vedervi un sorriso della Provvidenza.
Tra le composizioni assai difformi create tra il IV e il V secolo, è sorprendente che la liturgia abbia scelto e fissato il nostro Exultet. Gli uomini sono uomini. Ciò che un retore ciceroniano in vena d’eloquenza poteva infliggere agli uditori dell’epoca ha di che far fremere. Si tramanda che il diacono Presidio di Piacenza, avendo chiesto consiglio a san Girolamo – nel 384 – per la composizione di un Præconium paschale, si sentisse rispondere dal suo rude corrispondente: «Lasci la retorica e si ritiri nel deserto!».
Il nostro testo attuale, da datare probabilmente al V secolo, è stato attribuito a sant’Agostino. È sotto il suo nome che figura nel Missale Gothicum: «Benedizione del cero del beato Agostino, vescovo, che compose e cantò quando era ancora diacono». Certamente la teologia agostiniana ne ispira il tenore essenziale: l’universo della Redenzione è migliore di quello che era nello stato dell’innocenza. «O certe necessarium Adæ peccatum!» («Davvero era necessario il peccato di Adamo»).
Dal punto di vista musicale, la difficoltà consisteva nel trovare un supporto melodico per questa lunga effusione debordante di lirismo, dove si mescolano figure e simboli biblici frammisti a esclamazioni. Il recitativo di base fu preso a prestito dal tono solenne del prefazio. La riuscita consisteva nel dare ai vocalismi tutta la loro ampiezza senza infrangere l’unità della linea melodica. Bisognava permettere l’audacia proveniente dal libero giubilo dell’anima rispettando altresì la sobrietà dello stile romano. Il risultato è un equilibrato capolavoro di esattezza e pienezza.
Non possiamo fare un commento metodico di ogni frase del Præconium paschale, perché non si spiega il mistero, non si spiega la poesia; anche perché le grandi affermazioni della teologia scolastica sono di una tale esattezza e densità che la glossa dei commentatori non porta nessuna altra luce. Ma possiamo sottolineare una parola, una frase, suggerire una pista per la meditazione.
La prima parola, Exultet, dà il tono a tutto il brano. È la forma ottativa del verbo esultare: «Esulti», che ha come radice saltus, il salto. Ma sappiamo bene cosa significhi esultare? La Chiesa, lei, lo sa. Maria di Nazaret lo sa. Sapevano esultare i santi rapiti in estasi, i santi attraversati da una prova, che sovrabbondavano di gioia, come san Paolo in mezzo alle tribolazioni. Esultare è gioire non a causa del bene che si trova in sé stessi, ma a causa del bene che risiede nell’anima. La gioia della Sposa mistica del Cristo è una gioia che non è della terra, ci attira verso l’alto, attira il cuore dei fanciulli e li fissa fuori di essi, fuori delle fluttuazioni del tempo: là in alto, nel solido cielo, dove sono le vere gioie, «ubi vera sunt gaudia», come si dice in una splendida colletta.
La santa liturgia è una scuola di ammirazione e di gioia. Quando ci dice «sursum corda», ci insegna non l’introspezione ma l’estasi. Il Præconium paschale non è che un lungo trasporto dell’anima in estasi davanti al mistero della sua liberazione.

Exultet iam angelica turba cælorum
Esulti il coro degli angeli, esulti l’assemblea celeste

La vita cristiana si svolge in presenza degli angeli. Sono sulle prime logge del Theatrum mundi; è normale che siano i primi a rallegrarsi a causa della gloria che si effonde sulla santa umanità del Cristo risuscitato e del bene che ne ricevono la vita della Chiesa e la vita delle anime di cui sono custodi.

Gaudeat et tellus tantis irradiata fulgoribus
Gioisca la terra inondata da così grande splendore

Tellus era il nome di un’antica divinità italica personificante la terra che nutre, o Terra madre, come la chiamavano i Romani. Che gioisca, dunque, anch’essa, soprattutto perché ha bevuto un tempo il sangue di Abele, giacché fu nel corso delle epoche testimone di tanti crimini, in quanto ha assorbito i fiotti del Sangue redentore. Che gioisca anch’essa, la vecchia terra («et tellus»), irradiata da una luce che la rinnova e la penetra sino in fondo e completamente! È il primo abbozzo della sua trasfigurazione a venire.

Hæc nox est
Questa è la notte

Con l’aiuto di una breve formula d’introduzione (un dimostrativo o un’esclamazione), undici volte nel corso dell’Exultet, sarà evocata la notte, ricordando le opere di Dio che, sotto l’antica alleanza, sono state realizzate nella profezia della notte di Pasqua (ricordo della fuga in Egitto, della colonna di luce che guidava gli Israeliti), o designando la stessa notte santa che fu testimone del mistero. Il verso è allora sottolineato da un’esclamazione ammirata di tenerezza: «O vere beata nox, quæ sola meruit scire tempus et horam, in qua Christus ab inferis resurrexit» («O notte beata, tu sola hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi!»).
Questo incanto della notte ripreso con insistenza è molto più di un piacevole procedimento letterario. È una proposizione cattolica fondamentale per affermare che la creazione è non un quadro inerte, ma un’esecutrice attiva e scelta dei disegni di Dio. Osservate l’uso che la Chiesa fa delle cose create nei suoi sacramenti e nella liturgia: l’acqua, il pane, il sale, il vino e l’olio, la pietra, l’oro e l’argento, la seta e la luce. Guardate anche come Dio si serva degli elementi per manifestare la sua presenza nella Bibbia: il vento, il tuono e i lampi, i terremoti, i sogni notturni. La Bibbia è un immenso poema cosmico e la tradizione liturgica non ha fatto che ereditare questa potente ispirazione quando ci parla della notte, non più come espressione del caos iniziale, ma come una complice dei disegni di Dio e una collaboratrice amichevole della sua Provvidenza.
Le grandi esclamazioni: «O immensità del tuo amore per noi!».
C’è un modo didattico e un modo incantatorio; c’è uno sviluppo metodico nell’esposizione tanto antica quanto lo spirito dell’uomo: definire, classificare, ordinare. E poi c’è il canto. La Chiesa assume questi due ordini con il catechismo e la liturgia. Non ci si pensa mai abbastanza: attraverso il canto, la Chiesa propone ai suoi figli un metodo di conoscenza superiore, che infonde nell’anima la conoscenza e l’amore insieme.
Al centro del brano, quattro grandi esclamazioni precedute dal vocativo «O» formano, attraverso la potenza e l’audacia della proposizione teologica, un apice luminoso che – riflettiamoci – supera ogni commento. È sufficiente citarle, osservando semplicemente che la melodia dolce e decisa si sposa meravigliosamente con il testo:

O mira circa nos tuæ pietatis dignatio!
O immensità del tuo amore per noi!

O inæstimabilis dilectio caritatis: ut servum redimeres, Filium tradidisti!
O inestimabile segno di bontà: per riscattare lo schiavo, hai sacrificato il tuo Figlio!

O certe necessarium Adæ peccatum, quod Christi morte delectum est!
Davvero era necessario il peccato di Adamo, che è stato distrutto con la morte del Cristo!

O felix culpa, quæ talem ac tantum meruit habere Redemptorem!
Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!

Per certo, ogni mente mediamente colta riconoscerà nel brano l’espressione «Felix culpa»«felice colpa» –, generalmente indebolita e distorta nel suo significato. Sono le Confessioni di sant’Agostino che danno la chiave di lettura di questa parola misteriosa. Quando il santo dottore esprime il suo dolore davanti alla malizia del peccato che esercitò su di lui tanta attrattiva, esprime la sua ammirazione di fronte all’eccesso della misericordia divina svincolata dalla miseria stessa che si appresta a guarire, e che si propone di restaurare, nel modo più sublime che le sia permesso, lo stato d’innocenza.
Questo principio si applica allora in maniera eminente al peccato di Adamo, senza il quale non si sarebbe manifestato un aspetto del mistero d’amore e di generosità infinita di Dio. Attraverso le grandi acclamazioni dell’Exultet, la Chiesa ci fa passare dalle lacrime della penitenza alla contemplazione ammirata del mistero della Redenzione.
Poi il diacono riprende l’elogio interrotto della notte pasquale:

Hæc nox est…

«Di questa notte è stato scritto: la notte splenderà come il giorno, e sarà fonte di luce per la mia delizia. Il santo mistero di questa notte sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l'innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti. Dissipa l’odio, piega la durezza dei potenti, promuove la concordia e la pace».

Come non rilevare la discreta allusione nel testo, quando descrive la materia di cui il cero è fatto:

Alitur enim liquantibus ceris, quas in substantiam pretiosæ huius lampadis apis mater eduxit
[Un fuoco ardente] si accresce nel consumarsi della cera che l’ape madre ha prodotto per alimentare questa preziosa lampada.

Si trova qui, nella maggior parte degli antichi manoscritti, un lungo sviluppo sul ruolo della casta ape della quale il compositore svolge con finezza l’elogio, paragonandola alla verginità feconda della santa Vergine, e che si conclude così:

O vere beata et mirabilis apis, cuius nec sexum masculi violant, nec filii destruunt castitatem, sicut sancta concepit Maria, virgo peperit et virgo permansit
O ape veramente felice e mirabile, la cui verginità non è stata mai violata e che è feconda restando casta, così come Maria che, santa tra tutte le creature, vergine concepì, vergine partorì, vergine rimase

I simboli e le figure dell’Antico Testamento, commoventi nella loro penombra annunciatrice, sono nuovamente evocati: O vere beata nox… O notte beata che hai spogliato gli Egiziani e arricchito gli Ebrei! E a questo mirabile brano segue:

O vere beata nox, in qua terrenis cælestia, humanis divina iunguntur
O notte veramente gloriosa, nella quale le cose del cielo si congiungono a quelle della terra, le cose divine a quelle umane

Fermiamoci.
Se abbiamo tradotto con pesantezza, materialmente, ripetendo la parola «cose», è perché i neutri plurali in latino sono carichi di senso; con la loro estrema concisione, enunciano un mistero: l’opera stessa della Redenzione è elevare l’uomo riscattato al rango di creatura angelica, per renderlo partecipe della natura divina, «divinæ consortes naturæ», come scrisse san Pietro nella sua seconda lettera. «Non siete più ospiti e pellegrini – ci dice san Paolo – ma concittadini dei santi e ospiti della casa di Dio!»; che prospettiva grandiosa sul mistero del nostro destino soprannaturale!
Elaboriamo dunque interiormente per meglio assaporare: «humanis divina iunguntur», unione del divino con l’umano. Le frontiere del visibile e dell’invisibile si dissipano con la grazia della liturgia celeste, meravigliosa dote che lo Sposo lascia alla sua Chiesa prima di riguadagnare il cielo. Il ciclo dell’anno liturgico è l’anello nuziale che ha un prezzo inestimabile col quale si riconosce alla Chiesa la dignità di sposa. Disgrazia a chi osa toccarlo.
Il Præconium paschale si conclude con un parallelismo sul cero inciso, intarsiato di grani d’incenso e posto in mezzo al coro della chiesa, immagine del Cristo risuscitato, e la stella del mattino che annuncia il giorno:

Flammas eius lucifer matutinis inveniat
Lo trovi acceso la stella del mattino

Ille, inquam, lucifer, qui nescit occasum
Quell’astro, intendo, portatore di luce e che non conosce tramonto

Ille, qui regressus ab inferis, humano generi serenus illuxit
Che risuscitato dai morti fa risplendere sugli uomini la sua luce serena.

Segue una formula deprecativa in favore del clero, del popolo dei fedeli, del Papa e del vescovo, con la clausola finale Per eundem Dominum nostrum Iesum Christum Filium tuum… cantata con voce forte, maestosa, allargando un po’ il ritmo, alla quale risponde l’Amen dell’assemblea.
Il diacono tace, senza fiato, certamente per il lungo recitativo declamato con voce alta e virile; il cuore batte forte, se è il suo primo Præconium, ma interiormente illuminato dalle sublimi parole che sono salite alle sue labbra. Depone gli ornamenti bianchi e riprende la stola violacea. Sul pulpito, il libro delle profezie è aperto e ascoltiamo sotto una nuova luce il lettore evocare le prime età del mondo.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), L’Exsultet, in Itinéraires, n. 232, aprile 1979, pp. 125-134, poi in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome I, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 102-112, trad. it. delle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo]

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