Conclusione
Al termine di queste righe, due espressioni
tornano allo spirito: azione di grazie e speranza.
Azione di grazie perché l’iniziativa di
Benedetto XVI pacifica la questione liturgica nel cuore dei pastori, dei
sacerdoti e dei fedeli, aprendo la via a una nuova evangelizzazione a partire
dalla liturgia in tutta la sua ricchezza.
Speranza perché non sembra possibile
risolversi definitivamente a uno smembramento, a una tensione dell’unico rito
romano in due forme, fra l’adorazione del corpo e il sangue di Cristo realmente
presente sull’altare e il servizio dell’assemblea (cfr. la già menzionata lettera
del card. Ratzinger al prof. Barth).
Questa tensione non è nuova nella storia
della Chiesa e richiama a un superamento.
Il Vangelo riporta la questione di un dottore
che voleva mettere alla prova il Signore (Mt 22,36-40; Mc 12,28-34). “‘Maestro,
nella Legge, qual è il grande comandamento?’. Gli rispose: ‘Amerai il Signore
tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente.
Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello:
Amerai il tuo prossimo come te stesso’” (Mt 22,36-39).
Il movimento liturgico ha perseguito la
partecipazione attiva di tutti al sacrificio eucaristico. Tale fine lodevole non
è forse diventato, poiché lo si è mal compreso, il fine stesso della
celebrazione? L’esortazione apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis
ricorda: “Conviene pertanto mettere in chiaro che con tale parola [actuosa
participatio] non si intende fare riferimento ad una semplice attività esterna
durante la celebrazione. In realtà, l'attiva partecipazione auspicata dal
Concilio deve essere compresa in termini più sostanziali, a partire da una più
grande consapevolezza del mistero che viene celebrato e del suo rapporto con l’esistenza
quotidiana” (n. 52).
Oggi, il motu proprio risponde al desiderio
del cuore inquieto di numerosi sacerdoti. Se si riconoscono come servitori
della parte del gregge loro affidato, sono altresì gli amici di Dio, e hanno
bisogno d’incontrarlo, di nutrirsi di lui attraverso la celebrazione della
liturgia.
Lavorare per ricentrare questa celebrazione
sul mistero, pur conservando gli apporti della riforma, sembra dunque un
sostegno alla vita spirituale dei sacerdoti, come anche l’accoglienza di un
sensus fidelium al quale Papa Francesco invita così spesso a essere attenti,
come una sfida per la Chiesa.
Reintrodurre ad libitum gesti come i segni
di croce, le genuflessioni, le riverenze, consentire la preghiera dell’offertorio
della forma extraordinaria, come pure la possibilità di recitare il canone in
silenzio, sarebbero dei semplici passi da mettere in atto nella forma
ordinaria.
Benedetto XVI ha aperto una via in tal
senso, scrivendo nella lettera ai vescovi in occasione della pubblicazione del
motu proprio Summorum Pontificum: “Nella celebrazione della Messa secondo il
Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è
spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso”.
Recentemente un missionario nei Paesi
asiatici ha scritto, a proposito dei cristiani che lo hanno sollecitato a
celebrare la Messa nella forma extraordinaria: “Amano celebrare Dio con un rito
accurato, ed essere collegati attraverso questa forma liturgica che ha nutrito
tanti santi a una Chiesa universale la cui storia è lunga e ricca, ben
anteriore al suo recente arrivo nel Paese”. Non parliamo del missionario per il
quale la celebrazione, anche in latino, è più agevole che nella lingua del
posto.
Non dà conforto ritrovare in Asia i
medesimi sentimenti che troviamo nei sacerdoti che vengono a imparare la forma
extraordinaria a Fontgombault? Questo tesoro, questa storia lunga e ricca che
incontrano, è l’universalità della Chiesa che, presente in una civiltà, in un
tempo e in un luogo, domina le civiltà, i tempi e i luoghi.
Questa Chiesa che è, secondo l’insegnamento
di Lumen Gentium, mistero e sacramento, vede questa ricchezza e al contempo
questa tensione del suo essere, riflettersi nella sua liturgia in due ethos
celebrativi, il misterico e il sociale (cfr. François Cassingena-Trévedy, Te
Igitur, Ad Solem, Ginevra 2007, cap. 6, pp. 81-82), la forma extraordinaria e
la forma ordinaria. Essa non può risolversi a lasciarli opporsi. Così il più
bel frutto del motu proprio è probabilmente ancora a venire. Nascerà dal rifiuto
di un “messale di prima” e un “messale di dopo”. Per nulla considerata dai
Padri conciliari, l’esistenza di due forme del rito romano richiama a una
convergenza, un mutuo arricchimento auspicato da Papa Benedetto XVI per il bene
della Chiesa e della sua liturgia, e che risponde alle parole stesse del Figlio:
“perché tutti siano una sola cosa” (Gv 17,21). Allora tutti potranno fare
proprie le parole pronunciate da Papa Benedetto XVI nel discorso all’Abbazia di
Heiligenkreux del 9 settembre 2007: “vi chiedo: realizzate la sacra liturgia
avendo lo sguardo a Dio nella comunione dei santi, della Chiesa vivente di
tutti i luoghi e di tutti i tempi, affinché diventi espressione della bellezza
e della sublimità del Dio amico degli uomini!”.
[Dom Jean Pateau O.S.B., Padre Abate dell’abbazia Notre-Dame di Fontgombault, “Fruits de la grâce du motu proprio Summorum Pontificum pour la vie monastique et la vie sacerdotale”, conferenza in occasione del V Convegno sul motu proprio Summorum Pontificum, dal titolo Il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI: Una rinnovata giovinezza per la Chiesa, svoltosi a Roma, presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino, il 14 settembre 2017. Trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 5 - fine (la prima parte qui; la seconda parte qui; la terza parte qui; la quarta parte qui)]