mercoledì 22 dicembre 2010

Christe, Redemptor omnium - O Cristo, che tutto redimi


Tu lumen, tu splendor Patris,
tu spes perennis omnium,
intende quas fundunt preces
tui per orbem servuli.


Salutis auctor, recole
quod nostri quondam corporis,
ex illibata Virgine
nascendo, formam sumpseris.


Hic praesens testatur dies,
currens per anni circulum,
quod solus a sede Patris che,
mundi salus adveneris.


Hunc caelum, terra, hunc mare,
hunc omne quod in eis est,
auctorem adventus tui
laudat exsultans cantico.


Nos quoque, qui sancto tuo
redempti sumus sanguine,
ob diem natalis tui
hymnum novum concinimus.


Iesu, tibi sit gloria,
qui natus es de Virgine,
cum Patre et almo Spiritu,
in sempiterna saecula. Amen.


[O Cristo, che tutto redimi, Figlio Unigenito del Padre, dal Padre prima di tutte le cose, generato in maniera indicibile. / Tu luce, Tu splendore del Padre, Tu di tutti perenne speranza, porgi l’orecchio alle suppliche, che dalla terra elevano i tuoi servi. / Autore della salvezza, ricorda che un tempo, nascendo da purissima Vergine, assumesti un corpo simile al nostro. / Così il giorno presente ci attesta, nel suo annuale, ciclico ritorno, uscendo dal seno del Padre, venisti Tu solo a redimere il mondo. / Il cielo, la terra, il mare, e tutto ciò che in essi ha vita, celebrando il tuo giorno natale, esultano con inni di lode. / Noi pure, che siamo stati redenti, dal tuo preziosissimo Sangue, per il giorno del tuo natale, un canto nuovo intoniamo. / Sia gloria a te, Signore, nato dall’intatta Vergine, con il Padre e il Santo Spirito, nei secoli dei secoli. Amen.]

L’inno si apre con una solenne professione di fede: Cristo è invocato quale Redentore dell’universo e noi ci poniamo davanti a lui nella giusta relazione: siamo peccatori salvati che con gratitudine e stupore desiderano cantare il grande mistero del Natale e diffonderne la notizia fino agli estremi confini della terra. È chiaro il riferimento alla prima lettera di Giovanni:

«Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1,1-4).

Proseguendo, la prima strofa dell’inno offre una mirabile sintesi teologica dell’evento dell’Incarnazione, rimandando immediatamente al Prologo del Vangelo secondo Giovanni:

«In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini»
(Gv 1,1-4).

L’amore del Padre – che è lo Spirito Santo – genera il Figlio. La nascita del Verbo nel seno del Padre è avvolta per noi nel silenzio, è ineffabile mistero, come ineffabile è la sua risurrezione. Di lui si dice che è unicus e solus: unico, senza paragoni. Perfezione d’amore che non chiude in sé, ma apre al dono. Noi scaturiamo dalla sovrabbondanza d’amore che lega il Padre e il Figlio nello Spirito. Per mezzo del Figlio, infatti, tutto è stato creato e tutto, dopo il peccato, viene ricreato. Colui che è unicus e solus, non considerando un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio (Fil 2,6), diventa primogenito tra molti fratelli, anzi, una cosa sola con loro, membra dello stesso corpo (Rm 8,29; Col 1,18).
La seconda strofa dell’inno, superando la distanza che separa il cielo e la terra, dà voce ai sentimenti che animano l’assemblea orante, e si rivolge a Gesù con accenti tenerissimi e traboccanti di ammirazione. Per ben tre volte in due soli versetti ritorna il «Tu», carico di affetto, sempre seguito da parole-chiave che descrivono l’ineguagliabile bellezza dell’Unico: luce, splendore, perenne speranza.
Da ogni parte della terra a lui salgono le preghiere degli uomini che umilmente si dichiarano – come Maria al momento dell’Annunciazione – suoi piccoli e poveri servi, vale a dire da lui dipendenti e a lui orientati. La maestà divina e la piccolezza umana si incontrano nella supplica, che è come un protendersi delle braccia dell’umanità verso il cielo, verso la sfera della trascendenza, verso Dio.
Nella terza strofa, come toccando le corde del cuore di questo Verbo che è lo splendore dell’eterno Padre, l’inno sprigiona una melodia delicatissima, dove compare finalmente anche il nome della Madre, Vergine purissima.
Memento, ricordati... Come sono belle le preghiere sia dell’Antico che del Nuovo Testamento che si rivolgono a Dio chiedendogli di ricordarsi di noi, di tenerci nel suo cuore! Nei pericoli o nell’angoscia, nel momento del dolore e dell’incertezza, l’uomo cerca rifugio nel cuore di Dio e, senza chiedere nulla di preciso, gli dice soltanto, come il buon ladrone a Gesù: «Ricordati di me!» (Lc 23,43).
Mentre nella seconda strofa si esaltava la sublime bellezza del Verbo eterno, ora l’orante invita Gesù a ricordarsi della sua propria piccolezza, di essere cioè stato uomo, di essersi fatto uno di noi, di essersi rivestito di carne mortale e di aver gioito e sofferto con noi.
Tu, l’Unigenito che eri nella maestosa gloria del Padre, nascendo da una Vergine hai assunto una forma umana, ti sei fatto debole. Perché?
Nella lettera agli Ebrei sono descritte proprio le conseguenze benefiche di questo inconcepibile abbassamento:

«Ed era ben giusto che colui, per il quale e del quale sono tutte le cose, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse perfetto mediante la sofferenza il capo che li ha guidati alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli» (Eb 2,10-11).

Lui, l’Unigenito, diventa primogenito di una moltitudine di fratelli che acquista pagandoli con il prezzo del suo sangue, della sua passione e morte. Gesù viene nel mondo per rivelarci che abbiamo un Padre buono nei cieli, che non siamo creature destinate all’ira divina, ma figli chiamati alla gloria. A tale mèta si giunge unendoci al Cristo in modo da «all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita» (Eb 2,14b-15). È la missione che il Padre ha affidato al suo Unigenito e che il Figlio a sua volta ha affidato alla Chiesa.
Ed eccoci al cuore dell’inno, al dies praesens, in cui si attualizza il mistero dell’Incarnazione del Verbo. Emerge subito l’assoluta novità della concezione cristiana del tempo: non un ciclico susseguirsi di eventi che perennemente ritornano identici a sé stessi, e neppure fuga di istanti che inesorabilmente vanno verso il nulla: per il cristiano l’anno è un sentiero che si percorre camminando sotto un cielo trapuntato di stelle, attraversando ora prati fioriti, ora terre riarse, andando sempre di novità in novità. I giorni che si susseguono sono unici e inconfondibili; ritornando nello scorrere degli anni, non si ripetono, ma portano una grazia nuova. Ogni giorno è atteso per sé stesso e ogni anno la celebrazione del Natale ci fa rivivere l’evento unico che fu la venuta di Cristo nella carne per la salvezza del mondo.
Egli era solo – solus – nel seno del Padre ed è disceso per essere salus, salvezza per tutti. Davanti a questo prodigio di carità, davanti a questo «eccesso» di amore compassionevole, da ogni parte dell’universo le creature coralmente elevano un inno di lode: esultano in cielo gli angeli e i santi e alla loro voce si unisce il canto degli uccelli; esulta sulla terra l’uomo che dà voce anche al «filo d’erba assetato», esulta il mare spazioso e vasto, dove guizzano senza numero pesci piccoli e grandi... (Sal 104).
L’intero universo è coinvolto nell’evento dell’Incarnazione perché il Verbo, entrando nel mondo, tutto santifica e trasfigura. Cristo è veramente cosmico. La Liturgia ci fa unire al canto degli angeli che nella Notte Santa annunziano ai pastori la nascita del Salvatore del mondo cantando: «Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis» (Lc 2,14). Questo Figlio del Padre, che diventa Figlio dell’uomo, congiunge Dio e l’umanità, è un ponte gettato dal cielo sulla terra, perché dalla terra l’umanità possa ascendere al cielo. Tutti lo riconoscono e lo adorano: dapprima i pastori, gli umili, i poveri, poi arrivano anche i sapienti che, prostrati davanti a quel Bambino, scorgono in lui il re della gloria, il Signore dell’universo.
In questa processione ci siamo pure noi. Che cosa ci caratterizza? La consapevolezza di essere l’oggetto più immediato dell’amore di Dio: siamo dei «salvati», redenti a prezzo del preziosissimo sangue di Cristo. La greppia già annunzia la croce. Rinati grazie al perdono ricevuto, intoniamo un canto nuovo, hymnum novum concimus: lo cantiamo insieme, perché la comunione è il principale contrassegno della vita nuova in Cristo.
Sintonizzati con tutte le creature, anzi prestando loro la voce, apprendiamo il canto dagli angeli e lo diffondiamo fino agli estremi confini della terra.
L’esplosione di giubilo nella notte di Natale esprime proprio la gratitudine, il rendimento di grazie per quella «volontà» amorevole di Dio che si china con compassione sull’umanità e su ogni piccola creatura bisognosa anch’essa di redenzione, perché il peccato dell’uomo ha trascinato con sé nella morte anche tutta la creazione, come spiega bene san Paolo nella lettera ai Romani: «essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,20-21).
Quest’attesa ormai si è compiuta: le tenebre del peccato ora sono penetrate e dissolte dalla luce della vera vita. Accogliendola, diventiamo anche noi viventi per l’eternità, partecipi della gloria divina. Per sempre – in sempiterna saecula – intoniamo, dunque, un canto di lode, che si congiunge a quello degli angeli e dei santi; un canto che viene dal cielo e torna al cielo. Questo canto è Gesù stesso e noi siamo le note che egli assume ed armonizza per fare di esse un unico inno di lode al Padre della vita, inno dal tono solenne, ma non senza un accento accorato. È il nostro dolore, il nostro pentimento per aver fatto soffrire l’Amore. Tuttavia proprio nell’Amore il dolore si trasfigura in gioia indicibile che si gusta soltanto nella profondità del silenzio del cuore. Mistero che meno si intende e meno si capisce, più si adora: è l’omaggio della pura fede, che si fa preghiera:

O Cristo, splendore del Padre,
apparso uomo tra gli uomini,
l’ombra della nostra carne
che hai assunta nel grembo della Vergine
non ha nascosto la tua divina bellezza,
non ha velato la luce dei tuoi occhi.
Nel tuo corpo di Bimbo appena nato
è racchiusa la pienezza della Vita,
quella che avevi quale Unigenito del Padre
prima che cielo e terra, per mezzo tuo, fossero creati.
Tu, Unico nel seno dell’Altissimo,
sei divenuto Primogenito di molti fratelli.
Ricordati che povero sei nato in mezzo a poveri,
ricordati che una madre ti ha nutrito col suo latte
e che da umili pastori sei stato riscaldato
con la soffice lana degli agnelli.
Ricordati che sei venuto a mostrarci
Il volto dell’eterno Padre:
trasformaci nell’intimo a tua immagine,
inondaci con la pace del tuo Spirito,
e, insieme ad ogni creatura
rinnovata dal tuo Amore,
ti canteremo «Gloria» senza fine.
Amen.


[Anna Maria Cànopi O.S.B., I Canti dell’attesa e dell’incontro, commento agli inni di Avvento e Natale, Abbazia “Mater Ecclesiae”, Isola San Giulio - Orta (Novara) 2005]

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