Come non parlare del bene che ci procura la grande, antica scuola della liturgia, non solo come disincanto dalle passioni, ma come soave attrattiva, gusto soprannaturale di Dio, sete di vita eterna per le cose più preziose al mondo. Giacché ci sono due modi per lottare contro il tumulto delle creature che si spartiscono il nostro cuore: lo sforzo umano che proviene da noi e la contemplazione soprannaturale che deriva da Dio. Questi due modi, entrambi buoni e necessari, si situano su piani ben distinti e colorano diversamente la vita spirituale. Il secondo metodo, che chiameremo anagogico o teologale, scaccia l’impurità con la forza dell’amore, grazie all’attrattiva della luce, per il gusto delle cose divine. Corrisponde alle prime età del cristianesimo, allo spirito della liturgia e dei Padri della Chiesa. Suppone l’ascesi, ma la supera.
Il primo, più attento ai meccanismi naturali di potenza dell’anima, corrisponde alle epoche segnate dall’Umanesimo e dal Rinascimento. Come sorprendersi che la vita spirituale sia debitrice delle tendenze e dello spirito di una cultura? A partire dal secolo XVI si fa strada un certo naturalismo, riconoscibile anche nei metodi d’orazione, nei quali dominano il gusto per la meditazione discorsiva, l’introspezione e il ricorso alla psicologia. Grandi santi e dottori s’impegneranno allora di evangelizzare, cercandovi la traccia di Dio, le regioni dell’anima dove si manifesta la vita psicologica. Questa non era la proposta dei nostri antichi Padri. Senza dubbio, la lotta contro l’amor proprio, l’ozio e la sensualità richiede un ampio spazio allo sforzo di liberare dai ceppi, al fine di togliere i rovi dal cammino. Ma cosa darà la spinta verso il fine e l’attrazione verso la luce, se non la luce stessa? Come lottare contro il peccato d’impurità, si domandano i moderni? I maestri di antica tradizione rispondono all’unanimità: guardare il cielo; perché solo la speranza del cielo dà il coraggio di lavorare per il cielo.
La Regola di san Benedetto, praticata sin dal secolo VI, ne offre un chiaro esempio. Riguardo al tema della castità, tutto è espresso in due brevi frasi, con un’estrema discrezione: IV,64 «castitatem amare» («amare la castità»); e LXXII,8 «caritatem fraternitatis caste impendant» («che i monaci manifestino castamente l’amore della carità fraterna»). Punto, è tutto. Invece, il santo legislatore tratta esaurientemente della ricerca di Dio, dell’imitazione di Cristo, della preghiera, del canto dei salmi, dell’«indicibile sovranità dell’amore» (Prologo 49) e della «carità, che quando è perfetta, scaccia il timore» (VII,67). L’esperienza monastica maturata in quattordici secoli porta a concludere che il miglior modo di evitare il peccato consiste almeno nel fare lo sforzo per distogliersene, per guardare in direzione di Dio con perseveranza. Disonoriamo la Luce divina e la sua potenza d’attrazione quando miriamo in basso nel corso del nostro combattimento per la santità.
Dom Romain Banquet, fondatore e primo abate di En Calcat, designava come punto più elevato della vita monastica, non le mortificazioni corporali — di cui non si privava —, ma «il servizio, la frequentazione e il godere di Dio attraverso l’antica preghiera della Chiesa». Uno dei suoi successori, dom Germain, dava questo consiglio ai suoi giovani monaci: «Nella tentazione bisogna soprattutto incantarsi e cullarsi con la Parola di Dio e il canto dei salmi, come si fa con un bambino al quale non si concede ciò che domanda».
Gli occhi sono i crocevia dell’inferno, si è detto. Ma non sono allo stesso modo dei crocevia del Paradiso? Non si può lottare contro la visione ipnotica della carne se non con il fascino di una visione più potente e meglio in sintonia con la nostra anima profonda. «O moralista — scrive Claudel ne L’oiseau noir dans le soleil levant — a cosa servono tante spiegazioni, teorie e minacce, se sappiamo che l’immondizia in noi è inconciliabile con lo zaffiro?». Queste apostrofi dei moderni raggiungono il pensiero degli antichi. I primi monaci che hanno cristianizzato l’Europa, all’inizio dell’era cristiana, conoscevano il peso della carne e la necessità del combattimento spirituale. Le loro mortificazioni divenute leggendarie s’identificano, per chi ha uno sguardo superficiale, con la vocazione monastica, ma ciò è un errore di prospettiva; non che questi lottatori infaticabili abbiano disdegnato l’ascesi, ma essi vivevano sin dall’inizio e prima di tutto per il cielo. La prospettiva che li assorbiva del tutto, non era il loro combattimento contro sé stessi, ma la contemplazione di Dio, contemplazione sociale, liturgica, dove il corpo aveva un posto, ed esercitava una funzione. Non contemplavano il peccato per meglio combatterlo, giacché il peccato non può essere oggetto di contemplazione, ma lo combattevano per contemplare meglio, e la loro contemplazione rendeva più felice questa parte dell’educazione severa che ogni ascesi comporta.
La vita contemplativa, alla scuola della liturgia, realizza ciò che il pensiero riflessivo non ha mai saputo fare: utilizzare l’universo secondo un’accurata scelta, dove partecipano il pane e il vino, l’acqua e l’olio, l’incenso e la cera, il canto sacro umile e sontuoso la cui impareggiabile bellezza lascia il posto ai diritti del silenzio; formule antiche, cesellate con un’arte eccelsa che ci rapisce, come con leggeri colpi d’ala, per l’amore delle cose invisibili. Attraverso un’attrazione casta, la luce scuote in noi solo ciò che merita di entrare nelle regioni celesti, che una grande anima intuitiva (anche se non ha superato la soglia) presentava come sublimi: «Tutti coloro che credono — scrive Simone Weil nelle sue Réflexions sans ordre sur l’amour de Dieu — che ci sia adesso o in futuro, un giorno, del cibo prodotto quaggiù, mentono. Il pane del cielo non fa solo crescere in noi il bene, ma distrugge il male; cosa che i nostri propri sforzi non potranno mai fare. La quantità di male che è in noi non può essere diminuita se non dallo sguardo posto su una cosa perfettamente pura».
Senza che se ne accorgano, qualcosa senza prezzo mancherà sempre alle anime prive di questa luce. Era il parere di dom Paul Delatte, nella sua biografia Dom Guéranger: «La Chiesa ha ricevuto dal suo Sposo, di cui trasmette la vita e il prolungamento della missione, il modo sacro di pregare, il segreto di fatiche soprannaturali che uniscono le anime a Dio. Se il cristiano si spoglia di questa corrente vivificante, la fede perde subito qualcosa del suo vigore e della sua semplicità, la carità si affievolisce, la devozione diventa personale, ristretta, meschina, tutta confinata nel sentimento d’ordine fittizio e privato, in pratiche senza portata, in piccoli libri senza autorevolezza».
Se ci venisse domandato quale sia il carattere più sconvolgente, fra tutti quelli che uno spirito filiale e attento può scoprire nella preghiera della Chiesa, non esiteremmo a indicare il gusto poetico dei suoi canti, la forza e l’esattezza dell’influenza dei suoi sacramenti, la ricchezza dei suoi sacramentali, il contenuto sovranamente efficace dei suoi misteri, che imprimono nelle nostre anime la similitudine del Figlio. Sicuramente il carattere di santità riconoscibile nel minore dei riti, nella formula anche la più breve, esprime più di ogni altra l’origine divina di questa istituzione che chiamiamo santa liturgia. Grazie alla sua misteriosa intimità con i cori della Patria celeste ai quali la Chiesa ci fa accedere sotto il velo della fede, possiamo unire le nostre voci a quelle dei nostri fratelli invisibili, e fare umilmente, sotto il loro sguardo, nella sofferenza e nella gioia, conoscenza dell’eternità.
[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), L’attirance du ciel, in Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome I, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 252-257, trad. it. delle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo]
Il primo, più attento ai meccanismi naturali di potenza dell’anima, corrisponde alle epoche segnate dall’Umanesimo e dal Rinascimento. Come sorprendersi che la vita spirituale sia debitrice delle tendenze e dello spirito di una cultura? A partire dal secolo XVI si fa strada un certo naturalismo, riconoscibile anche nei metodi d’orazione, nei quali dominano il gusto per la meditazione discorsiva, l’introspezione e il ricorso alla psicologia. Grandi santi e dottori s’impegneranno allora di evangelizzare, cercandovi la traccia di Dio, le regioni dell’anima dove si manifesta la vita psicologica. Questa non era la proposta dei nostri antichi Padri. Senza dubbio, la lotta contro l’amor proprio, l’ozio e la sensualità richiede un ampio spazio allo sforzo di liberare dai ceppi, al fine di togliere i rovi dal cammino. Ma cosa darà la spinta verso il fine e l’attrazione verso la luce, se non la luce stessa? Come lottare contro il peccato d’impurità, si domandano i moderni? I maestri di antica tradizione rispondono all’unanimità: guardare il cielo; perché solo la speranza del cielo dà il coraggio di lavorare per il cielo.
La Regola di san Benedetto, praticata sin dal secolo VI, ne offre un chiaro esempio. Riguardo al tema della castità, tutto è espresso in due brevi frasi, con un’estrema discrezione: IV,64 «castitatem amare» («amare la castità»); e LXXII,8 «caritatem fraternitatis caste impendant» («che i monaci manifestino castamente l’amore della carità fraterna»). Punto, è tutto. Invece, il santo legislatore tratta esaurientemente della ricerca di Dio, dell’imitazione di Cristo, della preghiera, del canto dei salmi, dell’«indicibile sovranità dell’amore» (Prologo 49) e della «carità, che quando è perfetta, scaccia il timore» (VII,67). L’esperienza monastica maturata in quattordici secoli porta a concludere che il miglior modo di evitare il peccato consiste almeno nel fare lo sforzo per distogliersene, per guardare in direzione di Dio con perseveranza. Disonoriamo la Luce divina e la sua potenza d’attrazione quando miriamo in basso nel corso del nostro combattimento per la santità.
Dom Romain Banquet, fondatore e primo abate di En Calcat, designava come punto più elevato della vita monastica, non le mortificazioni corporali — di cui non si privava —, ma «il servizio, la frequentazione e il godere di Dio attraverso l’antica preghiera della Chiesa». Uno dei suoi successori, dom Germain, dava questo consiglio ai suoi giovani monaci: «Nella tentazione bisogna soprattutto incantarsi e cullarsi con la Parola di Dio e il canto dei salmi, come si fa con un bambino al quale non si concede ciò che domanda».
Gli occhi sono i crocevia dell’inferno, si è detto. Ma non sono allo stesso modo dei crocevia del Paradiso? Non si può lottare contro la visione ipnotica della carne se non con il fascino di una visione più potente e meglio in sintonia con la nostra anima profonda. «O moralista — scrive Claudel ne L’oiseau noir dans le soleil levant — a cosa servono tante spiegazioni, teorie e minacce, se sappiamo che l’immondizia in noi è inconciliabile con lo zaffiro?». Queste apostrofi dei moderni raggiungono il pensiero degli antichi. I primi monaci che hanno cristianizzato l’Europa, all’inizio dell’era cristiana, conoscevano il peso della carne e la necessità del combattimento spirituale. Le loro mortificazioni divenute leggendarie s’identificano, per chi ha uno sguardo superficiale, con la vocazione monastica, ma ciò è un errore di prospettiva; non che questi lottatori infaticabili abbiano disdegnato l’ascesi, ma essi vivevano sin dall’inizio e prima di tutto per il cielo. La prospettiva che li assorbiva del tutto, non era il loro combattimento contro sé stessi, ma la contemplazione di Dio, contemplazione sociale, liturgica, dove il corpo aveva un posto, ed esercitava una funzione. Non contemplavano il peccato per meglio combatterlo, giacché il peccato non può essere oggetto di contemplazione, ma lo combattevano per contemplare meglio, e la loro contemplazione rendeva più felice questa parte dell’educazione severa che ogni ascesi comporta.
La vita contemplativa, alla scuola della liturgia, realizza ciò che il pensiero riflessivo non ha mai saputo fare: utilizzare l’universo secondo un’accurata scelta, dove partecipano il pane e il vino, l’acqua e l’olio, l’incenso e la cera, il canto sacro umile e sontuoso la cui impareggiabile bellezza lascia il posto ai diritti del silenzio; formule antiche, cesellate con un’arte eccelsa che ci rapisce, come con leggeri colpi d’ala, per l’amore delle cose invisibili. Attraverso un’attrazione casta, la luce scuote in noi solo ciò che merita di entrare nelle regioni celesti, che una grande anima intuitiva (anche se non ha superato la soglia) presentava come sublimi: «Tutti coloro che credono — scrive Simone Weil nelle sue Réflexions sans ordre sur l’amour de Dieu — che ci sia adesso o in futuro, un giorno, del cibo prodotto quaggiù, mentono. Il pane del cielo non fa solo crescere in noi il bene, ma distrugge il male; cosa che i nostri propri sforzi non potranno mai fare. La quantità di male che è in noi non può essere diminuita se non dallo sguardo posto su una cosa perfettamente pura».
Senza che se ne accorgano, qualcosa senza prezzo mancherà sempre alle anime prive di questa luce. Era il parere di dom Paul Delatte, nella sua biografia Dom Guéranger: «La Chiesa ha ricevuto dal suo Sposo, di cui trasmette la vita e il prolungamento della missione, il modo sacro di pregare, il segreto di fatiche soprannaturali che uniscono le anime a Dio. Se il cristiano si spoglia di questa corrente vivificante, la fede perde subito qualcosa del suo vigore e della sua semplicità, la carità si affievolisce, la devozione diventa personale, ristretta, meschina, tutta confinata nel sentimento d’ordine fittizio e privato, in pratiche senza portata, in piccoli libri senza autorevolezza».
Se ci venisse domandato quale sia il carattere più sconvolgente, fra tutti quelli che uno spirito filiale e attento può scoprire nella preghiera della Chiesa, non esiteremmo a indicare il gusto poetico dei suoi canti, la forza e l’esattezza dell’influenza dei suoi sacramenti, la ricchezza dei suoi sacramentali, il contenuto sovranamente efficace dei suoi misteri, che imprimono nelle nostre anime la similitudine del Figlio. Sicuramente il carattere di santità riconoscibile nel minore dei riti, nella formula anche la più breve, esprime più di ogni altra l’origine divina di questa istituzione che chiamiamo santa liturgia. Grazie alla sua misteriosa intimità con i cori della Patria celeste ai quali la Chiesa ci fa accedere sotto il velo della fede, possiamo unire le nostre voci a quelle dei nostri fratelli invisibili, e fare umilmente, sotto il loro sguardo, nella sofferenza e nella gioia, conoscenza dell’eternità.
[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), L’attirance du ciel, in Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome I, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 252-257, trad. it. delle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo]