martedì 23 gennaio 2018

Frutti della grazia del motu proprio Summorum Pontificum per la vita monastica e la vita sacerdotale / quinta e ultima parte

Conclusione

Al termine di queste righe, due espressioni tornano allo spirito: azione di grazie e speranza.
Azione di grazie perché l’iniziativa di Benedetto XVI pacifica la questione liturgica nel cuore dei pastori, dei sacerdoti e dei fedeli, aprendo la via a una nuova evangelizzazione a partire dalla liturgia in tutta la sua ricchezza.
Speranza perché non sembra possibile risolversi definitivamente a uno smembramento, a una tensione dell’unico rito romano in due forme, fra l’adorazione del corpo e il sangue di Cristo realmente presente sull’altare e il servizio dell’assemblea (cfr. la già menzionata lettera del card. Ratzinger al prof. Barth).
Questa tensione non è nuova nella storia della Chiesa e richiama a un superamento.
Il Vangelo riporta la questione di un dottore che voleva mettere alla prova il Signore (Mt 22,36-40; Mc 12,28-34). “‘Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?’. Gli rispose: ‘Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso’” (Mt 22,36-39).
Il movimento liturgico ha perseguito la partecipazione attiva di tutti al sacrificio eucaristico. Tale fine lodevole non è forse diventato, poiché lo si è mal compreso, il fine stesso della celebrazione? L’esortazione apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis ricorda: “Conviene pertanto mettere in chiaro che con tale parola [actuosa participatio] non si intende fare riferimento ad una semplice attività esterna durante la celebrazione. In realtà, l'attiva partecipazione auspicata dal Concilio deve essere compresa in termini più sostanziali, a partire da una più grande consapevolezza del mistero che viene celebrato e del suo rapporto con l’esistenza quotidiana” (n. 52).
Oggi, il motu proprio risponde al desiderio del cuore inquieto di numerosi sacerdoti. Se si riconoscono come servitori della parte del gregge loro affidato, sono altresì gli amici di Dio, e hanno bisogno d’incontrarlo, di nutrirsi di lui attraverso la celebrazione della liturgia.
Lavorare per ricentrare questa celebrazione sul mistero, pur conservando gli apporti della riforma, sembra dunque un sostegno alla vita spirituale dei sacerdoti, come anche l’accoglienza di un sensus fidelium al quale Papa Francesco invita così spesso a essere attenti, come una sfida per la Chiesa.
Reintrodurre ad libitum gesti come i segni di croce, le genuflessioni, le riverenze, consentire la preghiera dell’offertorio della forma extraordinaria, come pure la possibilità di recitare il canone in silenzio, sarebbero dei semplici passi da mettere in atto nella forma ordinaria.
Benedetto XVI ha aperto una via in tal senso, scrivendo nella lettera ai vescovi in occasione della pubblicazione del motu proprio Summorum Pontificum: “Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso”.
Recentemente un missionario nei Paesi asiatici ha scritto, a proposito dei cristiani che lo hanno sollecitato a celebrare la Messa nella forma extraordinaria: “Amano celebrare Dio con un rito accurato, ed essere collegati attraverso questa forma liturgica che ha nutrito tanti santi a una Chiesa universale la cui storia è lunga e ricca, ben anteriore al suo recente arrivo nel Paese”. Non parliamo del missionario per il quale la celebrazione, anche in latino, è più agevole che nella lingua del posto.
Non dà conforto ritrovare in Asia i medesimi sentimenti che troviamo nei sacerdoti che vengono a imparare la forma extraordinaria a Fontgombault? Questo tesoro, questa storia lunga e ricca che incontrano, è l’universalità della Chiesa che, presente in una civiltà, in un tempo e in un luogo, domina le civiltà, i tempi e i luoghi.
Questa Chiesa che è, secondo l’insegnamento di Lumen Gentium, mistero e sacramento, vede questa ricchezza e al contempo questa tensione del suo essere, riflettersi nella sua liturgia in due ethos celebrativi, il misterico e il sociale (cfr. François Cassingena-Trévedy, Te Igitur, Ad Solem, Ginevra 2007, cap. 6, pp. 81-82), la forma extraordinaria e la forma ordinaria. Essa non può risolversi a lasciarli opporsi. Così il più bel frutto del motu proprio è probabilmente ancora a venire. Nascerà dal rifiuto di un “messale di prima” e un “messale di dopo”. Per nulla considerata dai Padri conciliari, l’esistenza di due forme del rito romano richiama a una convergenza, un mutuo arricchimento auspicato da Papa Benedetto XVI per il bene della Chiesa e della sua liturgia, e che risponde alle parole stesse del Figlio: “perché tutti siano una sola cosa” (Gv 17,21). Allora tutti potranno fare proprie le parole pronunciate da Papa Benedetto XVI nel discorso all’Abbazia di Heiligenkreux del 9 settembre 2007: “vi chiedo: realizzate la sacra liturgia avendo lo sguardo a Dio nella comunione dei santi, della Chiesa vivente di tutti i luoghi e di tutti i tempi, affinché diventi espressione della bellezza e della sublimità del Dio amico degli uomini!”.

[Dom Jean Pateau O.S.B., Padre Abate dell’abbazia Notre-Dame di Fontgombault, “Fruits de la grâce du motu proprio Summorum Pontificum pour la vie monastique et la vie sacerdotale”, conferenza in occasione del V Convegno sul motu proprio Summorum Pontificum, dal titolo Il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI: Una rinnovata giovinezza per la Chiesa, svoltosi a Roma, presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino, il 14 settembre 2017. Trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 5 - fine (la prima parte qui; la seconda parte qui; la terza parte qui; la quarta parte qui)]

Share/Save/Bookmark