Joris-Karl Huysmans (1848-1907) |
[La scorsa settimana abbiamo annunciato l’uscita della prima traduzione italiana del romanzo di Joris-Karl Huysmans (1848-1907), L’oblato, decimo titolo della collana “Magna Europa” diretta da Giovanni Cantoni, pubblicato da D’Ettoris Editori, tradotto dalle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo, con ampia ed erudita Presentazione (pp. 7-33) di Ferdinando Raffaele (Crotone 2016, pp. 396, euro 21,90, ordini diretti tramite la e-mail info@dettoriseditori.it). Nel segnalare ai lettori che il volume è in vendita anche tramite il sito Internet dell’editore con lo sconto del 15% sul prezzo di copertina e senza spese di spedizione, offriamo in anteprima un secondo brano (pp. 335-338) di questo autentico “romanzo liturgico”.]
«Non
è da oggi che la riforma del Breviario è ritenuta necessaria», replicò dom
Felletin. «I secoli hanno tramandato la preoccupazione per queste revisioni.
Legga le Istituzioni Liturgiche del nostro padre dom Guéranger e la storia del
breviario romano dell’Abate Batiffol e vedrà che non c’è un’epoca nella quale i
reclami del clero non si siano estesi fino a Roma.
Opera
anonima, prodotto, come il canto piano dal genio e la pietà dei secoli, il
Romano aveva raggiunto una reale perfezione alla fine del secolo VIII. Si
conservò pressoché intatto fino alla fine del XII. Corretto nel XIII a uso dei
frati minori dal loro ministro generale padre Aimone, fu di uso grazie al suo
interessamento in tutte le diocesi e finì per abolire il testo originale. Ora i
cambiamenti dei francescani erano semplicemente deplorevoli. Infarcivano l’Ufficio
di frasi interpolate o dubbiose, l’ingombravano di racconti apocrifi o inutili,
inauguravano un sistema che prevedeva il sacrificio del Temporale al Santorale.
Così com’è, questo Ufficio sopravvisse fino al secolo XVI. Allora Papa Clemente
VII volle rivederlo da capo a fondo. Si indirizzò a un cardinale spagnolo,
appartenente anche lui all’Ordine di san Francesco, e dal lavoro di questa
eminenza uscì quello che è chiamato il breviario di Quignonez, una compilazione
ibrida, senza capo né coda, estranea a ogni tradizione. Lo si dovette subire,
ma non per lungo tempo questa volta, perché ventidue anni dopo la sua
pubblicazione, un rescritto di Papa Paolo IV proibì che lo si rieditasse.
Questo
sovrano Pontefice conferì al Concilio di Trento un nuovo progetto per l’Ufficio
canonico, ma morì e fu il suo successore Pio V che lo riprese. Intendeva
ripristinare l’antico Ordo e sfoltirlo dai testi parassiti che lo soffocavano;
propose anche come principio di non accogliere facilmente feste per nuovi santi,
per paura di usurpare il posto riservato a epoche successive e, quando il
lavoro fu terminato, lo decretò obbligatorio per tutti, decise che non avrebbe
mai potuto essere modificato e depennò i breviari datati meno di duecento anni.
Il
suo non era perfetto, ma quanto superiore a quelli che rimpiazzava! Aveva
almeno ripristinato l’uso dell’antifonale e il responsorio dell’epoca di Carlo
Magno e arretrato l’Ufficio dei Santi rispetto all’Ufficio del Tempo.
Trent’anni
dopo, nonostante il divieto di Pio V di modificare, in tutto o in parte, la sua
opera, il suo immediato successore Papa Clemente VIII, giudicandola non
corretta o incompleta, a sua volta la manipolò e la corresse, e agendo in senso
inverso assicurò la preponderanza del santorale a spese dei giorni festivi; ciò
che si era guadagnato con Pio V, lo si perse con Clemente.
Ecco
già un numero elevato di revisioni del breviario. Aggiungiamo anche Urbano VIII
nel secolo XVII. Questo Papa essendo poeta latino dotò l’Ufficio di due inni di
sua composizione, quello per san Martino e uno per santa Elisabetta del
Portogallo, due mediocri sequenze che non lasciano alcuna eredità, ma quel che
è peggio, è che ordinò di manipolare le antiche e queste sono – ahimè! – quei
riaggiustamenti che il Romano canta ancora!
La
storia del breviario romano si ferma qui, perché non considero le diverse
innovazioni introdotte di recente nella parte della traslazione delle feste;
non toccano affatto, infatti, il cuore e la vita stessa dell’Ufficio.
Quanto
alla Liturgia gallicana, esaminando la sua struttura, si può crederla sorta in
parte dalle chiese d’Oriente. Fu ai suoi inizi, insomma, una saporosa mistura
di riti dal Levante e da Roma; fu smantellata sotto il regno di Pipino il
Breve, in particolare di Carlo Magno che, spinto da Papa Adriano, diffuse la
liturgia romana nelle Gallie.
Durante
il Medio Evo, si accrebbe di inni meravigliosi, di deliziosi responsori; creò
tutta una serie di testi simbolici, ricamò sulla trama italiana i più candidi
ori. Quando fu promulgata la bolla di Pio V, la liturgia francese, che aveva
quasi otto secoli di vita, era libera di non accettare il breviario riformato
romano. Lo accolse per deferenza. I vescovi distrussero l’opera di artisti
locali, bruciarono, per così dire, i loro Primitivi. Ne salvarono in ogni caso
solo qualcuno che rinchiusero nella piccola sacrestia del Proprio diocesano.
Solo la metropoli di Lione mantenne intatto il suo deposito e le siamo debitori
per poter ascoltare, nell’antica basilica di San Giovanni, delle orazioni molto
arcaiche e degli scritti che ispirano venerazione.
La
perdita di antiche consuetudini e l’eliminazione di antiche preghiere furono,
se lo consideriamo solo dal punto di vista archeologico e artistico, atti di
vera barbarie, di puro vandalismo. Ogni carattere di originalità scomparve
dall’Ufficio».
«Sì»,
interruppe Durtal, «fu qualcosa come un rullo compressore che livellò tutte le
strade liturgiche in Francia!».
«Alla
fin fine», riprese il monaco, «questo edificio fatto di pezzi e frammenti durò,
bene o male, fino al regno di Luigi XIV. Allora, le idee gallicane e il giansenismo
intervennero e la demolizione della struttura tante volte riparata si completò.
Si
abbatté il breviario Romano e si riedificò su nuove basi.
Allora
abbiamo avuto le opere di Harlay, de Noailles, Vintimille. Questi prelati
sconvolsero dalle fondamenta il salterio, ammisero solo antifone e responsori
tratti dalle Scritture: depennarono le leggende dei santi, ridussero il culto
della Vergine Maria, estromisero una serie di feste, sostituirono gli antichi
inni con delle poesie di Coffin e di Santeuil. Lo si ricoprì di eresie
gianseniste in un latino paganeggiante. Il breviario di Parigi fu una specie di
manuale protestante che i giansenisti parigini divulgarono in provincia.
Si
produsse nelle diocesi, dopo poco tempo, una vera anarchia; ognuno si fabbricò
un Ufficio a suo uso, ogni fantasia era ammessa. Si viveva sotto il regime del
beneplacito dell’Ordinario, quando dom Guéranger riuscì a riportare l’unione
nella preghiera nel nostro paese facendo adottare, una volta per tutte, i riti
della chiesa di Roma.
Adesso
la cristianità è perciò – salvo gli Ordini religiosi i cui breviari avevano,
come il nostro, più di duecento anni, quando apparve la bolla di Pio V –
soggetta all’egemonia del Romano come l’ha sistemato, guastandolo, Urbano VIII.
Lascia
molto a desiderare, ma alla fin fine, così com’è, malgrado l’incoerenza che gli
rimproverate, e aggiungerei io malgrado la scelta più che mediocre dei suoi
capitoli e delle sue lezioni, rappresenta almeno un ampio, magnifico insieme.
Raccoglie
brani di grande bellezza; pensi alle Messe penitenziali della Quaresima e
dell’Avvento, a quelle delle Quattro Tempora, alla festa delle Palme; si
ricordi il meraviglioso Ufficio della Settimana Santa e la Messa per i defunti;
rammenti le antifone, i responsori, gli inni di Avvento, Pentecoste, Ognissanti,
Natale ed Epifania; consideri i Mattutini, le Lodi, il meraviglioso Ufficio di
Compieta e ne converrà che non esistono, in nessuna letteratura al mondo,
pagine altrettanto splendide e luminose».
«Sono
d’accordo, padre».