Un’occasione per precisare nuovamente alcuni punti del dibattito tra la Fraternità Sacerdotale San Pio X e la Santa Sede ci è fornita dal libro di mons. Brunero Gherardini sul Concilio Ecumenico Vaticano II [1]. Insistendo a ragione sulla necessità che la Chiesa insegni il dato rivelato, immutabile, la novità non potendosi trovare che nella modalità, il volume supplica il Santo Padre di pronunciarsi solennemente sugli insegnamenti del Concilio Ecumenico Vaticano II. Tuttavia esso compie un zig-zag fra due tesi difficilmente conciliabili.
1. Ecco anzitutto la tesi condivisibile: «Il cavallo di Troia non fu propriamente il complesso dei documenti conciliari, ma le idee che alcuni gruppi di pressione riusciron a far filtrare nell’aula conciliare, determinando il progressivo maturare della linea che sfociò poi nella cultura postconciliare» (p. 19). In quest’ottica (accettabile), siamo grati all’autore in primo luogo di riconoscere la legittimità del Concilio Ecumenico Vaticano II e la sua dottrina, la quale «dovrà sempre esser religiosamente accolta come insegnamento conciliare» (p. 52), e (teoricamente) di riferire le sue critiche piuttosto sulla formulazione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Conseguentemente, l’autore dichiara l’insieme delle pubblicazioni anti-conciliari delle edizioni Courrier de Rome viziate dallo «spirito polemico che le ispira e che, proprio per questo, almeno in parte le squalifica» (p. 26), e considera un «puro delirio» (p. 33) il rifiuto di obbedire ai Papi posteriori a Pio XII.
L’autore ha inoltre ragione di lamentare un’eccessiva «grandiosa ininterrotta celebrazione» (p. 13) del Concilio Ecumenico Vaticano II, considerato troppo spesso come un terminus a quo assoluto, occultando i documenti anteriori. Egli fissa correttamente una lunga lista di errori veicolati dopo il 1965. Ugualmente, in materia liturgica, le riforme post-conciliari sono andate al di là degli orientamenti di Sacrosanctum concilium (SC), quando non contro di essi, e la normatività di SC era un po’ sfuocata, da cui alcune interpretazioni abusive.
2. La tesi non condivisibile è che, poiché il Concilio Ecumenico Vaticano II (è vero) non ha insegnato in maniera definitiva e quindi infallibilmente dei nuovi punti, non si sarebbe tenuti (di diritto) ad accettare gli aspetti nuovi delle sue dottrine, le quali sarebbero (di fatto) incompatibili con la Tradizione, quindi sprovviste dell’assistenza dello Spirito Santo. Questa tesi costituisce la filigrana di tutto il libro, malgrado l’«ombrello» della succitata tesi condivisibile.
Anzitutto rispondiamovi. Di diritto, anche il Magistero non definitivo (detto anche «autentico») esige che vi aderiamo, e peraltro non solo esteriormente, ma anche per un consenso interno della nostra intelligenza e della nostra volontà. Quindi, per esempio, quando Pio XII, nella sua allocuzione del 29 settembre 1949, condanna la fecondazione umana artificiale, bisogna aderirvi. Parimenti quando il Concilio Ecumenico Vaticano II condanna la violazione del diritto alla libertà religiosa.
1. Ecco anzitutto la tesi condivisibile: «Il cavallo di Troia non fu propriamente il complesso dei documenti conciliari, ma le idee che alcuni gruppi di pressione riusciron a far filtrare nell’aula conciliare, determinando il progressivo maturare della linea che sfociò poi nella cultura postconciliare» (p. 19). In quest’ottica (accettabile), siamo grati all’autore in primo luogo di riconoscere la legittimità del Concilio Ecumenico Vaticano II e la sua dottrina, la quale «dovrà sempre esser religiosamente accolta come insegnamento conciliare» (p. 52), e (teoricamente) di riferire le sue critiche piuttosto sulla formulazione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Conseguentemente, l’autore dichiara l’insieme delle pubblicazioni anti-conciliari delle edizioni Courrier de Rome viziate dallo «spirito polemico che le ispira e che, proprio per questo, almeno in parte le squalifica» (p. 26), e considera un «puro delirio» (p. 33) il rifiuto di obbedire ai Papi posteriori a Pio XII.
L’autore ha inoltre ragione di lamentare un’eccessiva «grandiosa ininterrotta celebrazione» (p. 13) del Concilio Ecumenico Vaticano II, considerato troppo spesso come un terminus a quo assoluto, occultando i documenti anteriori. Egli fissa correttamente una lunga lista di errori veicolati dopo il 1965. Ugualmente, in materia liturgica, le riforme post-conciliari sono andate al di là degli orientamenti di Sacrosanctum concilium (SC), quando non contro di essi, e la normatività di SC era un po’ sfuocata, da cui alcune interpretazioni abusive.
2. La tesi non condivisibile è che, poiché il Concilio Ecumenico Vaticano II (è vero) non ha insegnato in maniera definitiva e quindi infallibilmente dei nuovi punti, non si sarebbe tenuti (di diritto) ad accettare gli aspetti nuovi delle sue dottrine, le quali sarebbero (di fatto) incompatibili con la Tradizione, quindi sprovviste dell’assistenza dello Spirito Santo. Questa tesi costituisce la filigrana di tutto il libro, malgrado l’«ombrello» della succitata tesi condivisibile.
Anzitutto rispondiamovi. Di diritto, anche il Magistero non definitivo (detto anche «autentico») esige che vi aderiamo, e peraltro non solo esteriormente, ma anche per un consenso interno della nostra intelligenza e della nostra volontà. Quindi, per esempio, quando Pio XII, nella sua allocuzione del 29 settembre 1949, condanna la fecondazione umana artificiale, bisogna aderirvi. Parimenti quando il Concilio Ecumenico Vaticano II condanna la violazione del diritto alla libertà religiosa.
Di fatto, l’autore non dimostra la presenza effettiva di errori nel Magistero contemporaneo. Esaminiamo anzitutto le sue accuse contro i principali documenti conciliari.
Dunque, la Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium (LG) sarebbe responsabile di gran parte «dell’attuale confusione esegetico-teologica» (p. 219). Tuttavia, anche mons. Lefebvre aveva dichiarato che LG non poneva alcun problema [2]. D’altro canto, come può l’autore non comprendere che il Papa unito a tutti i vescovi (e non soltanto il Papa da solo) dispone di una «suprema e piena potestà su tutta la Chiesa» (LG 22)?
Per venire a Nostra aetate (sulle religioni), mons. Gherardini rifiuta che il Dio dei cristiani sia la medesima realtà del Dio degli ebrei o dei musulmani, ciò che invero è un dato tradizionale (da san Giustino ai nostri giorni, passando per Suarez…), anche se, del tutto evidentemente, ciò che si dice (per non dire del culto) di questa realtà che è il Dio creatore è assai diverso, su punti d’importanza capitale, come la Trinità, l’amore di Dio e verso Dio, ecc. L’autore ritiene che Dignitatis humanae (DH) consideri «la compresenza del vero e del falso […] un bene da tutelare» (p. 184). Ciò lo induce a opporre due Magisteri (anteriore e posteriore al Vaticano II). Ordunque, il bene che DH vuole proteggere è la capacità di aderire liberamente alla verità secondo la propria coscienza. Se taluni ne approfittano per aderire al falso o per non seguire la propria coscienza, costoro abusano del loro diritto alla libertà religiosa. Tuttavia, l’abuso non toglie l’uso, e quindi anch’essi sono protetti dal diritto, indirettamente ed entro i giusti limiti, esattamente come colui che omette la carità non facendo l’elemosina abusa del suo diritto di proprietà, ma non perde il suo diritto, fino a quando non va contro la giustizia.
Secondo mons. Gherardini, Gaudium et Spes contraddirebbe san Tommaso affermando che l’uomo «in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso» (n. 24). Tuttavia, seguendo il Dottore Angelico: «Nell’universo solo la natura intellettuale è voluta per se stessa, mentre tutte le altre creature sono volute per lei» [3]. L’autore omette la dottrina (insegnata dal Sant’Uffizio nel 1949) del battesimo di desiderio per coloro i quali, senza colpa, ignorano la vera religione.
Egli pretende erroneamente che secondo Unitatis redintegratio (UR) la Chiesa avrebbe perso la sua unità. Tuttavia UR 4 dichiara: «Quella unità […] crediamo sussistere, senza possibilità di essere perduta, nella Chiesa cattolica»; brano omesso da mons. Gherardini, come gli altri in cui UR e il Magistero successivo affermano la tesi per cui solo la Chiesa cattolica di Cristo possiede la pienezza dei mezzi di salvezza, e che è in lei che devono essere pienamente incorporati tutti i fratelli separati (UR 3, § 5). L’autore rimprovera a controsenso alle Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa della Congregazione per la Dottrina della Fede del 10 luglio 2007, di avere confermato «l’impressione che la Chiesa cattolica e la Chiesa di Cristo non siano un’unica ed identica realtà» (p. 21). Vi è che tale documento mirava, al contrario, a riaffermare «la piena identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica» (terza Risposta), poiché «il Concilio ha voluto esprimere l’identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa Cattolica» (nota 4).
Rivalutare il Concilio?
Più generalmente, questo teologo sollecita «un’opera di revisione e di rivalutazione [del Concilio] […] da un bel manipolo di specialisti» (p. 24). Tuttavia molti specialisti e il Magistero post-conciliare [4] vi si sono già applicati, praticando una solida ermeneutica della continuità!
Mons. Gherardini dà l’impressione di recepire tale Magistero in maniera selettiva. Così, passa sotto silenzio gli interventi di Paolo VI e Giovanni Paolo II che richiamano l’autorità del Concilio Ecumenico Vaticano II [5]. Egli attacca la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, un accordo su alcuni punti specifici firmato il 31 ottobre 1999 dalla Santa Sede e dalla Federazione Luterana Mondiale, e classificato dall’autore fra i «consensi dissennati» (p. 93), quando lo stesso Benedetto XVI ha invitato (con successo) anche i metodisti ad aderirvi.
Un’altra contestazione piuttosto temeraria di un fatto dogmatico: l’autore (come già nel numero di ottobre 2004 della sua rivista Divinitas) si oppone alla validità dell’anafora (preghiera eucaristica) assira di Addai e Mari, riconosciuta tuttavia da Giovanni Paolo II (2001), decisione lodata da Benedetto XVI (2007).
Infine, secondo l’autore il Concilio Ecumenico Vaticano II avrebbe offerto ai fautori di un’ermeneutica della rottura (chiamati in maniera ambigua «il post-concilio») una sorta di punto d’appoggio, e sarebbe materialmente – o indirettamente – e non formalmente e direttamente responsabile della crisi post-conciliare. In tesi non è escluso, se ci si riferisce all’imperfezione delle formulazioni (da provare). Ma questo libro va ben oltre. Se chiama in causa giustamente i neo-modernisti, mette a disagio e rischia di minare senza fondamento la fiducia dei fedeli nel Magistero.
Riguardo alla prefazione di mons. Ranjith, essa propone, al seguito del Papa (22 dicembre 2005), un’ermeneutica della riforma nella continuità, che paradossalmente mons. Gherardini dubita sia possibile, salvo a intenderla come l’eliminazione dal Magistero attuale di ciò che a lui non sembra in continuità con la Tradizione, posizione rifiutata da Giovanni Paolo II, il 2 luglio 1988, nel motu proprio Ecclesia Dei.
[1] Cfr. Brunero Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento (Avellino) 2009, 264 pp.
[2] Cfr. Fideliter, n. 57, p. 4.
[3] Contra gentes, III, 112.
[4] Cfr. Mysterium Ecclesiae, Redemptoris missio, Catechismo della Chiesa Cattolica, Ut unum sint, Dominus Iesus, ecc.
[5] Cfr. 7-12-1965; 12-1-1966; 21-9-1966; 24-5-1976; 11-10-1976; 23-12-1982; 20-7-1983; 2-7-1988; ecc.
[Dom Basile Valuet O.S.B., dottore in Teologia, Débat autour du Concile Vatican II, in La Nef, n. 220, novembre 2010, pp. 16-17, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. Una versione più lunga, più argomentata e più «scientifica» del presente articolo (con tutti i riferimenti) è consultabile sul sito Internet de La Nef].
Dunque, la Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium (LG) sarebbe responsabile di gran parte «dell’attuale confusione esegetico-teologica» (p. 219). Tuttavia, anche mons. Lefebvre aveva dichiarato che LG non poneva alcun problema [2]. D’altro canto, come può l’autore non comprendere che il Papa unito a tutti i vescovi (e non soltanto il Papa da solo) dispone di una «suprema e piena potestà su tutta la Chiesa» (LG 22)?
Per venire a Nostra aetate (sulle religioni), mons. Gherardini rifiuta che il Dio dei cristiani sia la medesima realtà del Dio degli ebrei o dei musulmani, ciò che invero è un dato tradizionale (da san Giustino ai nostri giorni, passando per Suarez…), anche se, del tutto evidentemente, ciò che si dice (per non dire del culto) di questa realtà che è il Dio creatore è assai diverso, su punti d’importanza capitale, come la Trinità, l’amore di Dio e verso Dio, ecc. L’autore ritiene che Dignitatis humanae (DH) consideri «la compresenza del vero e del falso […] un bene da tutelare» (p. 184). Ciò lo induce a opporre due Magisteri (anteriore e posteriore al Vaticano II). Ordunque, il bene che DH vuole proteggere è la capacità di aderire liberamente alla verità secondo la propria coscienza. Se taluni ne approfittano per aderire al falso o per non seguire la propria coscienza, costoro abusano del loro diritto alla libertà religiosa. Tuttavia, l’abuso non toglie l’uso, e quindi anch’essi sono protetti dal diritto, indirettamente ed entro i giusti limiti, esattamente come colui che omette la carità non facendo l’elemosina abusa del suo diritto di proprietà, ma non perde il suo diritto, fino a quando non va contro la giustizia.
Secondo mons. Gherardini, Gaudium et Spes contraddirebbe san Tommaso affermando che l’uomo «in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso» (n. 24). Tuttavia, seguendo il Dottore Angelico: «Nell’universo solo la natura intellettuale è voluta per se stessa, mentre tutte le altre creature sono volute per lei» [3]. L’autore omette la dottrina (insegnata dal Sant’Uffizio nel 1949) del battesimo di desiderio per coloro i quali, senza colpa, ignorano la vera religione.
Egli pretende erroneamente che secondo Unitatis redintegratio (UR) la Chiesa avrebbe perso la sua unità. Tuttavia UR 4 dichiara: «Quella unità […] crediamo sussistere, senza possibilità di essere perduta, nella Chiesa cattolica»; brano omesso da mons. Gherardini, come gli altri in cui UR e il Magistero successivo affermano la tesi per cui solo la Chiesa cattolica di Cristo possiede la pienezza dei mezzi di salvezza, e che è in lei che devono essere pienamente incorporati tutti i fratelli separati (UR 3, § 5). L’autore rimprovera a controsenso alle Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa della Congregazione per la Dottrina della Fede del 10 luglio 2007, di avere confermato «l’impressione che la Chiesa cattolica e la Chiesa di Cristo non siano un’unica ed identica realtà» (p. 21). Vi è che tale documento mirava, al contrario, a riaffermare «la piena identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica» (terza Risposta), poiché «il Concilio ha voluto esprimere l’identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa Cattolica» (nota 4).
Rivalutare il Concilio?
Più generalmente, questo teologo sollecita «un’opera di revisione e di rivalutazione [del Concilio] […] da un bel manipolo di specialisti» (p. 24). Tuttavia molti specialisti e il Magistero post-conciliare [4] vi si sono già applicati, praticando una solida ermeneutica della continuità!
Mons. Gherardini dà l’impressione di recepire tale Magistero in maniera selettiva. Così, passa sotto silenzio gli interventi di Paolo VI e Giovanni Paolo II che richiamano l’autorità del Concilio Ecumenico Vaticano II [5]. Egli attacca la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, un accordo su alcuni punti specifici firmato il 31 ottobre 1999 dalla Santa Sede e dalla Federazione Luterana Mondiale, e classificato dall’autore fra i «consensi dissennati» (p. 93), quando lo stesso Benedetto XVI ha invitato (con successo) anche i metodisti ad aderirvi.
Un’altra contestazione piuttosto temeraria di un fatto dogmatico: l’autore (come già nel numero di ottobre 2004 della sua rivista Divinitas) si oppone alla validità dell’anafora (preghiera eucaristica) assira di Addai e Mari, riconosciuta tuttavia da Giovanni Paolo II (2001), decisione lodata da Benedetto XVI (2007).
Infine, secondo l’autore il Concilio Ecumenico Vaticano II avrebbe offerto ai fautori di un’ermeneutica della rottura (chiamati in maniera ambigua «il post-concilio») una sorta di punto d’appoggio, e sarebbe materialmente – o indirettamente – e non formalmente e direttamente responsabile della crisi post-conciliare. In tesi non è escluso, se ci si riferisce all’imperfezione delle formulazioni (da provare). Ma questo libro va ben oltre. Se chiama in causa giustamente i neo-modernisti, mette a disagio e rischia di minare senza fondamento la fiducia dei fedeli nel Magistero.
Riguardo alla prefazione di mons. Ranjith, essa propone, al seguito del Papa (22 dicembre 2005), un’ermeneutica della riforma nella continuità, che paradossalmente mons. Gherardini dubita sia possibile, salvo a intenderla come l’eliminazione dal Magistero attuale di ciò che a lui non sembra in continuità con la Tradizione, posizione rifiutata da Giovanni Paolo II, il 2 luglio 1988, nel motu proprio Ecclesia Dei.
[1] Cfr. Brunero Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento (Avellino) 2009, 264 pp.
[2] Cfr. Fideliter, n. 57, p. 4.
[3] Contra gentes, III, 112.
[4] Cfr. Mysterium Ecclesiae, Redemptoris missio, Catechismo della Chiesa Cattolica, Ut unum sint, Dominus Iesus, ecc.
[5] Cfr. 7-12-1965; 12-1-1966; 21-9-1966; 24-5-1976; 11-10-1976; 23-12-1982; 20-7-1983; 2-7-1988; ecc.
[Dom Basile Valuet O.S.B., dottore in Teologia, Débat autour du Concile Vatican II, in La Nef, n. 220, novembre 2010, pp. 16-17, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. Una versione più lunga, più argomentata e più «scientifica» del presente articolo (con tutti i riferimenti) è consultabile sul sito Internet de La Nef].