mercoledì 23 giugno 2010

Il "quadrato liturgico"

[Da un libro piccino e prezioso di cui auspichiamo presto l'edizione in lingua italiana, opera di dom François Cassingena-Trévedy O.S.B., monaco di Ligugé, edito nel 2007 a Ginevra dalle edizioni Ad Solem, offriamo un estratto]

Introduzione - Manipolo

Un livre est là sur l’autel… [1]

Così parlava Paul Claudel [1868-1955], dal suo «esilio» di Rio de Janeiro. Era il 1917 e tornava da una Messa bassa, e ripensava a tutte le Messe basse della sua vita, profondamente inscritte, e scriveva la sua. Persino «laggiù», la Messa era la Messa. La medesima, «da una sponda all’altra del mondo», come la Pace che faceva discendere. La Messa sentita come un essere a casa propria. Un libro è là sull’altare… Ritratto del libro, ritratto del messale. In illo tempore. «A quei tempi…». Ma chi di noi, posto solamente che sia in età matura, non conserva ancora il ricordo di questo libro? Chi di noi non discende da questo libro, più o meno, per le strade di una genealogia complessa e inconfessata, come sono in genere le vere genealogie? Chi di noi, anche senza averlo profondamente conosciuto, non l’ha comunque visto, non l’ha maneggiato, non l’ha sentito, non l’ha spolverato della sua polvere d’oro, non ha accarezzato i suoi segnalibri di stoffa e poi non l’ha riposto con scrupolo indefinibile? Il libro, così superato, ci resterà dunque nel cuore? D’altra parte il libro non è affatto estinto, dal momento che ci si appassiona stranamente per lui o, più esattamente, attorno a lui. Si sarebbe potuto credere che con il tempo la passione si sarebbe estinta, e invece vediamo che rimane vivace e fa ufficialmente rumore. Ma la pubblicità che si dà a una polemica ricorrente negli ultimi tre decenni e a delle rivendicazioni assolutamente attuali fa stato, tutto sommato, solo di epifenomeni, di sintomi esterni, e sembra che gli stessi «appassionati» si sottraggano senza sosta a un’analisi lucida e radicale della loro passione: del resto non è la regola, tante volte verificata, che gli attori – o piuttosto i manifestanti – della storia si dimostrano incapaci di controllarla, anche quando credono di agitarla per il proprio verso, malgrado sia questa a trascinarli nel proprio?
Forse è proprio qui che si situa il compito del liturgista, di cui sappiamo che, lungi dal costituirsi entomologo di forme separate, si sforza di fare, attraverso il confronto documentato con il passato e l’intuizione ragionevole dell’avvenire, una lettura corsiva delle evoluzioni e delle fratture. All’occorrenza, ci si aspetta da lui che, lungi dall’appassionarsi lui stesso, si ponga a distanza rispettosa (diamo a questo termine tutta la sua dimensione umana) e che tenti l’analisi, non solo della passione nella superficialità delle sue espressioni o delle sue interpretazioni pubbliche, ma dell’affetto (nel senso psicologico e quasi clinico) di cui questa è molto più profondamente rivelatrice. Detto in altro modo, nel cuore del dibattito contemporaneo sulla Messa tridentina, o piuttosto al suo scaturire (rispetto e lucidità sono d’obbligo), la parola del liturgista è altamente auspicabile: basata in primo luogo sulla certezza propriamente teologale di un’analogia tra fede e azione liturgica (leitourgia) che attraversa la storia del popolo di Dio in marcia verso il suo Signore, e in secondo luogo su quelle scienze umane per cui ormai ha un istinto, la sua parola avrà il compito di essere insieme, modestamente, quella di uno storico e di uno psicologo, l’uno e l’altro ritrovandosi nella stessa funzione interpretativa superiore. Come ha fatto sin da principio, tale parola onorerà anche la dimensione estetica, o più esattamente poetica, del suo oggetto: la Messa laggiù di Claudel non ci ha fornito di primo acchito un manipolo estremamente adatto ad appropriarci del libro e, con questo, ancor più dell’attaccamento che suscita?

Capitolo I - Aspetti di una personalità

È fuor di dubbio che il messale scaturito dal Concilio di Trento [1545-1563] sia caratterizzato da una forte individualità. A questo proposito è legittimo evocare anche una sorta di personalità. Questa non inerisce solamente al fatto che il messale in questione abbia una precisa data di nascita (1570) e che sia strettamente associato negli animi – e nei fatti – a un uomo anch’egli dotato di una forte personalità [2], san Pio V [1566-1572], per quanto alla sua gestazione sia stato necessario mezzo secolo (1514-1563) e una commissione abbia lavorato per cinque anni alla sua elaborazione. Più in profondità, si tratta di una personalità acquisita, conferita e confermata dalla longevità di un uso storico che, in modo già simbolicamente significativo, copre quattro interi secoli (1570-1969): il messale di san Pio V è un’esistenza a sé, un’esistenza identificabile e di cui ci si può dire genealogicamente solidali. Allo stesso modo una personalità linguistica, perché s’impone nella sua latinità formalmente intraducibile [3] e che, dal punto di visto della storia e della civilizzazione, rappresenta un atto propriamente imperiale della romanità. Senza dubbio l’ultimo: la sua caduta in desuetudine coincide, ancora una volta simbolicamente, con la scomparsa della latinità nella cultura occidentale, quando non ne sia stato uno degli agenti più efficaci. Personalità di costituzione, di temperamento e di progetto, che attiene ai due maggiori fattori (entrambi difensivi) che hanno presieduto alla sua genesi: di volta in volta, ad extra, l’imposizione di un baluardo rituale all’eresia che minacciava la fede tradizionale della Chiesa circa il sacramento-sacrificio dell’Eucaristia e, ad intra, la pulizia del rito, l’istituzione di uno strumento rituale sfoltito dalla vegetazione sfavillante e rigogliosa da cui era stato ingombrato al termine dell’epoca medievale, per lo meno una selezione nel florilegio delle «apologie» che avevano investito l’ordo missae in tre luoghi particolari: riti d’ingresso, offertorio e riti di comunione. Non va dimenticato, infatti, che la commissione istituita da Pio IV [1559-1565] ha fatto opera d’austerità quanto d’autorità; austerità che sembra, d’altronde, essere stato lo stimolo, il reattore paradossale della fioritura barocca della liturgia e delle sue forme [4].
Per la sua pretesa ostentata all’universalità, alla perennità, all’incorruttibilità, il messale tridentino svolge il ruolo di hapax, in ogni caso di novità, nella storia delle forme liturgiche. Esito di una pretesa romana che si era manifestata, nell’ambito liturgico e non solo disciplinare, sin dall’epoca della riforma gregoriana, in particolare nella penisola iberica. Preoccupazione per l’universale che, da un secolo appena, stimola la scoperta di un Nuovo Mondo (La messe là-bas…), a cui serve magnificamente un nuovo strumento, la stampa, di cui è assolutamente significativo che sia menzionato nella bolla del 1570 [5], e che rivela, nella stessa Chiesa, l’ingresso imminente in una nuova epoca del pensiero: quella del Metodo. Non bisogna infatti dimenticare che il messale del 1570 è un’opera della ragione e, allo stesso tempo, è uno degli atti più fondativi che posero, insieme ad altri, quest’epoca che la periodizzazione scolastica della storia denomina comunemente «Età moderna». Atto di «modernità» ancora fresca e forse inebriata dalla propria forza conquistatrice, questo messale ha ufficialmente l’ubiquità, questo messale-per-sempre che taluni oggi, quattro secoli più tardi e in un’eco che la dice lunga sull’inquietudine che li muove, chiamano volentieri il «messale di sempre». E, com’era normale a quell’epoca, l’atto di modernità «rinascente» suppose, per essere posto, un riferimento più o meno cosciente a un modello antico – e romano – di una monumentalità che trascende la storia: il messale tridentino si voleva anch’esso monumentum ære perennius [6]? Messale «monumentale», cioè che fa opera di memoria del passato come dell’avvenire (procede all’interinazione di un’evoluzione e ci si ricorderà di lui), messale del quale si è dato per scontato che arrestasse la storia e il cui rinvio ancora recente negli archivi dei monumenti liturgici ha suscitato una paura panica, quella che prende in genere l’uomo davanti all’irresistibile dominio di una storia che lo sovrasta sempre, qualunque cosa egli intraprenda per trarla in inganno. Messale «capitale» per il suo luogo geografico e simbolico di origine, per la sua topografia, e anche per la sua tipografia, come vedremo. Non è proprio di ogni capitale richiamare alla residenza e, perciò, suscitare un legame la cui messa in causa o la cui rottura non avvengono senza malessere?

Capitolo 2 - Le quattro cause

Poiché, considerando a fondo il messale tridentino nella sua collocazione storica, non vi è «oggetto» rituale (diamo qui al termine oggetto sia il significato concreto sia quello intellettuale) che non verifichi in sé, fuori da ogni dubbio, la legge che chiameremo – al fine pedagogico di schematizzare – il «quadrato liturgico». Mi spiego. Essendo dotati di una personalità sufficientemente portante, di un’individualità sufficientemente significativa (cioè capace di fare segno), tutti gli oggetti rituali – come può esserlo una «liturgia», nel senso tipico del termine – funzionano sia come principio attivo sia come risultante di un vasto sistema d’interferenze tra quattro poli maggiori che sono così declinati: polo teologico, polo devozionale, polo sociale, polo estetico. Per polo teologico s’intende il punto in cui le teologie sono concomitanti con il rito; per polo devozionale, l’insieme delle manifestazioni affettive e mistiche che questo suscita e che si concentrano su di esso; per polo sociale, gli stili di socializzazione, i comportamenti individuali o collettivi che esso instaura; per polo estetico, il vasto repertorio di forme artistiche di cui è di volta in volta e il mecenate e il beneficiario. Il rito si trova, per così dire, al centro di tale quadrilatero dinamico, interattivo, ove si operano degli scambi sottili: è attorno a questo, a partire da questo, a suo proposito, che prende forma tutto un universo culturale e religioso. È evidente che un tale «quadrato» non può essere prodotto e funzionare al di fuori di un mondo, di una «cristianità» coerente e produttiva, ove teologia, spiritualità e ritualità abbiano un’incidenza, una ripercussione reale e percepibile sui comportamenti socio-politici e le espressioni artistiche. Bisogna che tutto ciò faccia evidentemente, ufficialmente, pubblicamente sistema, perché si sia autorizzati a parlare di quadrato liturgico e, conseguentemente, all’incrocio delle sue diagonali, di un oggetto rituale caratterizzato.
Ora, è precisamente ciò che si è prodotto, e in modo assolutamente esemplare, attorno al messale tridentino. Entriamo in qualche dettaglio. Strumento rituale pienamente in accordo con le grandi riaffermazioni del Concilio di Trento in tema di eucaristia (sessioni XIII, XXI, XXII), il messale di san Pio V sostiene i molti approcci, le molte teorie, i molti tentativi teologici destinati a chiarire la natura sacrificale della Messa e la sua articolazione sul sacrificio della croce, da Caetano [Tommaso De Vio (1469-1534)] e Suarez [Francisco (1548-1617)] fino a padre de la Taille [Maurice (1872-1933)], passando per Franzelin [Johannes Baptiste (1816-1886)], Scheeben [Matthias Joseph (1835-1888)], dom Vonier [Anscar (1875-1938)] e dom Casel [Odo (1886-1948)]: ne è, per così dire, il vivaio e il laboratorio pratico. In modo molto particolare e sensibile questi è l’efflorescenza compiuta e duratura di un’ecclesiologia di tipo gerarchico, ecclesiologia la cui messa in opera concreta – è importante sottolinearlo – è la perfetta messa in scena, l’epifania e lo specchio […]

[François Cassingena-Trévedy, Moine de Ligugé, Te igitur. Le missel de saint Pie V. Herméneutique et déontologie d’un attachement, Ad Solem, Ginevra 2007, pp. 21-33, trad. it. di sr. Bertilla Obl.S.B.]

[1] Paul Claudel, La Messe là-bas (Lectures), Œuvres poétiques, Gallimard, Parigi 1950, p. 491.
[2] Nel pubblicare il messale del 1570, tuttavia, san Pio V non si segnala principalmente come liturgista (cosa che non ha mai preteso di essere): egli pone prevalentemente un atto «politico», nel senso che fa un’opera di unità cattolica (cfr. Nicole Lemaître, Saint Pie V, Fayard, Parigi 1994, p. 197). L’autorità del messale dev’essere posta in relazione con altri atti simbolici del suo pontificato, con i quali costituisce un sistema unico nella memoria storica ed ecclesiale.
[3] Ciò era stipulato, contrariamene alle rivendicazioni dei Riformati, nel capitolo 8 della XXII sessione di Trento: «Benché la Messa contenga un ricco insegnamento per il popolo fedele, non è tuttavia sembrato bene ai Padri che venga indistintamente celebrata in lingua volgare».
[4] Citiamo, a proposito dell’architettura, questa frase di [Bernhard] Hans [Henry] Scharoun [1893-1972]: «Assimilazione di barocco e Controriforma? Di fatto, la Chiesa tridentina avrebbe potuto – e non l’ha fatto – produrre il contrario del barocco». (Baroque. Italie et Europe centrale, Office du Livre, Friburgo 1964, prefazione, p. 14). Nella sua raffinata investigazione del linguaggio musicale e religioso, nel corso del XVII secolo in Francia, Monique Brulin osserva: «In quest’epoca si tratta di “rappresentare” l’emozione, di recitarla in senso teatrale cioè, in un certo senso, di mediatizzarla. Non viene abbandonata direttamente all’emozione e, proprio per questo, rinasce più forte» (Le Verbe et la Voix. La manifestation vocale dans le culte en France au XVII siècle, Beauchesne, Parigi 1998).
[5] Quod recognitum iam et castigatum, matura exhibita considerazione, ut ex hoc instituto, cœoque labore, fructus omnes recipiant, Romæ quam primum imprimi, atque impressum edi mandavimus.
[6] Cfr. Joseph-André Jungmann, Missarum solemnia, Aubier, Parigi 1951, t. I, p. 182: «Dopo un secolo e mezzo di sviluppo ininterrotto della Messa romana, dopo il flusso e riflusso di diverse correnti, il messale di Pio V innalza un potente sbarramento, dopo il quale le acque accumulate seguono la loro strada solo attraverso canali solidamente costruiti e in direzioni precise».

Share/Save/Bookmark