I gesti
Mentre abbiamo sottolineato l’aspetto
contemplativo della forma extraordinaria, può sembrare paradossale soffermarci
ora al posto del corpo, sollecitato da un gran numero di gesti: genuflessioni,
riverenze, segni di croce. La liturgia è un’azione!
Osserviamo che la giornata monastica
associa anch’essa ampiamente il corpo alla preghiera, in una liturgia che si
estende dal mattino alla sera.
Il mondo, peraltro così attivo, si è
accomodato a uno svilimento del gesto, accentuato dai mezzi moderni di
comunicazione. In maniera paradossale, l’uomo moderno si muove, è più attivo,
ma svolge meno gesti. La riforma liturgica aveva in un certo senso anticipato
questo fenomeno della società. Al contrario, come non notare l’importanza che
il Signore dà ai gesti, sia nei suoi miracoli sia nei suoi rapporti con il
prossimo (“Chi mi ha toccato?”, dice a riguardo della donna che aveva perdite
di sangue, Lc 8,45). La fede del sacerdote, quella dei fedeli, guadagnano
alla presenza dei segni sensibili, compiuti in verità, al fine di essere
stimolati, attenti, presenti (cfr. san Tommaso d’Aquino, Summa Theologica,
IIIa Q.85, a.3).
A partire dalla consacrazione, i gesti,
compiuti attorno alle specie del pane e del vino, imprimono fino nel corpo il
richiamo costante della realtà del Calvario rappresentato e reso realmente
presente. A condizione di dare a ciascuno di essi, senza affettazione, il peso
del significato spirituale che gli conviene, il corpo si associa in maniera
intensa allo spirito e all’anima, incarnando la parola, manifestando l’umiltà
di colui che è di fronte al mistero di Dio presente. Il timore reverenziale
s’installa allora nel cuore, dando all’uomo il suo giusto posto. La messa non è
solo una cena, è anche un sacrificio.
Compiuti in maniera negligente, questi
stessi gesti accuseranno senza pietà il ministro.
Attraverso la celebrazione della forma
extraordinaria, i sacerdoti riscopriranno l’importanza dell’ars celebrandi e
sapranno trarne beneficio per una migliore celebrazione nell’una o nell’altra
forma. “L’apparente minuzia richiesta dal rito… non spinge il celebrante in una
rigida camicia di forza, ben al contrario, il sacerdote si trova in un quadro
stabilito che non lascia spazio alle iniziative personali e gli dà quindi una
grande libertà di spirito per essere attento al grande mistero che si compie
sull’altare e di cui è il ministro e il servitore” (Dom Antoine Forgeot, premessa
all’opuscolo di don Pierre-Emmanuel Desaint, Apprendre la célébration de la
Messe basse selon le Missel de 1962, Editions Petrus a Stella, Abbaye Notre-Dame
de Fontgombault 2009). Di fatto, la forma extraordinaria è più lunga, più
esigente da apprendere. In seguito, essa libera il celebrante. Paradossalmente,
la forma ordinaria – lasciando spazio a una maggiore libertà – può condurre a
una certa esagerazione liturgica dannosa per l’incontro del Mistero nel suo
spogliarsi.
Così scriveva san Giovanni Paolo II: “la
Sacra Liturgia esprime e celebra l'unica fede professata da tutti ed essendo
eredità di tutta la Chiesa non può essere determinata dalle Chiese locali
isolate dalla Chiesa universale” (Ecclesia de Eucharistia, 51). A fortiori,
essa non è la proprietà del sacedote o di un’équipe liturgica. Il
rito liturgico va sempre recepito umilmente. Comprenderlo necessita la
conversione evocata in esordio, che in prima battuta può respingere. Vi è là
come un passo da fare nella fede, nella fiducia inoltre nella pedagogia della
Chiesa, che sa come condurre l’uomo verso il mistero.
Per
il monaco sacerdote, la ricchezza dei riti del messale tridentino è senza fine.
È già difficile esprimere brevemente ciò che si sperimenta giorno dopo giorno
lungo la vita nell’intimità che procura al monaco sacerdote la messa, quale che
sia il rito; ma non meno difficile provare a mettere in luce ciò che apporta in
quest’ambito un rito sapientemente codificato a partire da una tradizione di
oltre dieci secoli e che ha forgiato così tanti santi.
Dal
primo momento, le preghiere ai piedi dell’altare invitano a lasciare la parte
anteriore del tempio – il profano – per raggiungere il luogo santo, l’altare
di Dio: Introibo ad altare Dei. Il sacerdote è chiamato a fare propria
l’angoscia del giardino degli ulivi: Judica me, Deus, et discerne causam meam
de gente non sancta... tristis est anima mea... Egli è al contempo nell’anima del Salvatore e in quelle di
tutti i peccatori, compassionevole per la loro miseria e presentandola al
sangue redentore. Bisognerebbe seguire i riti passo dopo passo: numerosi
commentatori lo hanno fatto, in particolare nel Medioevo; poi sono stati
screditati da sapienti liturgisti, che sezionando le cause storiche dei riti,
hanno dimenticato che lo Spirito Santo opera per mezzo delle cause seconde e
può fare adottare certi gesti o talune formule per ragioni certamente
umanamente spiegabili, ma dando loro un significato e delle conseguenze
spirituali molto più profonde di quanto la ragione immediata non può lasciare
intendere.
Da questo punto di vista, la riscoperta del
messale del 1962 è stata vissuta dai monaci di Fontgombault come un
arricchimento. Che invito, per il monaco che non ha null’altro da fare che
lasciarsi prendere dal mistero e trascorrervi del tempo…
Consentitemi una riflessione in vista di un
esame di coscienza. L’argomento che consente di stabilire che il messale del
1962 non può essere abrogato è la natura della riforma, che rimodella
profondamente quel messale e in cambio gli dà il diritto di sussistere come
tale. Nella lettera ai vescovi di Benedetto XVI in occasione della
pubblicazione del motu proprio, è scritto: “Nella storia della Liturgia c’è
crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori
era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente
del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti
conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della
Chiesa, e di dar loro il giusto posto”. Perché tante ricchezze lasciate da
parte, si dice oggi? La vera domanda non sarà piuttosto: perché tanti sacerdoti
che all’epoca celebravano secondo il messale del 1962 non hanno avuto coscienza
di svendere l’eredità liturgica della Chiesa? Celebrare un rito quindi non
basta? Hanno incontrato abbastanza il mistero?
Con il motu proprio Summorum Pontificum Benedetto XVI invita a correggere due errori liturgici: il razionalismo che
disseziona e il formalismo rubricista.
Ricordiamo inoltre il primo articolo del
motu proprio, in cui è detto: “Queste due espressioni della ‘lex orandi’
della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella ‘lex credendi’
(‘legge della fede’) della Chiesa”. Di fatto, la Chiesa cresce come prega. L’unità
del rito che si esprime sotto due forme partecipa dell’unità della fede. Al
contempo, ogni forma ha il dovere di esprimere al meglio l’unità del rito, e
così di partecipare dell’unica fede. Se il Concilio Vaticano II ha promosso un’apertura
della Chiesa al mondo, gli ultimi Papi hanno altresì ricordato che quest’apertura
non poteva andare a scapito della confessione integrale del mistero di Dio e di
Gesù Cristo, senza correre il rischio per la Chiesa di diventare una semplice
ONG (cfr. la prima omelia di Papa Francesco, 14 marzo 2013).
La
Messa letta
Un
ultimo punto merita di essere affrontato, riguardante l’uso della
concelebrazione. Dopo avere ricordato che la concelebrazione “manifesta in modo
appropriato l’unità del sacerdozio”, la costituzione Sacrosanctum Concilium (nn.
57-58) ne ha esteso la facoltà, sebbene entro limiti precisi e relativamente
ristretti (n. 57). In ambito monastico, il testo è stato inteso come un invito
alla concelebrazione quotidiana.
Questa
facoltà ormai quasi generalizzata ha semplificato e concentrato il lavoro dei
sacristi. Ha altresì decongestionato l’impiego del tempo mattutino dei monaci.
Forse
sarebbe necessario chiedersi se questi non soffrono in cambio di un detrimento alla
loro pietà liturgica?
Tenere
ogni giorno nelle proprie mani l’ostia santa e immacolata, il calice prezioso
del sangue del Signore, sostenere l’azione della messa, il dialogo con il Padre
eterno, o partecipare a una concelebrazione con i propri fratelli, non sono affatto
la medesima cosa. Nel caso di una comunità numerosa, il monaco sacerdote può
sperare di presiedere tuttalpiù una decina di volte l’anno la messa conventuale.
Al
contrario, al termine dei lunghi uffici di Mattutino e delle Lodi, la
celebrazione quotidiana di messe lette da ciascuno dei sacerdoti, compie come
la conclusione naturale la preghiera diurna e apre alla comunione sacramentale
e ai santi misteri che nutrono la Chiesa. È a questa comunione, spirituale
questa volta, che l’assistenza alla messa conventuale diurna convoca i monaci.
In
questo senso il motu proprio favorisce la pietà liturgica mediante un ritorno
delle messe lette. Sembra tuttavia che ciò sia stato poco recepito in ambiente
monastico.
In conclusione di questa prima indagine, la forma extraordinaria appare
come rivolta a Dio, sollecitando l’uomo al contempo nella grandezza e nella debolezza
della sua umanità.
[Dom Jean Pateau O.S.B., Padre Abate dell’abbazia Notre-Dame di Fontgombault, “Fruits de la grâce du motu proprio Summorum Pontificum pour la vie monastique et la vie sacerdotale”, conferenza in occasione del V Convegno sul motu proprio Summorum Pontificum, dal titolo Il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI: Una rinnovata giovinezza per la Chiesa, svoltosi a Roma, presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino, il 14 settembre 2017. Trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 3 - continua (la prima parte qui; la seconda parte qui)]