martedì 29 marzo 2011

Tutta la nostra esistenza è una liturgia

Mi avete chiesto quale posto bisogna lasciare alla vita liturgica nei nostri monasteri. Rispondo senza esitare dicendo che bisogna dargli il più ampio spazio possibile. È per noi un principio di resurrezione quotidiana. Così, quando al mattino della sua professione, il monaco — completamente prosternato — ascolta il diacono che canta ad alta voce «Surge qui dormis et exurge a mortuis et illuminabit te Christus» («Alzati, tu che dormi, e il Cristo t’illuminerà»), egli sfiora questa potenza della liturgia alla quale le prime generazioni cristiane hanno aderito con tutto il loro essere. Per noi monaci, è tutta lì la nostra spiritualità; è per questo che non c’è, propriamente parlando, una spiritualità benedettina. Il monaco è un uomo interiormente ed esteriormente modellato dalla liturgia. È ciò che rende la nostra spiritualità così ampia, universale, accessibile ai nostri fratelli secolari.

L’idea che i riti e le formule sacre della liturgia siano sufficienti ad alimentare la nostra anima e a guidarla verso ascese mistiche, senza che abbiamo bisogno d’immergerci in trattati e in teorie elaborate nell’epoca moderna, è quella che prevalse durante sedici secoli, nel corso dei quali si sono formati trattati essenziali della spiritualità occidentale. Nella misura in cui siamo fedeli a questa ispirazione, ci ricongiungiamo ai primi cristiani. Con loro guardiamo verso la Gerusalemme celeste; con loro godiamo di questo strumento che è il corpo: le mani, gli occhi, la voce, il flettere le ginocchia e l’inchino profondo; ricordatevi di queste parole di sant’Agostino: «l’affezione del cuore si accresce con i gesti che la traducono» (PL XL, col. 597). Evidentemente a una condizione, ossia che i gesti conservino il loro valore. Il cristianesimo è asceso come un’aurora nel cielo della storia perché l’anima cristiana, attenta al rito, scorgeva a ogni passo come evidente il soprannaturale; il rapporto tra significante e significato restava vivo; ogni gesto attualizzava la fede; nulla mancava all’educazione dei nostri padri. Tutto questo dava alla vita una certa nobiltà. Charles Péguy lo ha bene inteso; conoscete il ricordo d’infanzia che ha raccontato, del tempo in cui viveva nel sobborgo Bourgogne, a Orléans: «Tutto era ritmo, rito e cerimonia… Tutto era un avvenimento, sacro… Tutto era un’elevazione interiore, una preghiera; tutta la giornata, il sonno e la veglia, il lavoro e quel po’ di riposo, il letto e la tavola, la casa e il giardino, la porta e la strada, il cortile e la soglia e i piatti sulla tavola».

Durante le età della fede, il bambino cristiano cresceva in tal modo in mezzo a una foresta di riti che gli parlavano del mondo invisibile, così come altrettanto chiaramente i segnali delle nostre strade ci indicano la direzione. Ma a noi, piccoli monaci dalla grande tradizione liturgica, cosa ci impedisce di bere a lunghi sorsi la verità dei simboli?

Se perciò ci viene chiesto quale posto ha la liturgia nella nostra vita monastica, risponderemo con la tradizione che essa è tutta intera l’esistenza del monaco, e anche — perché no? — tutta la vita cristiana, che sarà liturgica. Cioè tutta la sua vita sarà nutrita, illuminata, ritmata dalla santa liturgia.

Abbiamo una ben misera idea del battesimo, se pensiamo che sia soltanto «un biglietto d’ingresso per il cielo». Bisogna superare questa concezione limitata, ereditata dal protestantesimo, per il quale il sacramento, inefficace per sé stesso, non sarebbe altro che un titolo per la vita futura. Ricordatevi di queste parole decisive della Scrittura: «Voi vi siete invece accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli» (Eb 12,22); e «Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19). E ancora, forse il più bel testo di Paolo: «E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3,18). È in questa prospettiva liturgica che il nostro Padre abate dom Romain, una sera di Natale, diceva ai suoi monaci: «Siamo fatti per cose molto sante e solenni; siamo fatti per avanzare senza indugio a fianco di Dio».

Cosa significa, se non che le anime consacrate possono vivere solo in rapporto con la loro nuova dignità. Non hanno niente di studiato né di artificiale; ma bisognerà bene che qualcosa, in esse, esprima la nobiltà della loro condizione; qualcosa che debba tradursi fino a che si mantiene il nostro corpo. Ricordatevi della lettura del capitolo dell’ufficio feriale di Nona: «Siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo», «Glorificate et portate Deum in corpore vestro». Non è proprio in gran parte grazie a questo mezzo eccezionale di educazione che cominciate a modificare un po’ il vostro modo di essere? Il servizio all’altare e la disciplina del coro non esercitano forse molto presto un’influenza sulla vostra anima e sul vostro corpo? Quando si sente il segnale dell’ufficio, vedete con quale gravità dovete avanzare lungo la navata, con quale raccoglimento vi saluterete tra di voi scambievolmente, vi girerete verso l’altare, immergerete le vostre anime in adorazione al Gloria Patri. Ma tutto ciò forse finisce non appena varcate la soglia della cappella per andare a intraprendere i vostri lavori? No, è tutta la vostra vita che si ammanterà come in una nuvola d’incenso, e si svolgerà in presenza di Dio e degli angeli; tutto avrà un valore sacro di offerta e di consacrazione; la vita del monastero si svolge allora come una processione invisibile in cui, grazie al silenzio, l’anima si abbevera a segrete libagioni.

Anche i lavori più umili sono segnati dalla liturgia poiché cominciano e si compiono sotto un segnale della campana che richiamerà al ritorno in coro. I nostri poveri lavori non sono sempre appassionanti! Ma compiuti in unione a Gesù di Nazaret, possono diventare una liturgia molto misteriosa e profonda. È giusto ricordare il pregevole pensiero di Pascal: «Fare le cose piccole come le grandi a motivo della Maestà di Gesù Cristo che le compie in noi e che vede la nostra vita, e le grandi come piccole e facili a causa della sua onnipotenza».

Ecco perché il luogo di culto del monastero non è solo la chiesa, ma il monastero tutto intero, con le sue più umili dipendenze. Il refettorio è il luogo che assomiglia maggiormente alla chiesa, con la sua volta solenne, la sua preghiera prima e dopo il pasto, il carattere comunitario e gerarchico — riconoscibile dalla disposizione dei posti —, la cattedra del lettore dove sarà letto senza discontinuità, recto tono, un libro destinato a nutrire lo spirito, finché il corpo si distende. Anche l’abito è una scuola di preghiera che disciplina i movimenti del corpo. Il monaco professo, nel corso della celebrazione per la professione solenne, è stato vestito della cocolla, il suo abito da coro. Sapete che nel suo ultimo giorno, avvolto nelle pieghe della sua cocolla, il monaco sarà deposto nella nuda terra, per attendere la Resurrezione.

Si percepiscono nel rito di vestizione della cocolla monastica diversi simboli sovrapposti: è immagine dell’abito nuziale che prefigura la veste della gloria celeste; esprime inoltre il perdono e la grazia del figlio riconciliato. (Ah!, com’è dolce sapersi alla fine riconciliati con il Padre). La cocolla nera significa anche il lutto dalle gioie terrene, la veglia notturna, la sepoltura, l’attesa del soldato e del servo.

Il chiostro, questo deambulatorio sacro, penetrato di silenzio, che non conduce in nessun luogo, è simile alla contemplazione circolare di cui parla Dionigi l’Areopagita. Il termine di questa meditazione perpetua è diretta verso il cielo, al di sopra delle nostre teste; verso l’alto e non in avanti, immagine di un superamento spirituale, perché il nostro Dio abita in una luce inaccessibile. Persino la parola, anche la più prosaica, riveste un significato sacro, grazie all’uso parsimonioso che ne facciamo e al rito d’introduzione che ne regola l’esercizio: il monaco mette un dito davanti alle sue labbra, e aspetta un segnale dal suo superiore per parlare. Questo segnale (Benedicite!) unisce la parola usuale al cantico di benedizione che compone l’ufficio divino. Che esigenza! Bisognerebbe parlare solo per benedire. Spesso mi domandate il segreto che ci permetta di vivere sempre in preghiera, alla continua presenza di Dio. La risposta è semplice: considerate la vostra vita come una grande liturgia sacra; tutto vi prende calore perché tutto è compiuto in unione con Gesù Cristo sotto lo sguardo del Padre. Allora un’unità profonda lega intimamente tutte le nostre azioni. «Sia che mangiate, sia che beviate — dice san Paolo —, fate tutto per la gloria di Dio». Da qui, il monaco ritrova unità, non solo in sé stesso, ma anche con il resto della creazione.

Tuttavia se la liturgia impregna tutta le nostre azioni, non è come un vaso le cui pareti isolanti ci separano dal resto del mondo. Senza dubbio abbiamo scelto di chiudere gli occhi alle provocazioni del secolo; ma il miracolo della liturgia consiste nel permetterci d’integrare l’universo, in uno sforzo di trasfigurazione che è opera della poesia sacra. Non si può vivere senza poesia. In ogni caso, la Chiesa non ha deciso così per noi. Ha posto i migliori poemi dell’umanità sulle nostre labbra, per fare di noi dei cantori e dei sacerdoti del Sacrificio di Lode. In una celebre pagina Jacques Bénigne Bossuet pone la funzione sacerdotale dell’uomo al cuore stesso della vocazione, come un dovere imprescindibile di «prestare voce, intelligenza, cuore ardente d’amore per tutta la natura visibile, affinché essa possa amare, in lui e per lui, la bellezza invisibile del suo Creatore. È per questo che l’uomo è messo al centro del mondo, come industriosa concentrazione del mondo…, il grande mondo nel piccolo, perché — ancora — sebbene il corpo sia rinchiuso nel mondo, l’uomo ha uno spirito e un cuore più grandi del mondo, affinché contemplando l’universo intero e riunendolo in sé stesso, lo offra, lo santifichi, lo consacri al Dio vivente. Quantunque non sia il contemplatore e misterioso concentrato della natura visibile, finisce per esserne, per un santo amore, il sacerdote e l’adoratore della natura invisibile e intellettuale» (Sermon pour la fête de l’Annonciation, 1662).

Ma questa funzione sacerdotale non può compiersi se non attraverso Cristo, perché Lui solo può salvare, reggere, assumere e condurre al suo fine la creatura che ha lanciato nello spazio nei primi giorni della Genesi. In un sermone sul battesimo di nostro Signore, san Gregorio di Nazianzo descrive Gesù «mentre esce dall’acqua, attirando il mondo in qualche modo con sé ed elevandolo a sé».

Pietro il Venerabile, abate di Cluny, testimonia la sua ammirazione verso Cristo luce del mondo, con una sontuosa invocazione: «Christe, Dei splendor, qui splendida cuncta creati, Kyrie Eleison!» («Cristo, splendore di Dio, che hai creato tutte le cose nello splendore, abbi pietà di noi», Ex epistola Petri Venerabilis IX LS VI Epist. XXXII).

Avete in questi esempi tutto ciò che vi è necessario per compiere attraverso la preghiera questo compito di riassumere l’universo sotto lo scettro di Gesù Cristo. Che il monaco, sacerdote o no, consideri la sua vocazione come una grande avventura spirituale: ogni mattina, quando il giorno che si leva gli apre una pagina bianca sulla quale scriverà il poema della sua vita, possa dire in verità con il salmista: «Effonde il mio cuore liete parole, io canto al re il mio poema. La mia lingua è stilo di scriba veloce» (Sal 44,2). In effetti lo zelo per la lode e l’onore di Dio farà di tutta la sua vita un canto ininterrotto e questo canto lo farà progredire nella virtù, quanto il progresso spirituale lo porterà a cantare a vantaggio della gloria del suo Signore. Questa causalità reciproca fu il programma dei benedettini di Cluny; ne trovarono l’idea perfettamente formulata in una celebre orazione del messale: «Gloriam Dei sempiternam et proficiendo celebrare et celebrando proficere». Progredendo, il monaco celebra meglio la gloria eterna di Dio e celebrandola avanza in santità.

O santa liturgia, onore della Chiesa, tu che ispiri tanti monumenti d’arte e poesia, tu che ispirasti a san Francesco, il poverello, di cantare la gloria del suo Signore sulle strade del mondo; tu che metti sulle nostre labbra il cantico degli eletti e regoli i nostri passi nel cammino verso il cielo; tu che cacci dai nostri cuori l’impurità e li attiri dolcemente verso i beni invisibili: ti giuriamo fedeltà fino alla morte e anche nell’al di là, in quel paradiso di cui ci sveli qualcosa degli splendori indicibili.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La santa liturgia, trad. it., Nova Millennium Romae, Roma 2011, pp. 71-80]

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