Recentemente
un giovane sacerdote mi ha detto: “Oggi ci vorrebbe un nuovo movimento
liturgico”. Si tratta dell’espressione
di una preoccupazione, che in questi tempi solo degli spiriti volontariamente
superficiali potrebbero scartare. Ciò che importava a questo sacerdote, non era
di conquistare nuove e audaci libertà: quali libertà non ci siamo già arrogati?
Egli sentiva che abbiamo bisogno di un nuovo inizio, che sgorghi dall’intimo
della liturgia, come l’aveva voluto il movimento liturgico quando si trovava
all’apice della sua autentica natura, quando non si trattava di fabbricare
testi, d’inventare azioni e forme, ma di riscoprire il centro vivente, di
penetrare nel tessuto propriamente detto della liturgia, affinché l’adempimento
di questa fuoriesca dalla sua stessa sostanza. La riforma liturgica, nella sua
concreta realizzazione, si è allontanata sempre più da questa origine. Il
risultato non è stata una rianimazione, ma una devastazione. Da una parte, si
ha una liturgia degenerata in “show”, nella quale si cerca di rendere la
religione interessante mediante sciocchezze alla moda e massime morali
seducenti, con dei successi momentanei nel gruppo dei fabbricanti di liturgia,
e un’attitudine all’arretramento tanto più pronunciata presso coloro che
cercano nella liturgia non lo “showmaster” spirituale, ma
l’incontro con il Dio vivente davanti al quale ogni “fare” diventa
insignificante, essendo solo questo incontro capace di farci accedere alle
autentiche ricchezze dell’essere. D’altro canto, c’è la conservazione di forme
rituali la cui grandezza emoziona sempre, ma che, spinte all’estremo,
manifestano un isolamento ostinato e alla fine non lasciano altro che
tristezza. Certo, tra i due rimangono tutti i sacerdoti e i loro parrocchiani
che celebrano la nuova liturgia con rispetto e solennità; ma costoro vengono
messi in discussione dalla contraddizione tra i due estremi, e la mancanza di
unità interna nella Chiesa alla fine fa apparire la loro fedeltà, a torto per
molti di loro, come una semplice variante personale di neo-conservatorismo. Poiché
le cose stanno così, è necessario un nuovo impulso spirituale affinché la
liturgia sia di nuovo per noi un’attività comunitaria della Chiesa, e che sia strappata
all’arbitrio dei curati e delle loro équipe
liturgiche.
Non
si può “fabbricare” un movimento liturgico di questo genere – non più di quanto
si possa “fabbricare” qualcosa di vivente –, ma si può contribuire al suo
sviluppo sforzandosi di assimilare nuovamente lo spirito della liturgia e
difendendo pubblicamente ciò che si è ricevuto. Questo nuovo inizio ha bisogno
di “padri” che siano dei modelli e che non si accontentino d’indicare la strada
da seguire. Chi cerca oggi tali “padri” incontrerà immancabilmente la persona
di mons. Klaus Gamber [1919-1989], che ci è stato purtroppo portato via troppo
presto, ma che forse, precisamente nell’abbandonarci, ci è divenuto
autenticamente presente in tutta la forza delle prospettive che ci ha
dischiuso. Proprio perché lasciandoci sfugge alla diatriba delle parti, egli potrebbe
in questo momento di sconforto, diventare il “padre” di un nuovo inizio. Gamber
ha portato con tutto il suo cuore la speranza dell’antico movimento liturgico.
Senza dubbio, venendo da una scuola straniera, è rimasto un “outsider” sulla scena tedesca, dove non
lo si voleva veramente accogliere; ancora di recente una tesi ha incontrato
difficoltà importanti perché la giovane ricercatrice aveva osato citare Gamber
troppo estesamente e con troppa benevolenza. Ma forse questo essere messo da
parte è stato provvidenziale, perché ha costretto Gamber a seguire la propria strada
e gli ha evitato il peso del conformismo.
È
difficile esprimere in poche parole ciò che, nella disputa tra i liturgisti, è
veramente essenziale e ciò che non lo è. Forse la seguente indicazione potrà risultare
utile. Josef Andreas Jungmann S.J [1889-1975], uno dei veri grandi liturgisti
del secolo XX, aveva definito a suo tempo la liturgia, tale quale la s’intendeva
in Occidente rappresentandola soprattutto attraverso la ricerca storica, come
una “liturgia frutto di uno sviluppo”; probabilmente anche per contrasto con la
nozione orientale, che non vede nella liturgia il divenire e la crescita
storici, ma solo il riflesso della liturgia eterna, la cui luce, attraverso lo
svolgimento sacro, illumina il nostro tempo mutevole con la propria bellezza e la
sua grandezza immutabili. Le due impostazioni sono legittime e, in definitiva,
non sono inconciliabili. Ciò che è avvenuto dopo il Concilio significa
tutt’altro: al posto della liturgia frutto di uno sviluppo continuo, è stata
messa una liturgia fabbricata. Si è usciti dal processo vivente di crescita e
di sviluppo per entrare nella fabbricazione. Non si è più voluto proseguire il
divenire e la maturazione organici del vivente attraverso i secoli, e li si è
rimpiazzati – come se si trattasse di una produzione tecnica – con una
fabbricazione, prodotto banale del momento. Gamber, con la vigilanza di un
autentico veggente e con il coraggio di un autentico testimone, si è opposto a
questa falsificazione e ci ha insegnato instancabilmente la viva pienezza di un’autentica
liturgia, grazie alla sua conoscenza incredibilmente ricca delle fonti. Uomo
che conosceva e amava la storia, egli ci ha mostrato le molteplici forme del
divenire e del percorso della liturgia; uomo che vedeva la storia dall’interno,
egli ha visto in questo sviluppo e nei frutti di esso il riflesso intangibile
della liturgia eterna, che non è oggetto del nostro fare, ma che può continuare
meravigliosamente a maturare e fiorire, se ci uniamo intimamente al suo
mistero. La morte di quest’uomo e sacerdote eminente dovrebbe stimolarci; la
sua opera potrebbe aiutarci a prendere un nuovo slancio.
[Card. Joseph Ratzinger, in
Klaus Gamber, La réforme liturgique
en question, trad. fr., Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1992, pp.
6-8]